Scene da un "matrimonio"

Performance, genere e identità a Napoli

Eugenio Zito

Università degli Studi di Napoli Federico II Dipartimento di Scienze Sociali, Napoli, Italy

Table of Contents

La fontana rotta
I femminielli a Napoli tra plasmazioni e riplasmazioni
Femmin-iell-o
Femminielli, femmenelle/femminelle, effeminati
I femminielli e l’antica cultura mediterranea del femminile
Il matrimonio dei femminielli: una performance di ginomimesi
Scene da un “matrimonio” a Napoli
Disporsi all’attesa
Preparare il corpo, per-formare l’identità
Sancire l’appartenenza di genere: il trionfo della “femminilità”
Andare in scena: il corteo nuziale
Evviva gli “sposi”
Analisi e conclusioni
Riferimenti bibliografici

Abstract. In this paper, after having synthetically reconstructed the traditional role of the femminielli in Neapolitan society, intertwining linguistic analysis with historical, anthropological, literary and mythographic sources, and highlighting complex processes of molding and reshaping, I will focus on the singular ritual of “marriage”, by using visual material collected in the field during an ethnographic research carried out in Naples in 2010. Combining a perspective of diachronic analysis with a synchronic one, the deep cultural nature of the practices of construction of gender and of the social identity of such gender variant subjectivities is shown through the analysis of a still persistent traditional ritual device in a contemporary metropolitan context. Concepts as performance and gynomimetics are used for this analysis and the strong participation of the neighborhood community in their social life is highlighted.

Keywords. cultural anthropology; gender; marriage; femminielli; Naples

Le facciate colorate dei palazzi si curvavano sopra di me come antri.

Erano tutti ornati dal bucato.

Alcuni avevano ingressi piccoli, ad arco, e finestre infossate.

Altri un aspetto maestoso, con grandi portoni in filigrana di ferro.

In tutti, al pianterreno, c’erano le stesse abitazioni simili a caverne, i famosi bassi […].

Ho conosciuto meglio la città dalle facce della gente,

dal loro senso di sopportazione, dal fiume dei loro discorsi.

Per me i visi non avevano maschere a Napoli;

fragili o duri, giovani o vecchi, delicati o rozzi, senza vie di mezzo […].

L’intera scena si ritrae e lentamente si trasforma in un fregio,

vivacemente colorato, volto a dipingere una grande, rauca, Commedia […].

A Napoli il comportamento poteva rivelare la verità o mascherarla,

e spontaneità e artificio sfumavano l’uno nell’altra come le tinte di un acquerello […].

(Thomas Belmonte, La fontana rotta. Vite napoletane: 1974, 1983, 1997, pp. 42, 43, 46, 66)

La fontana rotta

Antichi palazzi maestosi, a volte fatiscenti o semplicemente meno imponenti, bucato steso al sole tra vicoli scalcinati e stretti, a ridosso di più scenografiche strade e di monumentali piazze, singolari bassi[1], brulicante umanità varia, fatta di corpi, voci, discorsi e sguardi, realtà mista a finzione, teatralità diffusa, sono solo alcune delle possibili parole dense evocate dalla descrizione di Thomas Belmonte citato a frammenti in epigrafe. Questi, attraverso una serrata e ricca narrazione etnografica, restituisce in modo vivido, anche sul piano sensoriale, come per metonimia, un’immagine intensa di una storica parte del centro di Napoli con la sua vita pulsante e la sua storia: i Quartieri Spagnoli. L’antropologo newyorkese visse in questa città in due fasi, nel 1974 e nel 1983. Ne trasse la monografia ripresa in apertura, alloggiando proprio ai Quartieri Spagnoli intorno a “Fontana del Re”, “La fontana rotta” che dà il titolo al suo lavoro, mostrandoci l’abisso umano dei poveri di Napoli, prima e dopo il terremoto del 1980, evento catastrofico che pure profondamente modificò la percezione e la vita della città, soprattutto nei suoi quartieri più antichi.

Quando nel 2002 “scesi” per la prima volta su questo stesso “campo” per raccogliere i dati della mia ricerca di dottorato appena cominciata, “caddi” improvvisamente, fuor di metafora, in quello che restava di quell’abisso. Carico di entusiasmo avevo finalmente ottenuto il primo appuntamento per intervistare Gina, uno dei femminielli della zona [Zito e Valerio 2010], che Anna Stanco, presidente dell’Associazione Quartieri Spagnoli, spendendo per me la sua autorevolezza in un contesto piuttosto chiuso e difficile [D’Aloisio 2007], mi aveva generosamente procurato, dopo miei precedenti vani tentativi di penetrare in quel singolare mondo. Nonostante ciò la giornata fu un disastro. Gina non si fece trovare nel luogo e nell’orario concordati, soltanto la settimana successiva seppi che aveva confuso la data. Così, dopo la lunga vana attesa, presi a girovagare nel quartiere deluso per la mancata intervista, ma piuttosto incuriosito da un contesto che conoscevo a malapena. Pochi minuti in giro tra vecchi palazzi e strette stradine in salita, perso nei miei pensieri e in un solo colpo, quasi senza accorgermene, fui rapinato di quasi tutto quanto portavo con me in quella circostanza, complice l’atmosfera solitaria della controra. Lo zainetto che mi fu bruscamente sottratto conteneva un buon registratore, un piccolo microfono, un telefono portatile, un taccuino, delle chiavi e il portafoglio con qualche soldo insieme ai miei documenti. Con prepotenza mi fu tirato dalla spalla destra da cui distrattamente pendeva. Furono le veloci ed esperte braccia di un ragazzo su un motorino scalcagnato, ma guidato abilmente da un altro giovane, a strapparmelo, mentre, nel primo pomeriggio di un maggio già infuocato, vagavo da solo per quei vicoli. In pochi secondi, incredulo e frastornato per l’accaduto, mi ritrovai confuso, metaforicamente “precipitato” nel fondo della “fontana rotta” di Belmonte [1997]. Con il furto e la materialità degli oggetti sottratta, dall’alto valore anche simbolico per me, oltre che pratico, avevo in pochi secondi perso tutte le mie certezze e sicurezze, i ferri di un mestiere che mi apprestavo ad apprendere e insieme a essi i riferimenti alla mia identità di ricercatore in formazione, quasi una metafora concreta di quello che spesso accade all’antropologo nel confronto con l’alterità con cui sceglie di misurarsi. Uno shock multiplo, insieme sensoriale, emotivo e cognitivo [Signorelli 2015], mi preparava involontariamente e concretamente a confrontarmi con la complessa realtà di cui di lì a poco mi sarei occupato, il singolare mondo degli ultimi femminielli di Napoli, come in una vigilia non attesa e perciò traumatica. In proposito ancora Belmonte, nel descrivere il tessuto umano dei luoghi da lui esplorati a Napoli fra il 1974 e il 1983, fa qualche riferimento a tali soggetti sociali quando scrive: «Infine ritornai verso la zona della mia prima esplorazione, il vecchio Quartiere Spagnolo. Di notte era luogo di prostitute, radunate attorno al fuoco, e di travestiti, col viso truccato come geishe» [Belmonte 1997, p. 43].

Chi sono realmente i femminielli [Zito e Valerio 2010, 2013; Zito 2013a, 2013b], di cui a distanza di qualche anno torno a parlare per mostrarne ancora degli aspetti? La risposta più immediata e calzante è certamente quella data da Simonelli e Carrano [1983, 1987], per i quali si tratta di uomini che vivono e “sentono” da donna, spesso abbigliati e truccati da donna, prostitute ma non necessariamente. Dunque soggetti per i quali sembrano saltare i tradizionali schemi di genere, che si riorganizzano in una modalità molto singolare, declinati entro una specifica cornice culturale. La molteplicità dei contributi di ricerca degli ultimi anni su questo tema non offre una definizione univoca e uniforme del fenomeno, così configurato certamente in via di estinzione. La più recente letteratura, muovendosi tra omosessualità effeminata e mediterranea, terzo genere, transgenderismo, travestitismo, transessualismo e trans-identità, ne coglie piuttosto sfaccettature diverse a seconda dei vertici di analisi di volta in volta scelti, a riprova dell’estrema complessità di quanto osservato e delle profonde trasformazioni in atto [Atlas 2010; Ceccarelli 2010; Zito e Valerio 2010, 2013; D’Amora 2013; Zito 2013a, 2013b; Lombardi Satriani 2014; Bertuzzi 2015; Mauriello 2017; Vesce 2017; Vincent e Manzano 2017]. Si tratta, infatti, di soggettività che sfuggono a una semplice definizione, ma che potremmo inquadrare, con una terminologia contemporanea, in una dimensione gender variant[2]. Presenti storicamente nell’area di Napoli e delle provincie limitrofe esprimono la propria identità sociale in una forma che non è né maschile né femminile, contenendole entrambe, con caratteristiche liminali e coerenti con il contesto in cui si declinano: Napoli, città europea protesa nel Mediterraneo, porosa, “schizofrenica” e contraddittoria, a metà strada tra stratificazioni arcaiche e spinte postmoderne. Tale metropoli sembra infatti coniugare un profilo di “città arcobaleno” [Corbisiero 2013; Corbisiero e Monaco 2017], come comunità di pratiche, omologazione identitaria e cittadinanza LGBT, con una tradizione di luogo queer e drag [Bernini 2017], così come mostra l’iconografia tradizionale dei femminielli stessi, soggetti sociali liminali, al confine tra i generi e tra tradizione/arcaismo e trasgressione/liberazione, riproponendo così un nuovo binarismo LGBT/queer [Zito e Valerio 2010, 2013; Zito 2013a]. Identità liminali in un contesto liminale [Turner 1969, 1983] dunque, strettamente legati nel loro divenire [Miano Borruso 2013]. Del resto qualsiasi processo di costruzione di identità è indissolubile dai percorsi storici del contesto sociale e culturale stesso entro cui tali identità si formano e si trasformano [D’Agostino 2010, 2013]. A Napoli, infatti, i femminielli hanno trovato la loro “nicchia ecologica” nei quartieri storici popolari, dove sono stati sempre accettati come realtà sociale riconosciuta, perché in grado di ritagliarsi un proprio ruolo e un proprio stile di vita. Affrontare sul piano antropologico questa realtà così complessa o qualcuno dei suoi aspetti, nel rapporto con la società napoletana, come si vedrà nel corso di questo contributo, significa da un lato confrontarsi con le teorie sul genere[3] [Piccone Stella e Saraceno 1996; Busoni 2000; Ortner e Whitehead 2000; Héritier 2002; Mattalucci 2012; Strathern 2016] e i movimenti di rivendicazione dei diritti delle persone LGBT con le relative istanze di cittadinanza [Corbisiero e Monaco 2017] e dall’altro interrogarsi sui rapporti stessi con la cultura popolare napoletana [Corvino 2017] tra continuità, tradizioni e profondi mutamenti [Ranisio 2003, 2013], entro cui va iscritto il fenomeno.

