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Abstract. The method followed by Lanternari in the research, published in 1960, is based on the historic method as understood by Benedetto Croce, the philosopher who dominated the Italian cultural scene in the first half of the twentieth century and is opposed to the revival of religious studies, initiated by Raffaele Pettazzoni, which is often associated with the work of Lanternari. The Lanternari approach and the themes of his book Movimenti religiosi libertà e di salvezza were at the center of the national and international debate in the post-war era, and more specifically exchanges on popular cultures and religions (through confrontation with the works of Antonio Gramsci and Ernesto De Martino), but also on religion in colonial situation (through the works of Georges Balandier). The article relates the binary interpretive models that characterize this book (oppressor and oppressed, dominant and dominated, colonial and colonized peoples) with the expectations of the political and cultural time of macro-alliances. It concludes with the question of his legacy today in terms of challenges to the history and anthropology of religion.
Keywords. Historicism, prophecy, salvation, oppression, colonialism.
I molti genitivi nel titolo di questo celebre libro[1] di Lanternari esprimono preoccupazioni tutte interne al dibattito storiografico italiano, in particolare di quello che aveva dominato la scena negli anni compresi tra la prima e la seconda guerra mondiale. Dal punto di vista dei temi, il libro di Lanternari trova ispirazione nel rinnovamento degli studi sulle religioni, iniziato da Raffaele Pettazzoni e proseguito da Angelo Brelich ed Ernesto de Martino[2]. Dal punto di vista del metodo, sembra invece basarsi sulla filosofia di Benedetto Croce, che a quel rinnovamento degli studi sulle religioni era stato più contrario che favorevole[3]. Ci proponiamo qui di rendere esplicito il legame tra metodo comparativo e teoria della storiografia, in questo «classico» degli studi storico-antropologici della seconda metà del Novecento, per poi richiamare qualche spunto di riflessione, alla luce della storia e della storiografia più recenti.
A scanso di equivoci, Lanternari prende subito le distanze dagli studiosi che si caratterizzavano per il ricorso alla comparazione, dai «fenomenologi» e dai «morfologisti» «delle civiltà religiose», per dichiarare preliminarmente la sua posizione: «noi preferiamo attenerci al metodo storicista»[4], che era il metodo comune anche agli altri innovatori italiani degli studi sulle religioni. Pensiamo che l’attenersi al metodo dello storicismo significhi, in Movimenti religiosi, attenersi sostanzialmente al metodo dello storicismo di Benedetto Croce, benché il filosofo napoletano non sia mai nominato nel libro.
Le obiezioni che Croce aveva mosso al metodo comparativo nella storiografia sulle religioni (storicista e no) discendono tutte da principi di base, rimasti stabili nel corso dell’elaborazione del suo sistema filosofico, rintracciabili nel programma della «Filosofia dello spirito», programma che si conclude con Teoria e storia della storiografia [5]. Tale testo sarà qui usato come riferimento per l’impostazione metodologica di Lanternari, che probabilmente ha considerato anche gli interventi di Croce dedicati a Ernesto de Martino[6].
Le resistenze di Croce nei confronti del rinnovamento della storiografia italiana delle religioni, nei suoi legami con quella internazionale, non si riferiscono direttamente né al problema della «storia universale», né a quello del metodo comparativo[7]. In Teoria e storia della storiografia si trovano passi che possono essere letti come il programma metodologico e perfino tematico di Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, in una prospettiva che unifica storia europea e storia non europea, indipendentemente dal contatto storico tra le società considerate:
L’internazionalità […] non è cosa estrinseca ma intrinseca, riposta nello storico che interroga e trova la risposta al suo interrogare. Ma, se è così, quali ordini di fatti o di storie nazionali non sono trattabili internazionalmente e unificabili? Tutti possono, quando giova, richiedere questa trattazione. La civiltà cinese o, magari, quelle primitive delle Americhe sembreranno divise e indipendenti da quella europea; ma quando la mente si fa a indagare, per esempio, una certa forma di religione o di economia o di atteggiamento morale, ecco che quelle storie si abbracciano e si unificano, senza stare ad aspettare il permesso e il cominciamento né dalla scoperta e conquista delle Americhe, né dal viaggio di Marco Polo, né dalle missioni dei gesuiti, né dalla guerra anglo-francese contro la Cina. Al problema dello storico, come all’effettivo e unico principio di sintesi storica, ed effettivo e unico determinante delle varie configurazioni storiografiche, conviene, dunque, sempre rivolgere l’attenzione, respingendo con fermezza i tentativi, che sempre si rinnovano, di unificazioni estrinseche e materiali[8].
