Recensione

Simonetta Ceglie, Mauro Geraci (a cura di), Musine Kokalari. La mia vita universitaria. Memorie di una scrittrice albanese nella Roma fascista (1937-1941), Viella, Roma, 2017

Laura Faranda

Università di Roma La Sapienza, Dipartimento di Storia Culture Religione, Roma, Italy

Musine Kokalari, riconosciuta oggi in Albania con la massima onorificenza civile di «Onore della Nazione», è stata la prima scrittrice e poetessa albanese del Novecento sensibile alla nascente “questione femminile” e alla miseria delle società rurali. La riabilitazione politica e il riconoscimento letterario hanno risarcito tardivamente la storia drammatica di questa ragazza-uragano, impegnata politicamente alla ricerca di una via democratica, ostile a ogni dittatura e condannata per ciò stesso dal regime comunista al carcere e all’isolamento forzato dal 1946 fino al momento della sua tragica morte, avvenuta nel 1983.

Nel 1937 Musine approda a Roma per laurearsi in Lettere alla “Sapienza”. Di questa sua esperienza formativa stende un diario in lingua italiana, nel quale registra giorno dopo giorno la sua avventura romana e che a distanza di cento anni dalla sua nascita vede ora la luce sotto forma di libro, in quella stessa lingua di adozione in cui fu scritto a Roma. Il volume è stato accolto significativamente dalla prestigiosa collana «La memoria restituita. Fonti per la storia delle donne», diretta da Marina Caffiero e Manola Ida Venzo ed è pensato anzitutto come tributo alla stagione giovanile di Musine Kokalari.

Con una accurata e appassionata introduzione al volume, Mauro Geraci, antropologo, ci accompagna per mano nella raccolta sistematica di impressioni, movimenti storici e culturali, turbamenti esistenziali, inaugurali intuizioni politiche che la giovane e brillante studentessa rileva durante il soggiorno romano attraverso un costante esercizio antropologico dell’ascolto, dello sguardo, dell’estraniamento critico. Dal canto suo Simonetta Ceglie, storica e archivista, ci introduce in modo esemplare al testo storicizzandone il valore testimoniale, ricostruendo il contesto universitario dell’epoca, restituendoci tutti i documenti corredati alla redazione del manoscritto: dalla corrispondenza privata con i familiari, amici, conoscenti albanesi al fondo Kokalari oggi depositato presso l’Archivio centrale di Stato di Tirana; dalla consistenza originaria del dattiloscritto autografo ai criteri di trascrizione e di edizione adottati.

Il libro si propone così come una sorta di viaggio di ritorno alle topografie simboliche giovanili di una scrittrice versatile, impegnata ora nella produzione poetica personale (La tosse della morte, 1937), ora nelle raccolte poetiche e narrative di tradizione orale della comunità d’origine (Attorno al focolare; ... Come cambia la vita, 1944), ora infine in una scrittura militante e struggente, edita postuma in due volumi nel 2000 e nel 2004 (Come nasce il Partito socialdemocratico. Articoli, appunti, saggi e memorie e Antologia delle ferite. Sotto il terrore comunista). Un viaggio, quello de La mia vita universitaria, che consente al lettore di estendere la nozione di ritorno – il ritorno in patria della giovane Musine – alla ricerca di un’origine, di una matrice identitaria, di una mappa critica che renda ragione del desiderio di restituzione politica di un’esperienza formativa ricca e multiforme. Il diario, del resto, come segnala Geraci nelle pagine introduttive, «non conclama solo l’avvio del progetto personale ma è contemporaneamente il testo in cui Musine individua i pilastri concettuali, interpretativi dell’intera sua poetica, applicandoli a una riflessione dei e sui fatti della storia italo-albanesse, all’avvicendarsi degli incontri, delle situazioni e relazioni che hanno segnato la sua stagione romana» [p. 47].

Ma il testo è anche pretesto riflessivo per una visione d’insieme della cifra critica e della fibra umana di Musine Kokalari, Musa albanese restituita al presente dai densi saggi introduttivi dei due curatori: dal sogno universitario alle sofferenze patite nella solitudine intollerabile di un regime di dura detenzione e poi di evitazione, di esclusione dalla vita sociale in quel villaggio di Rrëshen dove ognuno aveva l’obbligo di ignorarla, il divieto assoluto di rivolgerle la parola. La strategia del silenzio messa in atto dal regime ha l’intento di tacitare per sempre la voce dissonante di una militante coraggiosa: nei quattro anni che intercorrono tra il rientro da Roma e l’arresto, il processo sommario, la condanna, la voce del dissenso di Musine è stata del resto forte e chiara: è stata la voce della libertà, come organo di informazione del neonato partito socialdemocratico e come voce di denuncia della miseria della società rurale, delle discriminazioni politiche, dei pericoli di un populismo comunista di cui ha colto da subito il potenziale distruttivo e violento. È stata la voce che invocava elezioni democratiche, che chiamava all’appello le rappresentanze diplomatiche dei paesi occidentali, che veniva avvvertita in tutto il potenziale deflagrante dallo Stato comunista.

Degli scritti e del mandato etico, politico, antropologico di Musine Kokalari si parlerà ancora molto. Delle sue memorie giovanili resta in questo libro una traccia eloquente, che ci convoca a un nuovo registro di ascolto e che deporta la sua vita universitaria in un presente quanto mai ibrido e dinamico, dove ancora oggi l’avventura formativa di studenti stranieri nei nostri atenei può incoraggiarci a intendere questi spazi come campi di forze «in cui gli orizzonti di attese, le vedute, le posizioni politiche cambiano, scontrandosi continuamente e prestando il fianco a una nascente antropologia della contemporaneità e della complessità» [p. 48].