Molte culture, infatti, hanno contemplato e in alcuni casi contemplano tutt’oggi la possibilità di una mancata corrispondenza tra sesso biologico e modo soggettivo di vivere l’appartenenza a un dato genere sessuale, consentendo una frattura tra natura e cultura o in altri termini tra sesso e genere senza considerarla patologica, rimandandoci, a questo punto, a quella che è la natura culturale e performativa del genere [Butler 1990][4]. Questa possibilità di superamento della dicotomia polare maschio-femmina si è espressa non solo attraverso miti e rappresentazioni che hanno costellato l’immaginario collettivo di popoli e culture, ma si è anche manifestata in figure e ruoli sui generis che spesso sono stati motivo di forte richiamo e attenzione per gli antropologi. Ne sono esempi i berdache con il loro ruolo tribale presso gli indiani Mohave del Nord America [Callender e Kochems 1983; D’Agostino 1998, 2000], gli hijras con il loro ruolo religioso [Herdt 1993; Nanda 1999] ancora oggi presenti nel sub-continente indiano, i muxé della società zapoteca messicana [Miano Borruso 2002, 2011] e le fa’afafine delle isole Samoa [Mageo 1992; Schmidt 2003; Vesce 2016]. A Napoli troviamo i femminielli [Zito e Valerio 2010, 2013; Zito 2013a], così chiamati dalla gente da tanti anni e che, senza voler entrare in logiche comparative che rimando ad altra sede, presenterebbero, per altri aspetti, caratteristiche similari anche con il fenomeno mariquitas dell’Andalusia in Spagna [Cáceres Feria e Valcuende del Río 2014]. Il formarsi di un genere altro che integra femminile e maschile è quindi un dato presente in molte culture e in quasi tutte le epoche storiche, ma a Napoli assume caratteristiche proprie. Quella dei femminielli è una forte identità culturale possibile a partire da un corpo trasformato e travestito, una realtà complessa che si potrebbe considerare “endemica”, cioè legata particolarmente al territorio e alla popolazione della città. Essa rimanda a un mondo sorprendente di ieri e oggi, con i suoi riti e ruoli, con la sua vivacità sociale e la sua creatività, un mondo sempre pronto a trasformarsi per sopravvivere. Oggi tale mondo, tra processi di omologazione - per effetto della globalizzazione culturale - ai modelli dominanti di omosessualità e transessualità da un lato e di medicalizzazione dei percorsi delle persone transessuali stesse dall’altro [Zito e Valerio 2012; Mauriello 2013, 2014; Vesce 2017], potrebbe forse definitivamente tramontare, come pure è stato evidenziato [Romano 2013].

In questo articolo, coniugando una prospettiva di analisi diacronica con una sincronica[5], dopo aver sinteticamente ricostruito il ruolo tradizionale dei femminielli nella società napoletana, intrecciando analisi linguistiche con fonti storiche, antropologiche, letterarie e mitografiche, ci si soffermerà sul singolare rito del “matrimonio”, anche con il ricorso a materiale visuale raccolto sul campo nel corso di una ricerca etnografica. Nell’indagine saranno evidenziati i complessi processi di plasmazione e riplasmazione di tali soggettività gender variant, utilizzando come chiavi di lettura della ritualità osservata i concetti di performance e ginomimesi. In particolare, attraverso l’analisi di una di queste performances svolta ai Quartieri Spagnoli nel centro storico di Napoli nel novembre del 2010 e documentata da foto di seguito presentate, viene mostrata la natura profondamente culturale delle pratiche di costruzione del genere e dell’identità sociale dei femminielli. La partecipazione ad alcuni riti di cui i femminielli sono gli “officianti” infatti, come in particolare ‘o spusarizio/il matrimonio di cui si parlerà, ma anche il parto e il battesimo, a cui prende attivamente parte tutta la comunità, come sarà evidente dalle immagini che seguono, costituisce una significativa prova della grande integrazione e del notevole riconoscimento di cui queste figure umane possono godere entro una precisa cornice simbolica e culturale, quella dei vicoli e dei quartieri cui storicamente appartengono. Tale intensa partecipazione rimanda inoltre a veri e propri processi di “quasi” patrimonializzazione in atto nei loro confronti, come sembrano suggerire anche l’aumentato interesse scientifico sul tema negli ultimi anni, la costituzione di forme associative di “categoria”[6] e la più recente narrativa[7] sulla città, addirittura con il rischio qualche volta di alimentare retoriche contemporanee e celebrative fino alla loro “musealizzazione” [Vesce 2013].

I femminielli a Napoli tra plasmazioni e riplasmazioni

I femminelli rappresentano un genere al confine e di confine [Zito e Valerio 2010, 2012, 2013], che coniuga arcaicità e postmodernità, ovvero le caratteristiche di un mondo e di una dimensione socio-culturale non più esistenti con quelle indicate come conquiste del pensiero e della prassi contemporanea [Gressgård 2010; Bernini 2017]. La radice, l’origine e l’evoluzione del fenomeno sono storicamente oscure. Non sembra esserci ancora un filo continuo, accertato con documenti, che giunga fino ai nostri giorni e che confermi la tradizionale credenza popolare di una loro origine addirittura coincidente con quella della città [Zito e Valerio 2010]. È una credenza che nasce dalla fusione di diversi miti che si sono stratificati e sovrapposti nella più che millenaria vicenda storica della città di Napoli, dove si sono incontrati popoli e civiltà diversi. Tuttavia è immediato il richiamo alla figura della Sirena Partenope[8] come idea del doppio e dell’autosufficiente, cui è legato il mito di fondazione della città [Moro 2008]. Intanto ad oggi sembra che sopravvivano solo pochi femminielli, spesso anziani, che conservano ancora le caratteristiche e lo stile di vita tradizionale e che il fenomeno stia scomparendo a causa dei cambiamenti sociali prodotti, da un lato, dalla moltiplicazione delle diversità identitarie, dall’altra, da una spinta globale all’omogeneizzazione culturale e alla normalizzazione sessuale sostenuta dalla cultura biomedica e resa possibile dai suoi avanzamenti tecnici e scientifici [Zito e Valerio 2012; Mauriello 2013, 2014; Vesce 2017]. Anche la metamorfosi del tessuto urbano della città degli ultimi anni, con i nuovi flussi migratori extracomunitari, il significativo incremento del turismo nel centro storico e una perdita dell’equilibrio legato alla vecchia struttura del vicolo napoletano con la sua tipica economia ormai quasi scomparsa, in particolare dei suoi quartieri popolari gradualmente dopo il terremoto del 1980, potrebbe probabilmente aver contribuito a innescare meccanismi di trasformazione e progressiva estinzione del fenomeno[9]. Forse i femminielli, con il loro complesso mondo fatto di travestimento, ambiguità, superamento fluido delle barriere sessuali [Garber 1994] che attinge al grande serbatoio della cultura napoletana, intesa come popolare, tradizionale, capace di grande tolleranza e apertura, contenitiva e conciliante, in grado di conservare ambivalenze e contraddizioni e di realizzare impossibili integrazioni [Ranisio 2013; Corvino 2017], vivono oggi una profonda e intrinseca trasformazione, mantenendo continuità ed evidenziando differenze [Di Nuzzo 2009, 2013; Zito e Valerio 2010, 2013; Zito 2013b; Romano 2013]. Questo tipo di identità si sta “deteriorando” perché si sta sgretolando quel particolare habitat socio-culturale che ha sempre consentito ai femminielli la libera espressione di tutta una serie di manifestazioni ritualizzate tipiche e la possibilità di conciliare l’esercizio di attività nelle quali potevano confluire e con-fondersi ruoli maschili e femminili. Da questa estinzione avrebbero avuto inizio anche veri e propri processi di valorizzazione e di “quasi” patrimonializzazione di queste figure sociali, universo a se stante, avente poco in comune sia con il percorso della transessualità sia con quello dell’omosessualità, fermate e assolutizzate in un preciso momento della loro storia [Vesce 2013]. Ma c’è anche la possibilità che i femminielli possano rispondere alle trasformazioni in cui sono immersi mantenendo continuità pur manifestando differenze rispetto alla tradizione. Per esempio, grazie all’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione, spostando la scena di rappresentazione della loro teatralità dal vicolo al villaggio globale della televisione locale e di internet, recuperando visibilità, solidarietà e tolleranza - mantenendo vive, pur con molte differenze rispetto al passato, alcune tradizioni rituali come quella del “matrimonio” di cui si parlerà dopo -, qualcuno di loro ha effettuato un’operazione di conservazione e di rottura della tradizione, assorbendo le novità che avanzano [Di Nuzzo 2009, 2013]. Di tutto ciò si può avere un’immediata rappresentazione anche navigando in rete su YouTube, grazie a una massiccia produzione di video che rappresentano, in una sorta di auto-etnografia inconsapevole, il mondo transgender[10] e/o gender variant dei femminielli di oggi. In questo modo il travestimento totale del corpo attraverso la chirurgia, come unica strada praticabile, è stato esorcizzato attraverso un travestitismo “mediatico” che si rispecchia di nuovo in una comunità accogliente e consente ancora una volta di “sopravvivere”, questa volta attraverso la scatola magica del mondo virtuale e reale al contempo, reso possibile dal computer al tempo di internet. A questo punto, al fine di comprendere meglio il fenomeno culturale dei femminielli a Napoli e inquadrare più ampiamente una delle sue più sorprendenti manifestazioni come il rito del “matrimonio” di cui si parlerà ampiamente nella seconda parte di questo contributo, sarà utile preliminarmente anche qualche riflessione linguistica.

Femmin-iell-o

Per cominciare può risultare fruttuoso il tentativo, a partire da una breve analisi linguistica del termine femminiello, di ricostruire e interpretare la rappresentazione sociale e culturale che esso contribuisce a veicolare e di evidenziare quegli elementi storici, mitografici, antropologici e sociali che hanno concorso a determinarlo. Tale tentativo non ha pretesa di esaustività, costituendo piuttosto un’occasione per offrire un’inquadratura introduttiva all’analisi del rito del “matrimonio”. Intanto la parola napoletana è costituita da due parti: la radice femmin- e l’alterazione/suffisso -iello. La radice femmin- rimanda a una collocazione/assegnazione riguardo al genere femminile, connotate o in un senso identitario (sentirsi femmina) o semplicemente di ruolo (comportarsi come una femmina). L’orientamento verso il ruolo di genere che sembra essere giustificato dalla rappresentazione socialmente condivisa del femminiello sarebbe desumibile dall’alterazione. L’alterazione -iello è un diminutivo-vezzeggiativo. In napoletano non si distingue il diminutivo dal vezzeggiativo, delineandosi come un’unica alterazione [Bichelli 1974], e -iello è un’alterazione dei nomi di genere maschile. La parola quindi è costituita da due parti in apparente contraddizione.

La prima semanticamente fa riferimento al mondo femminile. La seconda, mentre conferisce grammaticalmente il genere maschile al sostantivo cui è applicata, con l’alterazione diminutivo-vezzeggiativa ne gradua in modo ambivalente il significato. Da un lato potrebbe sottolineare sia una dimensione riduttiva dell’essere (e, quindi, del non essere) femmina, sia un atteggiamento di benevola subordinazione e copertura. Dall’altro esprimerebbe una forma di adesione e di consenso (con quanto di sentimentale, tenero e bonario è insito nella costellazione affettiva della rappresentazione sociale), ma potrebbe posizionare il soggetto, che ne è destinatario, in una dimensione ironica e/o di leggera derisione, probabilmente per la sottesa necessità di distanziamento da ciò che, essendo così diverso, suscita turbamento. In sintesi è nell’alterazione -iello che verrebbe veicolata tutta l’ambiguità insita nella rappresentazione sociale del femminiello. La desinenza -o dell’alterazione, che esprime grammaticalmente il genere maschile, fungerebbe da contrappeso a quanto posto dalla radice femmin-. Ne andrebbe a mitigare il significato che essa esprime, richiamando così l’idea di un aggancio con il principio di realtà, ma essendo la -o in napoletano, come tutte le vocali finali non tronche, semi-muta, lo farebbe sottovoce, quasi senza evidenza, se non fosse la -i- di -iello, tipica dell’alterazione dei sostantivi di genere maschile, a ricordarlo, il tutto in un geniale gioco linguistico tra il peso significante delle varie parti componenti la parola. Spingendoci oltre potremmo supporre che la radice femmin- è come se rimandasse al voler essere, la desinenza -o all’essere reale inteso come natura biologica, mentre l’-iell- a quanto potrebbe essere, le infinite coloriture affettive intermedie legate alla rappresentazione di questa figura nel contesto culturale di riferimento. Bianchi [2013], spingendosi oltre, nel suffisso -iello individua - ponendo questo termine a confronto con altri della lingua napoletana - non un diminutivo, ma un nuovo lemma indicatore di una categoria a se stante, cioè in questo caso di un fenomeno straordinario del mondo occidentale, una sorta di terzo genere [Herdt 1993].