Le riserve di Croce nei confronti della storiografia di Pettazzoni e di altri storici delle religioni riguardavano innanzitutto il problema posto dallo storico e il soggetto dell’investigazione, che solo in quanto unità d’idea, secondo Croce, può essere comparato e svolto anche in una prospettiva mondiale, nella storia di qualsiasi area e di qualsiasi tempo. Ciò che divideva Croce da Pettazzoni e da altri studiosi delle religioni era dunque la nozione stessa di «religione»[9]. Per Croce, la religione non ha in sé fondamento, non è insomma una categoria dello spirito. Essa è piuttosto un’espressione secondaria riconducibile ora all’economia, ora all’etica, ora alla filosofia, ora all’estetica[10]. Ne consegue, sempre secondo l’impianto di Croce, che un esame comparato delle religioni in se stesse considerate, nella loro autonomia morfologica di credenze e di riti e nelle loro dinamiche generative del sacro, non è praticabile; perché esse ora possono confondere ciò che è distinto nell’economia, nella legge, nel pensiero e nell’arte, ora possono distinguere ciò che in questi domini fondamentali è invece unito e dunque potenzialmente comparabile. Cosicché, per Croce, una prospettiva comparativa delle religioni, che cerchi l’unità nella religione, non produce storia, ma al massimo erudizione e comparazioni tra fatti solo apparentemente unitari.
Il titolo del libro di Lanternari è così lungo nelle prime due edizioni italiane perché l’autore intese enfatizzare la distinzione di determinate forme religiose e la loro connessione con distinte situazioni storiche. Entro questo quadro sembra precisarsi ciò che Lanternari intende per movimenti religiosi di libertà e di salvezza e la loro relazione con alcune situazioni sociali.
Anticipando ciò che apparirà più esplicito nel corso di queste pagine, si può dire che i movimenti religiosi di libertà e di salvezza (come per esempio i profetismi) sono per Lanternari «filosofie» della libertà proprie di soggetti sociali che agiscono o si apprestano ad agire nella storia. Studiare tali movimenti significa «giustificarli», secondo un termine caro a Croce e programmaticamente fatto proprio da Lanternari[11], collegarli cioè ad altri fenomeni sociali entro una prospettiva che unisce in una stessa logica il pensiero che agisce nello svolgimento dei fatti e il pensiero che agisce nell’autocoscienza storiografica.
Il metodo comparativo di Lanternari trova fondamento non direttamente nella religione (nel suo nesso inscindibile di riti, credenze e funzionamento del sacro), ma nella «filosofia» della libertà che caratterizza alcuni movimenti religiosi o alcune fasi di tali movimenti. Tanto che Lanternari interpreta i processi di organizzazione in Chiesa dei movimenti religiosi come accentuazione del «carattere religioso», accentuazione che segna non il compimento ma l’interruzione dell’idea di libertà e dunque li rende estranei alla sua prospettiva di ricerca: «In seguito a un più tollerante atteggiamento assunto dalle autorità amministrative verso i movimenti religiosi locali negli ultimi anni, il kimbangismo poteva uscire dalla clandestinità, e accentuava il carattere religioso, lasciando ai partiti nazionalisti militanti la responsabilità delle iniziative politiche e rivoluzionarie»[12]. Più precisamente, i fenomeni religiosi di libertà e di salvezza sono visti da Lanternari come la formulazione di una prima coscienza della libertà, secondo il principio crociano della «positività della storia»[13], dove la dialettica tra oppressione e libertà funziona come unità di svolgimento mai concluso di un’idea, che non è quella «negativa» dell’assenza di libertà, ma quella «positiva» della libertà. Per Lanternari questo svolgimento si oggettiva, sempre e dovunque, prima attraverso un’indistinta formulazione mitologica e poi in una distinta formulazione etico-politica. Come si vedrà più avanti, quest’impostazione teorica di Lanternari determina anche il trattamento delle fonti. Diversamente dagli sviluppi della ricerca di De Martino[14], i fatti religiosi sono da Lanternari letteralmente ridotti a «filosofia»: sono sottovalutati nella componente rituale e nella dinamica del sacro (e dunque nei motivi delle loro differenze morfologiche e della loro identità di funzione) e sopravvalutati come discorso mitologico ed etico-politico della libertà. Ciò al fine di poter connettere e comparare, immediatamente e direttamente, tutti i movimenti religiosi di libertà con le situazioni sociali cui si riferiscono. Questo libro di Lanternari non è una ricerca usuale nell’alveo della filosofia di Croce, ma è da essa segnato in profondità nella struttura teorica di base.