Femminielli, femmenelle/femminelle, effeminati

Solo nel Novecento a partire dal secondo dopoguerra, dopo la stagione del Fascismo durante la quale i femminielli subirono varie forme di repressione, alcuni il confino, la parola femminiello si stabilizza nell’uso linguistico. Il termine, così come è, sostantivo maschile, non sembra essere riportato nei maggiori dizionari etimologici e vocabolari di lingua italiana e/o napoletana anteriori agli anni ottanta del Novecento. Nel Vocabolario Napoletano Italiano [Andreoli 1993] si trova il nome femminile femmenella/femmenelle e la variante femminella/femminelle con il significato italiano di donnicciola e per estensione di uomo pettegolo. Si ritrova il sostantivo femminile femminella come sinonimo di donnicciola e per similitudine di uomo debole in Battaglia [1972]. De Mauro [2000], nel Grande Dizionario Italiano dell’Uso vol. II, registra femminello e la variante femminiello come termini derivati dal napoletano, ne attesta la diffusione d’uso in ambito nazionale al 1983 e ne dà la definizione di travestito che si prostituisce, limitandosi a due caratteristiche, il travestitismo e la prostituzione. Alla diffusione del termine sembra aver contribuito l’attenzione per le caratteristiche della “napoletanità” da parte di scrittori, autori teatrali e intellettuali quali, tra gli altri, Curzio Malaparte, Giuseppe Patroni Griffi, Annibale Ruccello, Roberto De Simone e Pino Simonelli [D’Amora 2013; Ranisio 2013]. Nella seconda metà del Novecento i femminielli introdussero l’abitudine di assumere soprannomi ispirati ai nomi di grandi dive dello spettacolo o comunque altisonanti ed esotici, ma sempre con una vena di ironia, come si può vedere seguendo le avventure di Rosalinda Sprint e degli altri personaggi che animano il romanzo Scende giù per Toledo [1975] di Giuseppe Patroni Griffi [Fortier 2013].

Tradizionalmente i vicoli dei quartieri storici e popolari di Napoli, ma anche i paesi della sua provincia e più in generale della Campania, hanno avuto il loro femminiello accettato dalla comunità. Questi poteva vivere nella famiglia d’origine, attendendo alle occupazioni riservate alle donne: cucinare, cucire, lavare la biancheria, fare le pulizie [Simonelli e Carrano 1983, 1987]. I femminielli si sposavano tra di loro con un rito che imitava le nozze religiose in chiesa e arrivavano persino a mimare scene di parto e battesimo come Curzio Malaparte ha raccontato ne La Pelle [1949] e la regista Liliana Cavani ha mostrato in alcune scene dell’omonimo film del 1981. Anche Ferzan Özpetek, nel suo recente film Napoli Velata [2017], mostra proprio in apertura una scena di parto, teatralizzata, che ha come protagonisti i femminielli. Questi ultimi, infatti, tra gli altri, erano interpreti di un rito chiamato a figliata, cerimonia caratterizzata da un’atmosfera gioiosa e ironica insieme e che cadeva a nove mesi dal “matrimonio”, dopo una giornata di “doglie”.

I termini femminiello/femminella sono stati usati ed ancora sono nell’uso popolare a Napoli e in Campania in un’accezione raramente dispregiativa o quanto meno con tono negativo, spesso ironicamente allusivi [Bianchi 2013]. Difficilmente i femminielli hanno usato termini al maschile per riferirsi a se stessi, preferendo in genere versioni femminili [Vesce 2013]. Il femminiello è stato una figura tradizionale del tessuto sociale dei quartieri popolari del centro storico di Napoli dove ha sempre goduto di un certo rispetto. Occasionalmente poteva essere canzonato in modo benevolo o affettuoso da persona conosciuta del quartiere, alla quale sapeva rispondere prontamente e a tono con una battuta salace. Veniva considerato portatore di fortuna. Per questa ragione era invalso l’uso di mettergli in braccio il bimbo appena nato e scattargli la foto, di fargli condurre il gioco della tombola[11] e la riffa di quartiere, tradizione questa attualmente ancora piuttosto viva anche perché addomesticata a scopo di lucro. In determinate ricorrenze religiose partecipava e partecipa tutt’oggi in modo plateale alle relative manifestazioni: tradizionale e sentita è la famosa e cosiddetta juta (andata) al Santuario di Montevergine sul Monte Partenio nel giorno della Candelora [Ceccarelli 2010; Preziosi 2014; Piraino e Zambelli 2015], oppure la tammurriata alla festa del Santuario della Madonna dell’Arco il lunedì in Albis. Nonostante il processo di secolarizzazione la religione popolare con le sue variegate espressioni devozionali nelle società moderne o postmoderne mantiene ancora un ruolo centrale [Ranisio e Borriello 2015]. Infatti la rielaborazione delle categorie religiose intorno alla juta di Montevergine fatte per esempio dai femminielli e più in generale e recentemente da transessuali e omosessuali ci ricorda la natura dinamica del cattolicesimo, che cambia grazie al continuo contatto con elementi esterni e interni [Preziosi 2014]. Piraino e Zambelli [2015], attraverso l’interpretazione di Antonio Gramsci della religione popolare come strumento simbolico di riconoscimento e affermazione sociale in opposizione alla cultura egemonica, dimostrano per esempio che la religione popolare svolge un ruolo sociale centrale nella costruzione di visioni del mondo, a volte in contrasto con la cultura egemonica, non soltanto come affermazione di una diversa identità, ma soprattutto come occasione di presenza. In realtà, alla fine degli anni sessanta del Novecento, Lombardi Satriani [1966, 1968] aveva già analizzato ed evidenziato la complessa questione del folklore come cultura di contestazione.

Ritornando all’analisi dell’uso di termini specifici per riferirsi a tali soggetti sociali Abele De Blasio poi, medico e antropologo vissuto a Napoli tra Ottocento e Novecento, nel suo lavoro Usi e costumi dei camorristi [1897] al capitolo intitolato ‘O spusarizio masculino (Il matrimonio fra due uomini), ci parla dei cosiddetti “pederasti passivi di professione”, definiti nella mala-vita con gli appellativi di “femminelle”, “ricchioni” o “vasetti”. Descrive il “matrimonio”, quasi sempre in “qualche lurida locanda”, del “vasetto” qualificato ironicamente come “timida fanciulla” e “sposina” con un amante “pederasta attivo”, accenna a una luna di miele e parla degli adescamenti che questi soggetti perpetrano a danno di clienti per farli poi derubare dai “mariti”. Per De Blasio [1993] la femminella di fine Ottocento sembrerebbe un tipo di omosessuale “passivo” collocato nel contesto delinquenziale della camorra [Ranisio 2007], nell’ambito di quella folla che si agita nei bassifondi della città di Napoli[12]. Traspare tuttavia una certa indecisione interpretativa dall’incertezza linguistica che manifesta nell’attribuire il genere grammaticale al termine femminella: la parola è usata in tono neutro senza articolo, con l’articolo al femminile e anche con l’articolo al maschile.

Ne La prostituzione in Napoli nei secoli XV, XVI e XVII [1899] di Salvatore Di Giacomo si legge che, a partire dal 1530, in città, tra i luoghi destinati dalle autorità all’esercizio della prostituzione femminile, vi erano indicati anche quelli utilizzati specificamente dai travestiti. Si trattava di un’area, l’Imbrecciata, che si estendeva tra Porta Capuana e il contiguo borgo di Sant’Antonio Abate, dove, ancora fino alla fine dell’Ottocento, esisteva vico Femminelle, frequentato solo da quelli che al tempo erano definiti travestiti [Di Giacomo 1968]. Di questa strada malfamata ne parla anche, proprio alla fine dell’Ottocento, lo stesso De Blasio [1993], collegando le attività che vi si svolgevano con la malavita organizzata che controllava tutto il quartiere già dal Settecento.

Andando indietro nel tempo, Giovanni Battista Della Porta, in Della Fisionomia dell’uomo [1586], descrive un uomo che nella Napoli della fine del Cinquecento cura l’aspetto come di donna, si veste e si muove da donna, riveste ruoli femminili, parla di sé al femminile e ha comportamenti sessuali femminili. L’autore appare particolarmente interessato a tali figure umane e le considera un gruppo con un proprio ruolo sociale e uno stile di vita tipico, perciò le etichetta con un termine, quello di effeminati. Da un confronto tra le caratteristiche messe in evidenza dai due autori, pur nelle differenze di posizione, di termini e storico-sociali, si potrebbe congetturare una continuità lungo i tre secoli che separano gli effeminati del Della Porta [1971] dalle femminelle del De Blasio [1993], e naturalmente tra queste ultime figure e quelli che sono detti, a partire dal Novecento, i femminielli, in questo caso, per una diretta contiguità temporale e linguistica.

I femminielli e l’antica cultura mediterranea del femminile

A ritroso nel tempo la storia dei femminielli diventa oscura, per carenza di documentazione certa e di riferimenti anche indiretti e per le ambiguità nell’uso di termini con cui gli autori antichi si riferivano a fenomeni diversi che avrebbero richiesto, a evitare confusioni, parole distinte. Tuttavia, se si analizzano meglio le fonti prima riportate, si potrebbero desumere, per i femminielli, ulteriori indicazioni utili a ipotesi di ricostruzione di un percorso di realtà collettiva collegabile, pur nella diversità di forme e manifestazioni specifiche, alla più generale area mediterranea. Della Porta [1971] riconduce l’effeminato da lui visto a Napoli a figure analoghe presenti in modo rilevante in Sicilia, seguendo come riferimento una traccia geografica legata all’area mediterranea, dove è accertata la diffusione, soprattutto nei territori costieri, molto risalente nel tempo, di una concezione particolare di omosessualità[13] [Cantarella 1988]. Questa è la strada che potrebbe, ancora più a ritroso, collegare il femminiello allo stile di vita del mollis[14] romano e del kinaidos[15] greco. Tale congettura relativa al significato dell’omosessualità e più in generale della sessualità nell’area del Mediterraneo[16] impone tuttavia prudenza. Inoltre l’episodio dell’incendio del 1611 in prossimità del Santuario di Montevergine sul monte Partenio, quando furono rinvenuti cadaveri di pellegrini maschi in abiti femminili, congiuntamente all’iconografia di effeminati che danzano, riporta a una forma di travestitismo religioso, pure esso diffuso in area mediterranea, legato alla sacralità della maternità e fecondità con forme localmente variabili e che sembra avere nel culto della dea Cibele la sua forma più nota [Bargellini 1978]. Infine lo stesso De Blasio [1993] ci offre l’indizio di un probabile legame socio-antropologico tra i femminielli e la plebe, considerata depositaria delle più antiche tradizioni e usanze della città, in una sorta di sottocultura folklorica resistente a ogni cambiamento evidente, ma pronta ad assorbire aspetti e forme di novità in qualche modo rispondenti alle sue esigenze di sopravvivenza. Si potrebbe presumere che i femminielli già apparivano a De Blasio uomini che “sentivano” e vivevano da donne e che la loro appartenenza alla folla dei bassifondi aveva non solo carattere delinquenziale, quanto piuttosto nasceva da un legame con la plebe più “bassa” che in qualche modo si innestava nella tradizione più remota della città di Napoli fino alle sue origini [Galasso 2009]. Ma qui la storia deve necessariamente cedere il campo a una mitografia intorno ai temi del femminile primigenio e dell’androgino [Carotenuto 1994; Basile 2013]. Quest’ultimo è in particolare un mito arcaico dell’area mediterranea, secondo Eliade [1976] un archetipo diffuso, di grande valenza socio-antropologica, raffigurante l’unità originaria della psiche umana e la sua potenza di energia creatrice che si manifesta poi nei miti e nei riti discendenti dalla remota tradizione della Madre Primordiale. Secondo la tesi di Neumann [1981] il mito della Grande Madre, poi, è a sua volta un archetipo fondamentale, sintesi di feconda pienezza e di principio trasformatore, cioè di una divinità che partecipa del femminile e del maschile. Tale mito rimanda anche a un complesso di antichissime tradizioni culturali che si perpetuano attraverso il ricordo dei primi clan agricoli nella storia umana in cui la donna-madre aveva una sua preminenza per la sua capacità di mettere al mondo e per le sue abilità nel riconoscere, conservare e nell’impiantare i semi agricoli [Signorelli 2011]. In queste tradizioni culturali il femminile era spesso concepito come in sé autosufficiente e resistente alla “coniugalità” (vedi per esempio l’Artemide cretese, Partenope o la stessa Afrodite androgina). A discendere dal paleolitico si era manifestato nelle sculture delle cosiddette “veneri preistoriche” trovando poi, tra le altre, espressione nel culto della Grande Madre[17]. Questo complesso e articolato tema dell’originario femminile nel Mediterraneo[18] offre altri probabili indizi per rintracciare alcune delle radici antropologiche e culturali del fenomeno dei femminielli di Napoli che richiederebbero però ulteriori ricerche e approfondimenti. Non a caso, come già indicato, il termine femminiello stesso semanticamente ha una forte carica allusiva particolarmente significativa. Napoli è una città che porta stratificata nella sua peculiare cultura le complesse polifonie mitiche e la potenza trasversale e polimorfa di un’imago femminile mediterranea[19] che transita da Partenope verso la Madonna Nera di Montevergine. La letteratura antropologica sottolinea la natura femminile della città, riprendendo il mito della Grande Madre Mediterranea, richiamando i riti di Cibele e poi di Venere dea della fecondità nelle grotte platamoniche del Chiatamone. Napoli [Ranisio 2003] è ancora la città “mestruata” [Niola 2003] di San Gennaro e di Santa Patrizia [Lombardi Satriani 2000; Boggio e Lombardi Satriani 2014], che periodicamente “sanguina”. Infine l’archeologia stessa ci segnala l’esistenza anche di riti della fecondità nelle grotte di Piedigrotta e nell’antico tempio di Cerere nell’area di Santa Patrizia.

Il matrimonio dei femminielli: una performance di ginomimesi

Napoli, “città femminile”, consente dunque a degli uomini di esprimere e manifestare in una forma molto singolare il lato femminile della loro natura anche in un contesto che ha sempre risentito dell’ordine patriarcale risalente alla colonizzazione greca dell’VIII-VII secolo a. C., e consolidatosi nel corso dello sviluppo della civiltà occidentale [Galasso 2009], ma probabilmente innestato su complesse polifonie mitiche di un’imago femminile mediterranea e su strutture familiari matricentriche [Belmonte 1997] che potrebbero aver contribuito in modo dinamico alla configurazione dell’anima culturale della città attraverso la trasmissione di una ritualità molto esibita, quasi teatrale. Perciò a Napoli il travestitismo dei femminielli è transgenderismo urbano, non è camuffamento della virilità, non è semplicemente legato a tradizioni di teatralità popolana documentata da opere come il Ballo di Sfessania o la Canzone di Zeza, risalenti rispettivamente al XVI e XVII secolo, in cui spesso i femminielli/travestiti sono stati utilizzati in ruoli fondamentali e non è neppure riducibile semplicemente a una forma di omosessualità effeminata [Zito e Valerio 2010, 2013]. In realtà presenta quasi i caratteri di una condizione identitaria di diversità di genere e di un’espressione sessuale che ha una propria realtà largamente riconosciuta e integrata nel suo contesto sociale, con aspetti di sacralità rituale e di sapore arcaico profondamente stratificati nella cultura [Simonelli e Carrano 1983, 1987]. I due aspetti della sacralità e dell’integrazione sociale sono correlati, perché la ritualità si manifesta, come in precedenza accennato, soprattutto nella rappresentazione di cerimonie fondamentali della vita sociale, quali il matrimonio, il parto e il battesimo, nell’esercizio della divinazione sotto varie forme, in alcune pratiche votive e nel riconosciuto potere di portare fortuna. Protagonisti di riti come ‘o spusarizio/il matrimonio e a figliata/il parto, attività molto probabilmente funzionali a sancire la loro accettazione sociale, i femminielli assumono, in queste particolari occasioni, il ruolo proprio del genere femminile, mettendo in scena una performance[20] di ginomimesi[21] [Vesce 2013] in cui, attraverso il corpo travestito e trasformato, con il loro saper fare pratico e i loro discorsi, con l’ausilio di tattiche e strategie elaborate nel tempo e con la complicità del grande contenitore della cultura popolare napoletana, si garantiscono, nella relazione con la comunità di appartenenza, un pieno riconoscimento di genere [D’Agostino 2013; Di Nuzzo 2013]. Questo della centralità del rapporto con la comunità di appartenenza che sancisce il riconoscimento di genere è un elemento fondamentale come mostra il fatto che le attività rituali dei femminielli si concentrano, come si è già detto, proprio intorno ad alcuni momenti centrali della vita sociale di tutte le culture e di tutti i gruppi umani, quali nascite, matrimoni e morti, configurandosi così come un insieme unico di pratiche, peculiare espressione del loro stare al mondo.

Quando si assiste al “matrimonio” dei femminielli, per esempio, pur nella varietà di pratiche, repertori e rappresentazioni possibili, modificatisi nel tempo e nello spazio, colpisce la forte accentuazione dei passaggi ritualistici, la presenza di immagini femminili di religiosità attuale come quelle della madonna (nello specifico sono madonne in trono quali quella di Montevergine e di Pompei, verso cui i femminielli nutrono una devozione particolarmente intensa), spesso il doppio travestitismo dello “sposo” che, travestito da donna e quindi già femminiello, si ri-traveste in occasione del “matrimonio” da uomo per ricoprire così il ruolo consono alla completezza della messa in scena [Simonelli e Carrano 1983, 1987]. Quest’ultima è una teatralità fortemente simbolica dietro la quale si intravede il convincimento che per essere la parte maschile della coppia occorre prima recuperare l’originario femminile. In particolare l’essenza del rito dello spusarizio/matrimonio è data dalla sentita partecipazione sociale congiunta alla mancanza di un’autorità istituzionale (sacerdote o sindaco) che riconosca l’unione. Il senso del rito sta anche in questa mancanza che dà il segnale che quella in atto non è semplicemente una finzione, perché altrimenti si sarebbe imitata la normale cerimonia del matrimonio fino in fondo con la presenza di una finta autorità che riconosce, come in una messa in scena verosimile. Pertanto è un rito “sovversivo” e “surreale”, nel senso di essere sopra il reale, oltre la norma civile e la regola morale, in qualche modo al di fuori della dimensione reale ordinaria, quella cioè legata a un ordine sociale patriarcale. Si configura piuttosto come una realtà a se stante, incapsulata dentro l’altra realtà, quella ordinaria, e in cui l’unico vero potente riconoscimento della loro alterità è quello simbolico, conferito da un sociale vivo e tragico al contempo, pienamente partecipe e coprotagonista della messa in scena che si delinea come una vera e propria performance. Quindi per l’evento rituale si postula così il riconoscimento non tanto dell’autorità istituzionale, quanto piuttosto della collettività, considerata depositaria di potere e di valori che affondano le loro radici nella parte più ancestrale della cultura napoletana e che sancisce e celebra l’identità sociale dei femminielli partecipando con trasporto all’attività rituale e costituendo quella matrice relazionale e simbolica necessaria per dare senso alla loro pratica di ginomimesi. Infatti, in questa circostanza rituale, colpisce particolarmente la larga partecipazione di tutto il quartiere, giovani e anziani, uomini, donne e bambini, la cui sentita e spontanea presenza sottolinea la realtà che il femminiello non costituisce per la comunità un deviante [D’Agostino 1998, 2000], quanto piuttosto una figura quasi “magica”. Infatti, attraverso la partecipazione comunitaria ai riti di cui i femminielli sono gli “officianti”, se questi ultimi possono attivamente costruire la loro identità e garantirsi un pieno riconoscimento di genere, ciascuno degli astanti può contemporaneamente conseguire in modo quasi catartico, nell’ambito della complessa performance collettiva agita, la sensazione di ottenere una temporanea liberazione dai propri mali[22].

Si tratta in definitiva di pratiche rituali molto diffuse in passato, vedi per esempio la descrizione che riporta De Blasio [1993] e quella di Simonelli e Carrano [1983, 1987], i quali, relativamente alle condizioni osservate, pur nelle diverse epoche di riferimento, ci forniscono dettagliate narrazioni delle varie fasi dello spusarizio/matrimonio, ma che ancora oggi, certamente con forme mutate, risultano piuttosto vive e presenti a Napoli e in altre zone[23] del territorio campano. Tali attività rituali, e tra esse in particolare quella del “matrimonio”, sembrano configurarsi come vere e proprie performances, vissute con forte trasporto sia dai femminielli che riescono in questo modo a garantirsi la propria appartenenza di genere che dalla comunità del quartiere, con forti elementi di convergenza e contiguità. Inoltre tali pratiche rituali si vanno sempre più delineando come attività al confine tra rito vero e proprio e spettacolo, caricandosi, in un contesto pieno di problematiche economiche e sociali, spesso aggravate per tali soggetti gender variant ancora di più dalle questioni esistenziali di cui sono portatori, di importanti significati economici, di riscatto e di sopravvivenza.

Scene da un “matrimonio” a Napoli

Ho conosciuto Patty, protagonista del “matrimonio” che mi appresto a descrivere utilizzando anche le foto scattate da Renato Orsini[24] con le loro peculiarità espressive, formali e relazionali e successivamente ad analizzare attraverso i concetti di performance e ginomimesi prima definiti, al tempo della mia ricerca di dottorato. Allora Patty è stata tra le prime ad accettare di essere intervistata per parlarmi di sé, della sua identità bricolage giocata tra tradizione dei femminielli e trasformazioni transgender, del rapporto con la comunità del suo quartiere e più in generale con la città di Napoli. Era l’inizio della primavera del 2003 e grazie anche in quella circostanza alla preziosa mediazione di Anna Stanco che me la presentò, conobbi Patty, che, pochi giorni dopo, mi accolse con gentilezza e disponibilità nella sua abitazione ai Quartieri Spagnoli. Durante il nostro secondo incontro[25], avendo accettato di essere intervistata in profondità, mi raccontò con naturalezza e grande dignità la sua vita gender variant, le parziali trasformazioni chirurgiche apportate al suo corpo in direzione femminile, il suo modo di vivere, le sue relazioni sociali, i suoi amori, il suo lavoro artistico, tra l’animazione e la conduzione di tradizionali e teatrali tombolate napoletane e l’ideazione e la partecipazione come protagonista di singolari spettacoli di cabaret. L’intervista lunga e intensa si era chiusa con il racconto di una brutta esperienza da lei vissuta qualche mese prima. Ricoverata in un ospedale napoletano per un improvviso problema di salute, era stata collocata in un reparto maschile, sperimentando una serie di difficoltà e disagi immaginabili, legati al contrasto tra un’identità anagrafica ancora maschile e un aspetto e un ruolo marcatamente femminili. Quell’episodio traumatico evidenziava molto bene l’incompatibilità del mondo tradizionale e al tempo stesso transgender dei femminielli [Zito 2013b] con le logiche dicotomiche in merito al genere e quelle di controllo e sorveglianza sanitaria del sistema biomedico, ma più in generale con la società ordinaria al di fuori dell’habitat del suo quartiere, dove invece tutto sembrava/sembra possibile, fuori di ogni paradosso. Dal giorno della lunga intervista con Patty sono ritornato in quel vicolo ai Quartieri Spagnoli solo diversi anni dopo, nel 2010, per assistere a uno dei suoi “matrimoni”, proprio quando avevo deciso di riprendere queste tematiche di ricerca. In passato avevo già avuto la fortuna di assistere ad altri tre “matrimoni”, tra il 2002 e il 2003, gli anni della mia ricerca sul campo nei quartieri del centro storico di Napoli. I tre “matrimoni” a cui avevo partecipato erano stati per-formati in primavera e inizio estate, tutti nello stesso contesto dei Quartieri Spagnoli, ma con altri femminielli come protagonisti, tra vicoli contigui a quello dell’abitazione di Patty, almeno nella prima parte della preparazione e dell’uscita pubblica della “sposa”, a cui erano seguiti, per il successivo banchetto, spostamenti verso ristoranti disposti invece in provincia. Questa occasione creatasi nell’autunno del 2010 di osservare un “matrimonio” mi si era presentata subito come molto diversa rispetto alle precedenti, per due ragioni. Innanzitutto perché già conoscevo Patty, avendone raccolto la sua storia qualche anno prima, e ciò poteva sicuramente rappresentare per me motivo di maggiore e più profonda partecipazione, nel senso dell’osservazione e quindi del processo della ricerca stessa [Pavanello 2010; Signorelli 2011]. Poi perché questa volta era presente anche un fotografo che aveva a sua volta frequentato precedentemente la casa di Patty, stabilendo con lei un rapporto di fiducia e confidenza per poter scattare le foto di seguito presentate. In questo modo, per tale presenza, ho avuto la possibilità di documentare la performance del “matrimonio” più accuratamente di quanto avessi potuto fare solo con l’osservazione partecipante e il mio diario di campo, quest’ultimo insostituibile strumento nella cassetta degli attrezzi dell’antropologo, ma il cui contenuto può certamente essere meno esplicito e immediato delle immagini[26]. Per questa duplice fortuita ragione mi è stato quindi più agevole ricostruire tale performance di “matrimonio” e tentarne un’approfondita analisi in chiave di genere e identità.