Lanternari ereditava da Gramsci e De Martino, intellettuali diversamente impegnati nel confronto tra storicismo crociano e storicismo marxista, nozioni che articolano la lettura dei dinamismi storici presentati nella ricerca: la solidarietà tra fatti culturali e fatti sociali (il folklore, e dunque la religione e in genere la cultura popolare, come «filosofia», benché ambivalente, delle classi subalterne in opposizione implicita alla «filosofia» delle classi egemoni) e l’unificazione tra mondo folklorico e mondo etnologico (la comparabilità del dinamismo tra classi egemoni e classi subalterne in Occidente con il dinamismo tra popoli coloniali e popoli colonizzati)[15]. Nelle pagine di Movimenti religiosi Lanternari non nomina né Croce, come si è detto, né Gramsci. Li ricorderà entrambi, come fondamenti della sua impostazione teorica, in occasioni successive, per esempio in un’intervista rilasciata nei primi anni Ottanta del secolo scorso, quando parlando di se stesso dirà: «Nel filone del pensiero di casa nostra si posero come punti di riferimento decisivi prima Benedetto Croce, con Teoria e storia della storiografia, poi Gramsci soprattutto con le Note sul folklore»[16]. Questa sintesi, che si andava affermando nel dibattito italiano grazie soprattutto all’opera di De Martino, è legata da Lanternari al coevo dibattito internazionale, in particolare francese, concernente il recupero della dimensione storica nell’indagine etnologica.
Se è vero che la maggior parte delle pagine di Lanternari è dedicata ai movimenti religiosi d’interesse etnologico connessi con il colonialismo di età contemporanea, è anche vero che le comparazioni si muovono con riferimenti concepiti su scala mondiale, lungo una cronologia che va dal profetismo ebraico, alla diffusione del cristianesimo nell’Occidente romano, fino agli esiti del missionarismo cristiano nelle colonizzazioni di età moderna. La tastiera di corrispondenze che permette di comparare morfologie religiose così diverse e situazioni storiche così distanti, dal punto di vista cronologico e geografico, si serve di due nozioni tra loro articolate. Esse non sono rese esplicite da Lanternari, ma sono distinguibili nelle sue pagine. Si tratta della nozione che fa capo a Gramsci (il folklore magico-religioso come filosofia implicita delle classi subalterne) e quella che fa capo a Geoges Balandier (la «situazione coloniale»)[17]. Queste due nozioni agiscono in modo integrato e non nell’esclusività dei campi per i quali erano state concepite (classi egemoni e classi subalterne nella storia europea o italiana, per quanto riguarda Gramsci; minoranze straniere dominanti e maggioranze autoctone dominate nella storia coloniale contemporanea, per quanto riguarda Balandier). Basti qui un solo esempio. In una pagina serrata e tumultuosa, Lanternari fa emergere, condensati in poche righe, il tema e il metodo del suo libro:
Dall’oppressione «interna» dei bianchi nasce così fra i nativi, spontaneo, quel «bisogno della Bibbia» che i missionari non erano riusciti, in decenni o secoli di propaganda, a inculcare da fuori. La ragione di questo «cristianizzarsi» di molti gruppi nativi sta pertanto in ciò, che il forzato inserimento dei bianchi nella società indigena ha originato fra essi condizioni fondamentalmente affini a quelle che presiedettero al diffondersi del primitivo cristianesimo in Occidente. Come già per i primitivi cristiani del vicino Oriente e dell’antica Roma, così per i gruppi indigeni africani, asiatici, oceaniani, americani si fa sentire una duplice oppressione: del sacerdotalismo militante delle missioni, e dello statalismo invadente e autoritario dei governi coloniali[18].