Il “matrimonio” in questione, o per lo meno la parte da me osservata e di seguito analizzata, cioè quella che precede il banchetto vero e proprio che di solito avviene in un ristorante fuori città, in provincia o in campagna sulle pendici del Vesuvio o ancora in qualche località sul mare, inizia un lunedì mattina nella prima parte del mese di novembre del 2010[27]. Natale è ancora lontano, ma l’aria pungente dell’autunno in Vico Conte di Mola ai Quartieri Spagnoli, in pieno centro a Napoli, sa eccezionalmente di festa. C’è concitazione fuori la casa di Patty, mentre i rumori della vicina via Toledo, centro nevralgico della vita cittadina, commerciale e sociale, nonostante la breve distanza in linea d’aria, appaiono lontani e opachi al confronto con il frastuono e l’agitazione prodotti dall’umanità varia sopraggiunta, in parte già di buon’ora, per assistere e partecipare al grande evento. L’uscio di ingresso della sua abitazione non segna una netta separazione tra interno ed esterno ma, come una membrana osmotica, restando semiaperto per il grosso afflusso di persone di tutti i tipi che entra ed esce generando un’allegra confusione festiva, dischiude e permea un dentro contiguo a un fuori, questa mattina straordinariamente saturo di emozioni. È tempo di attesa, un evento importante sta per avvenire, il “matrimonio” di Patty. Tutto il vicinato attende con ansia di vederla nel suo abito da “sposa” pronta a pronunciare il fatidico “si” e poterla così degnamente acclamare e celebrare.

Dall’analisi di questa performance rituale ho individuato e di seguito descritto cinque fasi fondamentali, parcellizzazione narrativa proposta per facilitare la lettura di una realtà certamente molto più articolata di quanto sia possibile restituire in questa sede e legata a come il rito del “matrimonio” stesso si è sviluppato nel rapporto con la comunità nel complesso contesto sociale considerato. È importante chiarire preliminarmente che tale evento ha innanzitutto un innegabile valore “commerciale” che tuttavia non ne sminuisce l’elevato significato simbolico e rituale, configurandosi infatti, a un certo livello, come una festa-spettacolo che può essere “venduta” per consentire agli organizzatori e ai protagonisti della messa in scena un adeguato introito economico in un contesto certamente caratterizzato da carenze lavorative importanti, continuando al contempo a svolgere una funzione simbolica e di senso molto elevata per tutti i suoi protagonisti. In tale contesto infatti la ricerca di espedienti per sopravvivere riguarda la grande parte delle persone che lo popolano e spesso si declina lungo un sottile confine tra legalità e illegalità, in cui si combinano con grande creatività articolate strategie e tattiche di gestione della realtà, forme di solidarietà, sistemi di sfruttamento, distribuzione dei compiti e rapporti di potere. Alla descrizione delle cinque fasi in cui ho tentato di schematizzare la complessità di tale “matrimonio”, per offrirne una narrazione sintetica ed efficace, faranno seguito alcune riflessioni di interpretazione del rito, orientate specificamente in relazione ai processi di costruzione identitaria e di genere dei femminielli a Napoli.

Si deve infine sottolineare, come appare evidente dalle foto seguenti, che la dimensione musicologica e del soundscape, pur non essendo oggetto specifico di quest’analisi, gioca, come in una complessa macchina festiva [Mazzacane 1985; Baldi 2015], un ruolo importante nelle azioni rituali messe in scena, il cui orizzonte temporale (preparazione della sposa versus festeggiamento) e spaziale (interno dell’abitazione versus esterno) sembra in parte scandito dal potere incantatorio della musica stessa. Quest’ultima infatti, con i suoi linguaggi sensoriali, svolge una significativa funzione di ridefinire orizzonti temporali e spaziali del rito stesso, introducendo così in qualche modo a forme di conoscenza e di comportamento, estranee alla logica del quotidiano e comprensibili proprio all’interno della prospettiva rituale [De Simone 1975, 1979; Staiti 2012].

Disporsi all’attesa

La prima fase del rito è quella dell’attesa. Il tempo dell’attesa coincide con quello di preparazione della “sposa”, di allestimento del corpo sorprendente e statuario di Patty. Sono necessarie circa tre ore di lunga attesa affinché sia tutto perfetto per poter degnamente celebrare un “matrimonio” come questo ai Quartieri Spagnoli, unico e speciale. Nelle circostanze osservate l’attesa attraversa chiaramente tre spazi. Quello fuori l’abitazione della “sposa” disposta al piano terra, ma all’interno di un vecchio palazzo in buono stato e che coinvolge l’intero vicolo con l’approssimarsi di persone sopraggiunte per partecipare alla festa, tutte in evidente e crescente stato di eccitazione, alcune delle quali entrano ed escono dall’uscio della casa rimasto socchiuso sul pezzo di cortile che lambisce l’androne del vecchio edificio prospiciente al vicolo.

Le foto n. 1 e n. 2, rispettivamente attraverso fissità e dinamismo delle figure, restituiscono molto bene questa fase dell’attesa e il coinvolgimento emozionale che la accompagna dipinto sul volto dell’umanità del vicinato pronta a partecipare al “matrimonio”.

Foto n. 1.

Foto n. 1 - 2. Le persone del quartiere attendono la preparazione della “sposa” nei pressi della sua abitazione, altre più coinvolte entrano dentro (Ph. © Renato Orsini).

Foto n. 2.

Poi c’è lo spazio del soggiorno-cucina-ingresso che precede la camera da letto dell’abitazione di Patty, dove alcune donne più vicine e coinvolte nella sua vita, in preda a un grande entusiasmo per la festa di cui si sentono esse stesse pienamente protagoniste, creano un’intensa atmosfera in un crescendo di pungente ilarità, condita di battute salaci intorno ai temi del femminile e del maschile e quindi della sessualità. Le foto n. 3 e n. 4, con il dinamismo dei soggetti fermati dalle immagini, offrono una rappresentazione molto viva di questa seconda fase di attesa indoor. In ultimo resta lo spazio della camera da letto di Patty, dove l’attesa coincide con l’incessante lavorio di preparazione del suo corpo, attraverso la graduale vestizione, la sistemazione della capigliatura e dei gioielli e la successiva stesura del make up sul viso.

Foto n. 3.

Foto n. 3 - 4. Alcune donne discutono nella casa della “sposa” per poi lasciarsi andare a battute salaci mentre si attende la sua preparazione (Ph. © Renato Orsini).

Foto n. 4.

La foto n. 5, in cui il corpo di Patty non ancora pronto appare riflesso in uno specchio nel privato della sua camera da letto, restituisce in maniera vivida la complessità di tale fase di preparazione e il lavoro di trasformazione del corpo stesso che la attende e a cui si dispone con cura.

Foto n. 5. Il viso della “sposa” appare riflesso in uno specchio della sua camera da letto mentre la vestizione dell’abito nuziale non è ancora iniziata (Ph. © Renato Orsini).

Intanto si balla, si canta, si ride e si fa festa in tutti gli spazi dell’abitazione, non proprio piccola, sicuramente confortevole e molto curata, i cui diversi angoli sono stati sapientemente preparati per l’evento straordinario in corso. Un vociare allegro si diffonde negli spazi interni mescolandosi alle voci emozionate e concitate che arrivano da fuori, a cui si unisce un musicista con la sua chitarra, anch’egli persona del quartiere, ben nota a tutti, invadendo l’abitazione già satura di rumori con musica allegra dalle sonorità tradizionali. Tale musica contribuisce in questa fase a ritmare il tempo della preparazione del corpo di Patty, ma anche a definire in qualche modo lo spazio del rito matrimoniale stesso, in questo preciso momento legato alla dimensione intima e privata della sua camera da letto. Come mostra la foto n. 6 l’attesa si legge anche sul volto dello “sposo”, piuttosto timido e schivo, già perfettamente abbigliato e pronto nel per-formare anch’egli il suo ruolo, catturato dalla macchina fotografica riflesso in uno specchio da comò circondato di statue sacre e votive di madonne in trono e di altri santi tradizionali, segno di intensa devozione della padrona di casa. Intanto nell’altro angolo della stanza da letto, quello più intimo e lontano dagli sguardi altrui, ci si dispone a preparare accuratamente la “sposa” come nel più tradizionale e sentito dei rituali matrimoniali.

Foto n. 6. Il viso dello “sposo”, già pronto per la performance di “matrimonio”, appare riflesso nello specchio del comò (Ph. © Renato Orsini).

Preparare il corpo, per-formare l’identità

Patty, aiutata e sostenuta dalle altre donne, quelle più fedeli e amiche, ma anche più esperte nelle pratiche di cura estetica in cui sono attentamente impegnate nel sancta sanctorum dell’abitazione costituita dalla sua camera da letto, è intenta nella fase di allestimento, secondo la tradizione della vestizione per il matrimonio, del suo corpo “femminile”. Come mostra la sequenza di foto n. 7-8-9, volutamente tagliate per includere nel campo visivo prevalentemente l’immagine di testa e busto e dare enfasi alla preparazione di queste parti del corpo, Patty si veste in fasi differenti secondo le diverse sezioni di cui si compone il complesso ed elegante abito matrimoniale, fatto da una gonna lunga di veli a balze, bustino stringato, mantella per le spalle e poi velo sorretto da un fermacapelli coronato di piccoli scintillanti strass destinato al capo, tutto bianco come nella più romantica delle tradizioni. Queste fasi nel processo di vestizione vengono alternate con le varie tappe previste dal protocollo di make up concordato per la circostanza. Completano il quadro di eleganza muliebre nel giorno delle nozze un classico filo di perle bianche destinate al collo e un paio di orecchini pendenti, anch’essi con perle che saranno ben visibili dai suoi lobi, tra capelli e velo. In queste complesse operazioni di preparazione della “sposa” donne giovani e meno giovani si alternano per espletare le pratiche di cura prettamente femminili necessarie per poter affrontare nel migliore modo possibile il grande evento. Ad aiutarle ci sono anche altri femminielli. Alla fine di una laboriosa fase di preparazione durata a lungo, abiti, make up e altre pratiche di cura ed estetiche della corporeità le consentono di costruire in modo forte ed esplicito la sua “femminilità”, in un corpo celebrato nel massimo della sua esaltazione tradizionale, attraverso l’assunzione del ruolo della sposa nel giorno della festa. Patty è pronta a esibire il suo corpo di “donna” agli occhi di quella comunità viva e partecipe, quella del suo vicinato e quartiere, che dovrà suggellare e riconoscere con calore ed entusiasmo la sua inequivocabile appartenenza di genere.

Foto n. 7.

Foto n. 7 - 8 - 9. La “sposa”, assistita da donne giovani e meno giovani, indossa l’elegante abito del “matrimonio” ed è aiutata nel make-up (Ph. © Renato Orsini).

Foto n. 8.

Foto n. 9.

Sancire l’appartenenza di genere: il trionfo della “femminilità”

Le quasi tre ore necessarie per l’attenta e minuziosa preparazione di Patty e che le consentono con orgoglio di mostrare un corpo pronto a essere apertamente esibito anche di fronte alla comunità più ampia di quella che ha preso posto nello spazio privato della sua abitazione, permettono alle emozioni di quanti sostano fuori e dentro la casa di raggiungere il loro acme. Il corpo appena pronto che mostra dalla porta della camera da letto che viene aperta dinnanzi a quanti attendono nel soggiorno-cucina-ingresso è il trionfo della sua “femminilità”, della costruzione che ne ha fatto con l’aiuto di alcune donne e di altri femminielli di fiducia intervenuti per l’occasione. A sancire l’appartenenza al genere “femminile” attraverso il ruolo di “sposa” per il quale si è preparata e che assume in modo deciso e convincente c’è ancora la musica di una chitarra suonata e accompagnata dalla voce del musicista-cantante che intona vecchie e allegre canzoni napoletane, riscaldando l’atmosfera della casa, connotandone inequivocabilmente il clima festivo e contribuendo a scandire quest’ulteriore successione temporale del rito.

Come mostrano le foto n. 10 e n. 11, che restituiscono in modo suggestivo, nel loro dinamismo, il senso della festa attraverso immagini di musica e ballo, Patty si abbandona alle note della chitarra danzando allegramente e lasciando volteggiare il suo bouquet di fiori nuziale, mentre è ancora in camera da letto visibilmente soddisfatta per lo strepitoso risultato estetico conseguito a seguito della lunga preparazione. Tale risultato è esaltato dai commenti di gioia e dagli apprezzamenti degli astanti, in maggioranza donne, che contribuiscono ancora di più a far crescere l’entusiasmo e la gioia collettive come in una grande festa rionale in cui l’allegria diventa contagiosa tra tutti. A questo punto Patty può fermarsi e posare per la foto di rito con la “madrina”, anche lei gender variant.

Foto n. 10.

Foto n. 10 - 11 - 12. La “sposa”, completate vestizione e make up, danza in camera da letto accompagnata da un cantante-suonatore, mostrando la sua eleganza fissata in una foto in cui posa con la “madrina” (Ph. © Renato Orsini).

Foto n. 11.

La foto n. 12 che ritrae questo momento topico, lo fa con un’inquadratura trasversale che lascia emergere in primo piano, ancora una volta, una statuetta devozionale di una madonna con bimbo in braccio e poi, con una suggestiva proiezione, le figure riprese, riflesse nello specchio poggiato sul comò della camera da letto.

Foto n. 12.

Completamente pronta e con il viso dipinto di gioia, Patty passa dalla camera da letto al contiguo soggiorno-cucina-ingresso, mostrando a tutti, molto sicura di sé, un corpo imponente nell’intimità della sua abitazione invasa di comari eccitate per la festa che sta per cominciare. È pronta per ricevere pienamente quei consensi che le consentono di sancire in modo inequivocabile la sua appartenenza di genere, non solo nello spazio privato della sua casa, ma anche in quello pubblico del vicolo pronto ad accoglierla con grande entusiasmo, come le suggeriscono i rumori e le voci della folla in attesa che si accalca in visibilio fuori la sua abitazione, ingombrando di umanità varia e molteplice l’area urbana del vicolo stesso.

Andare in scena: il corteo nuziale

Sulla soglia del vecchio palazzo che accoglie la sua abitazione Patty è raggiante e trionfante nella sua mole statuaria, fasciata da un candido e architettonico abito da sposa di fine raso bianco. Come mostrano le foto outdoor n. 13 e n. 14, che rappresentano con i loro chiaro-scuri piuttosto marcati i due vertici della scena analizzata, rispettivamente quello degli osservatori-astanti-partecipanti al rito e quello della “sposa” soggetto della celebrazione, Patty resta ferma qualche minuto, al braccio del suo “compare” di nozze, ancora sulla soglia.

L’entusiasmo generale di quanti la accolgono con parole, urla, suoni, risate, flash, telecamere puntate per cogliere la bellezza di un istante unico, si addice a quello rivolto a una vera diva del mondo del cinema e del teatro o più semplicemente a una sposa nel giorno del suo matrimonio.

Foto n. 13.

Foto n. 13 - 14. La gente continua ad accalcarsi fuori l’abitazione della “sposa” con macchine fotografiche e cineprese per immortalarla all’uscita (Ph. © Renato Orsini).

Foto n. 14.

Avvolta da un’elegante scialle nuziale che le copre le spalle, è pronta per andare in scena nel vicolo, superando l’osmotica membrana dell’uscio di casa e avviare il corteo giù lungo la strada in discesa fino alla più ampia via Toledo, centro nevralgico dello shopping cittadino. Patty esce inizialmente dal palazzo accennando piccoli aggraziati passi, quasi come fossero di danza, prima di afferrare nuovamente il braccio del “compare” che poi l’accompagnerà al braccio dello “sposo” su via Toledo. A quel punto la folla mista e confusa che circonda a semicerchio l’uscio del palazzo comincia a sciogliersi disordinatamente per riorganizzarsi, solo dopo aver scattato foto e ripreso con la telecamera immagini memorabili della protagonista della festa. Quindi si ricompone in un piccolo e compatto corteo capitanato dalle allegre comari presenti in casa durante la preparazione e che ora tampinano la “sposa”, seguite da un’umanità varia, fatta anche di bambine e bambini, donne e uomini di tutte le età, che progressivamente si snoda lungo lo stretto vicolo in discesa.

La foto n. 15 restituisce in maniera intensa questa fase e il movimento che la accompagna, con l’inquadratura in primo piano del “compare” e di Patty, che, nell’incedere del corteo nuziale, saluta la comunità del quartiere mostrando e agitando il suo bouquet di fiori, inequivocabile simbolo della sua identità di “sposa”. Le prime tappe del corteo sono i bassi degli anziani, suoi vicini di casa, dove Patty, come appare nella foto n. 16, dal taglio decisamente intimistico e familiare, si ferma ed entra per mostrarsi nella sua radiosa bellezza di “sposa” a quanti, per ragioni di forza maggiore, non hanno potuto partecipare alla preparazione e all’uscita in strada, né potranno essere presenti al banchetto. Patty vuole salutarli prima di scendere definitivamente su via Toledo per proseguire poi al ristorante per festeggiare con il pranzo luculliano previsto dal programma dell’evento.

Foto n. 15. Il corteo nuziale capitanato dalla “sposa” e dal “compare” si snoda lungo il vicolo in discesa verso la centralissima Via Toledo (Ph. © Renato Orsini).

Foto n. 16. La “sposa” si ferma presso le abitazioni di alcuni anziani del quartiere per salutarli e mostrarsi nelle sue vesti nuziali (Ph. © Renato Orsini).

Evviva gli “sposi”

In questa sorprendente circostanza di festa l’intera comunità del vicolo è presente, senza distinzioni di età e genere, sono tutti entusiasti, visibilmente eccitati ed emotivamente partecipi intorno a Patty che incede sorridente e con straordinaria fierezza nel suo vestito bianco su cui scendono in modo sinuoso i lunghi capelli biondi sistemati in modo composto sotto il velo nuziale retto da una coroncina di scintillanti strass. La foto n. 17, con la sua inquadratura presa leggermente dal basso e con un’apertura allo sfondo rappresentato dai volumi degli edifici storici che disegnano il percorso dei vicoli, restituisce pienamente il forte senso della comunità e della sua partecipazione all’insolita circostanza rituale in atto. Patty si sente “donna” e festeggia nel suo ruolo di sposa il trionfo della sua “femminilità” attentamente costruita. Avverte che nella complessa configurazione messa in campo gli altri la vedono e la vogliono “donna”, confermando in questo modo la sua decisa identità “femminile”, come la poetica della foto n. 18 riesce a trasmettere all’osservatore attraverso un’inquadratura delle figure protagoniste dell’immagine in perfetto equilibrio armonico con lo sfondo urbano che le avvolge.

Foto n. 17. L’umanità sopraggiunta per l’evento del “matrimonio” colpisce per varietà nella composizione e per intensità della partecipazione emotiva (Ph. © Renato Orsini).

Foto n. 18. La “sposa”, fasciata nel suo elegante abito nuziale, è pronta per accedere dal vicolo alla centrale via Toledo (Ph. © Renato Orsini).

Patty per-forma in una forte dimensione relazionale e comunitaria la sua identità, mentre gli altri la celebrano con fiori e pasticcini, con canti, suoni e parole, seguendola in strada oppure semplicemente salutandola da finestre, balconi e bassi. Tutto il vicolo è in festa ed è con lei parte integrante della sorprendente performance in atto, dove sono tutti coprotagonisti, inclusa la scena urbana che fa da sfondo con i suoi contrasti. Si suggella così il suo essere “donna” con una straordinaria solidarietà comunitaria, mentre la sua ginomimesi prende letteralmente sempre più corpo, sostenuta dall’entusiasmo crescente di chi la guarda, restituendole riconoscimento e sicurezza e celebrandola ampiamente. A questo punto, circondata dal calore della comunità e riflessa nel suo trionfante ruolo “femminile” proprio negli sguardi di chi la riconosce per come è, Patty può scendere su via Toledo, superando le colonne d’Ercole del suo habitat costituito dal vicolo per incontrare, sicura di sé, la più ampia comunità della città, anche diversa dal microcosmo umano del suo vicinato. In questo modo, carica dell’energia umana che il pubblico partecipante le ha visceralmente infuso, può celebrare e consacrare, proprio come una delle dive protagoniste dei suoi spettacoli di cabaret, la sua identità “femminile” attraverso un passo di danza con lo “sposo”, accompagnati dalla musica di una fisarmonica, davanti allo sguardo incuriosito e divertito di chi per caso si trova a passare per la centrale via Toledo nella tarda mattinata di un ordinario lunedì di autunno a Napoli.

La coppia di foto n. 19 e n. 20, per il taglio scelto e per la luce che così nettamente scolpisce le figure, rispettivamente gli “sposi” che ballano affiancati dal musicista, e Patty da sola in primo piano, restituisce infine la soddisfazione e la gioia per quanto sta avvenendo. È il sorprendente incontro di due mondi, quello tradizionale e postmoderno al contempo dei femminielli e dell’umanità dei vicoli storici che vi ruota intorno e quello di una città del sud Italia, contemporanea e in grande fermento, come la Napoli odierna.

Foto n. 19.

Foto n. 19 - 20. La “sposa”, sicura della sua identità, si mostra alla più ampia comunità della città, danzando con lo “sposo” prima di avviarsi al ristorante per il banchetto (Ph. © Renato Orsini).

Foto n. 20.

Pochi minuti ancora di festa ed esibizione tra passanti sconosciuti e ammaliati dall’insolita circostanza di performance/spettacolo e poi, con un grosso autobus fittato per l’occasione, Patty e tutti gli altri “fortunati” invitati si avviano, tra colorite manifestazioni di allegria, al ristorante prenotato per l’evento. Festeggeranno tutti insieme nel salone di uno sfarzoso grande hotel-ristorante nella zona del Vesuvio, come nella più autentica delle tradizioni popolari matrimoniali campane, con un abbondante e lungo pranzo, condito di sfrenati balli e danze, nel corso di un intenso pomeriggio e di un’infinita serata di divertimenti e baccanali protratti fino allo sfinimento. Ma questa è decisamente un’altra storia ancora.

Analisi e conclusioni

Il rito del “matrimonio” appena descritto, preceduto dalle considerazioni[28] linguistiche, storiche, mitografiche e antropologiche sul fenomeno dei femminielli a Napoli, ci consente a questo punto, coniugando prospettive diacronica e sincronica, di evidenziare l’azione creativa che tali soggetti, attraverso singolari performances identitarie, di fatto esercitano nei processi di rappresentazione di sé. Le pratiche e i discorsi elaborati per il riconoscimento della propria “femminilità” si rendono possibili all’interno di un universo simbolico unico e complesso, in cui c’è un costante riferimento, talvolta anche solo suggestivo, a tematiche quali fecondità, maternità, seduzione, fortuna e buona sorte, confine tra terreno e ultraterreno, vita e morte, ma anche in cui l’identità stessa, oltre ogni paradosso, si gioca ampiamente nelle relazioni che vengono per-formate, spesso con una sorprendente creatività, come mostrano la descrizione e le immagini del “matrimonio” appena presentato.

Centrale appare quindi la dimensione simbolica di questo rituale, che sarebbe in qualche modo funzionale per i femminielli a sancire la loro accettazione sociale, ricoprendo certi ruoli tradizionali del genere femminile con la messa in scena di una vera e propria performance di ginomimesi. Attraverso il corpo sapientemente preparato e con una sequenza codificata di pratiche includenti il make-up e la vestizione e che si allargano a una complessa rete di relazioni che si svolgono nello spazio temporale del rito stesso, dove anche la musica gioca un ruolo importante, è possibile ancora oggi costruire un’identità indiscutibile, esibita alla comunità del quartiere che contribuisce a co-costruirla. In questo modo si attua un riconoscimento di genere oltre la base biologica definita dal destino e al di là delle possibilità di trasformazione della natura conferite dagli avanzamenti biomedici.

D’Agostino [2000], parlando dei femminielli, li considera acutamente proprio come un esempio molto particolare di travestitismo istituzionalizzato, in quanto protagonisti di tutta una serie di atti tesi ad affermare, esibire e sancire ritualmente la loro appartenenza di genere. Le analisi del rito del “matrimonio” e degli altri possibili ruoli e riti legati al mondo tradizionale dei femminielli napoletani, infatti, lasciano tutte emergere la centralità del genere inteso come un “fare”, una performance attuata entro una rete di relazioni e all’interno di un contenitore simbolico e di senso, in cui si declinano in modo molto creativo pratiche e rappresentazione della corporeità perfettamente organizzate con il fine di confermare in qualche modo la propria identità in relazione al contesto, superando così il paradosso sesso-genere di cui sono portatori. Centrale diviene quindi, anche in questo caso, la dimensione dei corpi su cui è scritta la “natura” degli esseri umani, “natura” che, come mostra bene l’antropologia [Calame e Kilani 1999], in quanto manchevole e carente, va sempre corretta e in qualche modo riscritta attraverso la cultura [Allovio e Favole 1996; Remotti 1996, 1999, 2013]. In particolare, poi, il corpo dei femminielli è sovrabbondante sul versante maschile, carente su quello femminile [D’Agostino 2010]. Perciò la procedura del “togliere” e dell’“eliminare”, attraverso cui moltissime culture costruiscono e plasmano per mezzo di complessi processi di antropo-poiesi le varie “forme di umanità”, nel caso dei femminielli si fa particolarmente pregnante, per la complessità della loro condizione di incompletezza che richiede di essere colmata. Il corpo dei femminielli va preparato, camuffato, travestito, corretto, trasformato, eliminando, ove possibile, le parti maschili per valorizzare e costruire forme femminili [D’Agostino 2010]. Questa preparazione si completa e si potenzia anche attraverso complesse attività di ginomimesi e di apprendimento corporeo con plasmazione di precise tecniche del corpo [Mauss 2000] e l’acquisizione di un peculiare habitus [Bourdieu 2003], rispondenti spesso a modelli di genere femminili tradizionali [Forni, Pennacini e Pussetti 2006], a volte stilizzati e quasi cristallizzati nel tempo.

In questa prospettiva la messa in scena del “matrimonio” con tutte le specifiche tecniche del corpo che lo caratterizzano si configura come una vera e propria performance ginomimetica di tipo rituale che, non avendo una struttura fissa e una programmazione predeterminata, può assumere forme e rappresentazioni anche molto diverse le une dalle altre[29], ma in cui comunque la partecipazione del pubblico-comunità congiunta a un’elevata tendenza all’improvvisazione, come nella commedia dell’arte, rappresentano una sua duplice componente fondamentale. Il matrimonio può ad esempio avere luogo tra due femminielli, come riportato da Simonelli e Carrano [1983, 1987], oppure tra un femminiello e un maschio come si vede nel documentario prodotto dalla Rai e intitolato Femminielli [1989] di Michele Buono e come è stato da me osservato e quindi documentato dalle foto di Renato Orsini che accompagnano questo articolo. Certamente al di là delle differenze, rilevante resta il dato della persistenza di un dispositivo rituale tradizionale come questo del “matrimonio” in un contesto metropolitano contemporaneo, pur nelle progressive plasmazioni e riplasmazioni che lo hanno caratterizzato nel tempo.

Di fatto sempre più importante e centrale diviene la dimensione pratica della performance identitaria dei femminielli nel complesso processo di costruzione di sé, del mostrarsi ed essere riconosciute come “vere” donne. Il genere diviene allora chiaramente un “fare” che chiama in gioco da un lato specifiche rappresentazioni della corporeità e relative pratiche e dall’altro relazioni, attraverso la cui complessa e armoniosa orchestrazione diviene possibile confermare la propria identità superando proprio culturalmente quel paradosso della non concordanza sesso-genere di cui si è già detto. In definitiva è proprio la performance di genere, di cui la ritualità del “matrimonio” appena descritta costituisce un chiaro ed esplicito esempio, che consente loro di assumere in modo permanente e forte, pur a partire da un vissuto psicologico spesso di incompletezza associato alla mancata esperienza della maternità biologica [D’Agostino 2010; Zito e Valerio 2010], un esplicito ruolo femminile, attraverso l’autorizzazione al pieno riconoscimento sociale della propria identità, come anche le foto proposte in questo lavoro sembrano mostrare. Tutto ciò ci aiuta a ricordare che sempre più quelle di genere sono categorie innanzitutto costruite entro e attraverso le relazioni vissute e agite nella cornice culturale di un preciso contesto sociale. Inoltre, se lo spazio pubblico è fondamentalmente gendered, “genderizzato”, cioè connotato nel senso del gender - spesso in modo strettamente dicotomico rispetto alle dimensioni culturali del maschile e del femminile, altre volte immaginabile invece in maniera più fluida come un continuum [Namaste 1996] - la storia dei femminielli mostra che è possibile creare spazi creativi intermedi e liminali [Turner 1969, 1983] in cui la trasgressione delle norme di genere non scatena violenza e rifiuto, ma al contrario si rende possibile in modo molto originale proprio nel confronto con la comunità che concorre a sostenerla e produrla, come l’analisi del rito di questo “matrimonio” mi ha consentito di evidenziare.

Certamente il complesso fenomeno dei femminielli napoletani andrebbe considerato anche alla luce del confronto e delle possibilità comparative con altri fenomeni analoghi di altri contesti sociali e culturali cui si è fatto qualche cenno nel primo paragrafo, all’interno di una visione più ampia e complessa dell’organizzazione sociale dei generi, ma non è lo scopo di questo lavoro. Inoltre è importante sottolineare che i femminielli, anche attraverso la loro complessa attività rituale, tendono a ricalcare i ruoli di genere femminili storicamente e socialmente accettati, in qualche modo tradizionali, utilizzando una serie di pratiche e di tattiche e strategie per riprodurre tali modelli. Quindi, nello spazio delle relazioni agite e vissute, tali soggettività sociali hanno la possibilità di rappresentarsi a se stessi e agli altri definendo continuamente, in una dimensione altamente dinamica, le condizioni del proprio processo stesso di soggettivazione in cui il corpo non è un semplice strumento con le sue tecniche [Mauss 2000], ma diviene spazio pieno di agency per l’espressione e la costruzione della propria identità, intesa come un essere e uno stare al mondo attraverso un “fare” pratico, irriducibile e in continuo divenire. Tutto ciò avviene straordinariamente pur nel paradosso dell’apparente “non senso” di riti come quelli del “matrimonio”, in cui c’è un “femminile” che non è femmina e un “virile” che non è tale, delineando così un complesso spazio liminale [Turner 1969, 1983] di gioco e creatività, dove è possibile capovolgere le convenzioni per ristabilirle di nuovo nella forma più tradizionale e perché no poterci anche ridere su attraversando tale trasgressione.

Per tutto quanto visto e considerato i femminielli sembrano così realizzare il superamento della propria mascolinità su un piano chiaramente rituale e simbolico [Garber 1994]. Si può ritenere che ciò costituisca l’elemento distintivo di questa forma di transgenderismo [Zito e Valerio 2010], coniugato con un’ascendenza antica stratificata nel contesto culturale di provenienza. In definitiva sembrerebbe che la specificità sul piano socio-antropologico dei femminielli di Napoli sia quella di aver perpetuato con continui adeguamenti alle mutazioni storiche e sociali una tradizione remota di identificazione rituale e psicologica con il femminile originario. Quello dei femminielli si sarebbe pertanto così configurato come un terzo genere [Zito e Valerio 2010, 2013], con un suo tipico universo di significati, cioè un’identità altra, al confine e di confine, distinta nettamente sia dal genere femminile sia da quello maschile, senza però superare la frontiera del deteriore. Tutto ciò sarebbe possibile grazie a un sociale accogliente e tollerante, portatore di una cultura risalente nel tempo, stratificata, ma anche così evoluta da incarnare un tipo di postmodernità sui generis e nel quale potersi “giocare” creativamente, tra pratiche performative [Butler 1990] e complessi processi di incorporazione [Csordas 1990], la costruzione della propria identità e della propria dimensione di genere [Strathern 2016]. In particolare quanto detto sembrerebbe confermare l’idea che l’identità dei femminielli sia stabilmente giocata nel rapporto individuo-persone-società. Quello dei femminielli rappresenterebbe pertanto un terzo genere, espressione di un forte convincimento soggettivo associato a un processo di metamorfosi e trasformazione de visu, sostenuto da un sociale accogliente e pronto a “significare” una realtà altra grazie a un patrimonio socio-antropologico e culturale stratificato nei secoli, come i suggestivi frammenti descrittivi della narrazione di Belmonte [1997] in apertura pure sembrano suggerire. Questo patrimonio ha conservato e portato sempre in superficie elementi tradizionali di valorizzazione rituale del femminile come dimensione positiva, che, pur trovando origine nella potenza generativa della donna, si è stilizzato in una forma esteriore e di ruolo fino ad arrivare a prescindere del tutto dalla capacità generativa della donna stessa. Di quest’ultima se ne conserva però il ricordo e se ne perpetua il valore attraverso quella mimesi che ripropone prima lo spusarizio/matrimonio e poi la figliata/parto di alcune rappresentazioni tipiche della vita dei femminielli napoletani.

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[1] Il basso è la tipica abitazione popolare, spesso costituita da un unico vano, al piano terra di antichi palazzi disposti nei vicoli del centro storico della città di Napoli e/o dei paesi della provincia. I bassi, come i negozi, si aprono con una porta, e spesso anche con una finestra, direttamente sulla strada dalla quale, essendo quasi sempre porta e finestra aperte, passando, è possibile vedere non solo lo svolgimento della vita quotidiana che ha luogo intorno alla soglia o subito fuori, ma anche quanto accade dentro l’abitazione terranea.

[2] Tale termine, usato nell’ambito dei gender studies, si riferisce a una varietà di persone la cui identità di genere e le cui manifestazioni e ruoli non si conformano alle norme e alle aspettative di genere maschile o femminile definite dal contesto sociale e culturale di appartenenza.

[3] Il genere è uno strumento ermeneutico-concettuale di rilevante interesse per il discorso antropologico. Infatti rappresenta un concetto complesso che si colloca nell’intersezione simbolica tra la dimensione individuale e quella sociale. Si impone sia come una rilevante àncora identitaria che assolve alla funzione di individuazione/identificazione sulla base della quale si struttura il senso di appartenenza sessuale dei soggetti, sia come costrutto sociale, ossia come derivato dei processi socio-culturali che concorrono alla determinazione delle differenze tra donne e uomini.

[4] In particolare Butler [1990] teorizza il genere, insieme al sesso e alla sessualità, come realtà performative. Secondo la sua teoria la coerenza delle categorie di sesso, genere e sessualità è culturalmente costruita attraverso la ripetizione di atti stilizzati nel tempo, che, nella loro ripetizione, fissano l’apparenza di un “nucleo” del genere inteso come essenziale e ontologico. L’esibizione di genere, sesso e sessualità, tuttavia, non è una scelta volontaria secondo Butler, che, con il suo originale pensiero, sfida esplicitamente le posizioni biologiche relative al carattere binario della sessualità, concependo piuttosto il corpo sessuato stesso come culturalmente costruito dai discorsi normativi.

[5] Gli studi antropologici italiani possono sicuramente rivendicare delle priorità nell’intersezione di indagine storica e indagine etnografica, le cui premesse metodologiche e la cui concreta applicazione sono evidenti fin dagli anni cinquanta del Novecento nei lavori di Ernesto De Martino.

[6] Per esempio mi riferisco a realtà come l’Associazione Femminelle Antiche Napoletane (A.F.A.N.) fondata nel 2009 a Torre Annunziata in provincia di Napoli, finalizzata a conservare la storia dei femminielli in Campania e a promuovere la loro cultura, anche allestendo un centro di documentazione che ne preservi la memoria.

[7] Si vedano per esempio, tra gli altri, la pièce teatrale Vico Sirene [2011] di Fortunato Calvino, i romanzi Il posto di ognuno [2012] di Maurizio De Giovanni e La mammana [2014] di Antonella Ossorio e il film Napoli Velata [2017] di Ferzan Özpetek.

[8] La sirena è un’immagine-simbolo che risale indietro nel tempo fino alle origini stesse della città di Napoli cui è legato il mito di Partenope. Secondo la tradizione Partenope era una sirena ornitomorfa, essere metà donna e metà uccello, quindi di natura doppia, simbolo riconosciuto di una femminilità autosufficiente e integrale, “vergine”, come suggerito dall’etimo greco. Inoltre, nel mito, Napoli è fondata proprio sulla tomba della sirena Partenope, che va a morire delusa per non essere riuscita a sedurre Ulisse [Moro 2008].

[9] Questa probabile fase di transizione è anche esposta nel documentario dell’antropologo Massimo Andrei, Cerasella: ovvero estinzione della femminella [2007], prodotto dall’Università degli Studi di Napoli Federico II.

[10] Con i termini transgender/transgenderismo, usati nell’ambito dei gender studies, si intende quella realtà di persone che, vivendo un’identità di genere opposta al proprio sesso biologico, non desiderano tuttavia cambiare completamente il proprio corpo, ma esprimono nei comportamenti e nelle relazioni interpersonali il sentirsi uomo, donna o una combinazione di entrambi, al di là della propria struttura anatomica e senza dover essere costretti a omologazioni di alcun tipo. Il termine ha inoltre anche un’altra accezione più ampia, riferibile a una condizione caratterizzata da un’identità di genere in movimento e che non si identifica stabilmente né nel genere maschile né in quello femminile [Ekins e King 2006; Zito e Valerio 2013].

[11] In proposito molta diffusa è, per esempio, la loro pittoresca presenza nelle famiglie della borghesia napoletana durante il gioco della tombola. Quest’ultimo è un tradizionale gioco da tavolo natalizio originario dell’Italia meridionale e tipico della regione Campania; si basa sull’estrazione da un cestino dei numeri da 1 a 90, a ognuno dei quali è associata un’immagine e/o un significato [Broccolini 2005].

[12] Interpretato secondo il modello lombrosiano del tempo, che collega anomalie psicofisiche e degenerazioni criminali, viene individuato come un deviante sessuale tendenzialmente portato a delinquere.

[13] Secondo questa concezione veniva individuato come omosessuale solo chi rivestiva un ruolo “passivo”, travestendosi o non da donna. C’era una netta distinzione tra chi praticava il rapporto omosessuale in modo “passivo” e l’“attivo”, non diverso dal maschio eterosessuale.

[14] L’espressione significa letteralmente “effeminato” ed è presente in diversi autori latini tra cui Petronio [Satyricon 23.3].

[15] Il termine greco aveva originariamente il significato di “danzatore”, successivamente di “giovane effeminato” [Platone, Gorgia 494] e come tale è passato nella lingua latina, diventando cinaedus [Catullo, Carme XXIX].

[16] Peraltro Salviano di Marsiglia ancora nel V secolo d.C. in De gubernatione Dei stigmatizzava il fatto che a Cartagine vi fossero uomini vestiti da donna e sessualmente “passivi”.

[17] Si può ipotizzare che la rappresentazione del femminile nelle “veneri preistoriche”, ritenute raffigurazioni della Madre Primordiale, passi progressivamente, sotto l’aspetto iconografico, attraverso le Veneri di Malta, le Matres Matutae capuane, la Magna Mater Cibele frigia, e giunga fino ad alcune immagini della madonna presenti nella cultura cristiana, offrendo la suggestione, pur caricandosi nel corso dei millenni di valenze culturali differenziate, più articolate e specifiche, di una continuità del valore primario e sacro della femminilità [Neumann 1981] nell’area del Mediterraneo [Fernandez 1967] e più in generale nei territori meridionali euro-asiatici. Nel caso del femminile autosufficiente, nella fascia egeo-anatolico-cretese, in età già storica [1500 a.C.], ricorreva anche l’iconografia delle sirene ornitomorfe, sirene vergini metà donne, metà uccelli, come Partenope [800 a.C.] in area campana.

[18] Per approfondimenti in merito a ulteriori significati culturali relativi alla sfera del genere e della sessualità nell’area del Mediterraneo con specifico riferimento a un’isola del golfo di Napoli come Capri, luogo carico di storia e di valenze simboliche, si rimanda a Zito [2015, 2016, 2017].

[19] Su questo tema si ricorda che Magli [1978] fa anche esplicito riferimento ad antichi presunti culti matriarcali italici, ampiamente problematizzati e successivamente smentiti però da altri studiosi di antropologia del mondo antico.

[20] Secondo il dizionario Treccani il termine inglese performance, sostantivo femminile desunto dal verbo to perform «compiere, eseguire», pienamente entrato nell’uso della lingua italiana, deriverebbe dal latino tardo performare «dare forma». In senso generico il significato della parola rimanda alla realizzazione concreta di un’attività, di un comportamento e di una situazione determinata. Nel linguaggio artistico indica una forma di esibizione con una forte carica interpretativa, nata negli anni settanta del Novecento, basata, tra l’altro, sull’improvvisazione e sul coinvolgimento del pubblico, caratteristiche queste due chiaramente presenti nelle attività rituali dei femminielli, come verrà successivamente mostrato attraverso l’analisi di un “matrimonio”.

[21] Secondo il dizionario Treccani il termine ginomimesi è composto da gino- derivato dal greco γυνή con il significato di «donna, femminile», usato come primo o secondo elemento di termini composti del linguaggio colto e/o scientifico (vedi per esempio ginoide e androgino), e mimèṡi, sostantivo femminile dal greco μίμησις derivato di μιμέομαι «imitare», con il significato ultimo di «imitazione». Dunque ginomimesi viene usato come «imitazione del femminile», intesa però nel senso dinamico di un processo attivo di costruzione di “femminilità” secondo determinati modelli e attraverso una complessa attività pratica incentrata intorno al corpo con le sue tecniche e per-formata entro una specifica rete di relazioni.

[22] Ciò richiamerebbe per analogia quanto accadeva con i riti celebrati dai Gallae, i sacerdoti evirati e travestiti della Grande Madre Cibele, il cui culto storicamente ebbe una grande diffusione sul Partenio (Montevergine) e nell’area compresa tra la zona flegrea a nord di Napoli e il territorio capuano a partire dal II secolo a. C., incontrandosi e sovrapponendosi col culto delle Matres Matutae. Presumibilmente situato proprio nella zona di Montevergine in provincia di Avellino le cronache ci hanno tramandato l’esistenza di un tempio dedicato alla dea ctonia delle grotte e delle montagne in stretta relazione con il culto di Cibele e con alcuni rituali tradizionali della vita dei femminielli. L’ascesa al santuario di Montevergine ha costituito un altro dei momenti fondamentali e altamente ritualizzati della vita tradizionale dei femminielli, per altro da alcuni anni rivendicato per il suo valore simbolico e politico dalle associazioni LGBT campane e non solo [Preziosi 2014]. Secondo la tradizione ogni anno, nel giorno della Candelora che è il 2 febbraio, i femminielli si inerpicavano sulla montagna diretti al santuario dedicato alla Mamma Schiavona, la Madonna Nera. Dal ventre di Partenope alla cima del Partenio si ripeteva puntuale il rito del pellegrinaggio dei femminielli al santuario, accompagnati da suonatori di nacchere, tammorre e cimbali [De Simone 1982; Ceccarelli 2010; Preziosi 2014; Piraino e Zambelli 2015]. Sembrerebbe così che dal mito di Cibele si siano trasferiti alcuni aspetti della sua ritualità nelle manifestazioni di devozione alla madonna da parte dei femminielli, offrendo così il suggestivo indizio di una probabile contiguità tra il travestitismo dei sacerdoti Gallae e quello dei femminielli.

[23] Per esempio si organizzano ancora con una certa frequenza “matrimoni” nella provincia sud di Napoli in comuni quali Torre Annunziata e Torre del Greco e nella zona di Salerno a Pagani, centro noto anche per la festa della Madonna delle Galline, caratterizzata da vivaci e intense tammurriate e collegata con il mondo tradizionale dei femminielli.

[24] Si ringrazia per la gentile concessione Renato Orsini, autore di tutte le foto (Ph. © Renato Orsini) presenti in quest’articolo e già pubblicamente esposte in due mostre tenutesi entrambe a Napoli, la prima intitolata “Patty delle lucciole” e ospitata dal 20 marzo al 1 aprile 2012 nel foyer del Teatro Bellini, la seconda intitolata “Si”, curata dall’architetto Diego Nuzzo e allestita negli spazi del Penguin Cafè di via Santa Lucia dal 7 al 23 marzo 2013.

[25] L’intervista aperta, durata quasi due ore e audio-registrata, è stata raccolta il 25 marzo 2003 presso l’abitazione di Patty, che mi era stata presentata qualche giorno prima, il 22 marzo. La trascrizione integrale del testo di questa intervista è stata analizzata insieme alle altre interviste raccolte nel biennio 2002-2003 ed è confluita nel lavoro di ricerca presentato nella monografia intitolata Corpi sull’uscio, identità possibili. Il fenomeno dei femminielli a Napoli (2010) di Eugenio Zito e Paolo Valerio.

[26] La scelta delle venti foto di Renato Orsini che accompagnano questo contributo risponde a un preciso tentativo di restituire al lettore una narrazione anche visuale, per quanto inevitabilmente frammentata, della complessa struttura del rito/performance analizzato. La successione degli scatti fotografici scelti, tutti in bianco e nero per la particolare espressività così conferita alle immagini, offrirebbe infatti una sequenza sintetica e certamente parziale, ma al contempo costituirebbe pure una restituzione piuttosto efficace e certamente suggestiva del dispositivo rituale indagato. Tutto ciò pur essendo consapevoli, antropologo-ricercatore e fotografo, del fatto che le immagini fotografiche, da un lato sintetizzano il punto di vista dell’astante (che come si è visto in questo caso di performance è però anche partecipe) con quello dell’osservatore partecipante stesso, ma, come scrive Baldi [2015] che recupera e problematizza sapientemente il contributo di Roland Barthes sulla ritrattistica nella fotografia familiare, dall’altro rimandano piuttosto a un intricato campo di forze “chiuso” che si determina nel momento dello scatto tra chi fotografa e chi è fotografato, espressione a questo punto di un più complesso coacervo di tensioni dove risulta difficile stabilire i vari pesi.

[27] Con esattezza il “matrimonio” in questione è stato osservato e fotografato a Napoli nel corso della mattinata del giorno 8 novembre 2010.

[28] Vorrei precisare che alcuni concetti relativi all’universo sociale dei femminielli napoletani, in questa sede più ampiamente sviluppati e analizzati, sono stati discussi e vagliati in modo critico con Marinella Miano Borruso, professore ordinario di antropologia culturale (purtroppo poi prematuramente scomparsa nel 2013), durante la mia permanenza al Centro de Estudios Antropologicos de Genero, Sexualidad y Etnicidad da lei diretto presso l’Escuela National De Antropologia e Historia, istituzione universitaria di Città del Messico, dove ho soggiornato per una stimolante esperienza di visiting researcher nel periodo ottobre-novembre 2012.

[29] Più in generale le pratiche rituali si configurano come un complesso e articolato reticolo di diversi mezzi espressivi quali parole, musiche, simboli, tecniche del corpo, oggetti materiali, di cui gli esseri umani si servono per dare espressione alla realtà e al suo cambiamento, essendo così assimilabili, come evidenzia Buscaglia [2009] in un suo interessante lavoro di analisi del rituale matrimoniale rwandese nel post-genocidio, non solo a un “testo”, per recuperare la metafora di Geertz [1987, 1988], ma anche a qualcosa di più fluido come un “dialogo”, continuamente modificato, rielaborato, reinterpretato [Fabietti 1999].