Lanternari, come si vede, compara il contemporaneo cristianizzarsi dei gruppi nativi, come forma di risposta all’oppressione dei Bianchi colonizzatori, con l’originaria adesione al cristianesimo di popolazioni del Vicino Oriente, come forma di risposta all’oppressione di Roma antica («Come già per i primitivi cristiani del vicino Oriente»). In questo caso egli presuppone un contesto sociale che ricorda la «situazione coloniale» stigmatizzata da Balandier: si sfuocano le rispettive differenze di «classe» interne ai popoli a contatto e si mette in primo piano la dinamica etico-politica che si definisce nel grande squilibrio di forza tra una minoranza egemonica straniera, che condivide una religione (quella pagana), e una maggioranza indigena oppressa di religione non pagana (tra cui quella dei primi cristiani). Quando però, nella stessa frase («Come già per i primitivi cristiani del vicino Oriente e dell’antica Roma»), Lanternari accenna ai cristiani nell’antica Roma, egli non può riferirsi che a una distinzione di «classe»: il cristianesimo, come movimento e filosofia di libertà e di salvezza proprio di determinati gruppi subalterni, opposto al paganesimo locale maggioritario ed egemonico.
La complementarietà delle due nozioni, che fanno capo a Gramsci e a Balandier, vale anche per l’analisi che Lanternari propone dei movimenti religiosi nei veri e propri contesti coloniali. Qui si fronteggiano, secondo la nozione di «situation coloniale» elaborata da Balandier, una minoranza straniera di origine cristiana che detiene il primato tecnologico ed economico e una maggioranza «radicalement “non chrétienne”»[19] a basso livello tecnologico ed economico. Poiché i movimenti religiosi presentati da Lanternari riusano, sintetizzandoli, credenze e riti cristiani, diffusi proprio dagli oppressori, diventa essenziale distinguervi un sostrato religioso autoctono come espressione dell’idea di libertà. Lanternari definisce tale sostrato religioso come «popolare» (termine usato come sinonimo di «folklorico» o di «primitivo») e vi attribuisce una «funzione profana», cioè non sacra e non religiosa:
I culti profetici indigeni […] sanciscono, con il loro anelito di libertà, con l’ansia di salvezza terrena da cui sono animati i proseliti, la funzione profana delle religioni cosiddette «primitive» e in definitiva di ogni religione popolare: funzione volta alla risoluzione di concrete crisi esistenziali determinate dalla dinamica storica; funzione che consiste nell’instaurazione di forme adeguate di riscatto mitico-rituale»[20].
Lanternari recupera, dunque, una distinzione di tipo gramsciano per l’esame di fatti di carattere etnologico, non europeo. La nozione di «sincretismo» gli permette inoltre di distinguere nei movimenti religiosi di sintesi un sostrato «popolare» che fa del movimento religioso un movimento di libertà e di salvezza, perché egli vi vede una funzione non sacra, ma «profana», tesa alla libertà esistenziale del soggetto e alla sua emancipazione da ogni oppressione economica e politica e da ogni intimidazione proveniente dall’assetto organizzativo conservatore delle istituzioni ufficiali, siano esse, indifferentemente, di carattere religioso (le Chiese) o non religioso (gli Stati).
Le tipologie cui ricorre Lanternari, come per esempio quella della distinzione tra fattori «endogeni» ed «esogeni», non sempre appaiono chiarissime se messe in relazione alle morfologie e alle storie religiose in se stesse considerate, ma appaiono funzionali alla rappresentazione dell’antagonismo binario oppressori e oppressi, dove l’elemento locale, come impulso nativista o come base sincretica, serve di solito a distinguere un’istanza di liberazione e di salvezza «popolare» o «profana» (di filosofia della libertà).
In Lanternari la base popolare viene per lo più considerata nei suoi motivi di unità interna e nei suoi motivi d’implicito o esplicito antagonismo all’esterno. In tal senso l’esempio di Balandier era, dal punto di vista metodologico, più congeniale all’impostazione di Lantenari rispetto ad altri esempi di analisi del profetismo a sua disposizione, come per esempio quella di Bengt Sundkler. Pur basandosi su un’etnografia analitica, la ricerca di Balandier sulle dinamiche sociali e religiose dell’Africa centrale metteva pur sempre in primo piano i motivi di unità interna che i movimenti religiosi coagulavano, stimolati proprio dall’oppressione coloniale. Le differenze tra i movimenti religiosi di sintesi, connessi con le differenti popolazioni sottomesse, riguardavano piuttosto una tipologia delle risposte alla stessa situazione coloniale, risposte ora propositive (come il messianismo) ora di lacerazione dei motivi tradizionali e locali[21]. La ricerca di Sudkler sui profeti del Sudafrica distingueva invece le tipologie dei movimenti religiosi e delle Chiese anche in base ai sostrati delle organizzazioni sociali locali; senza sottovalutare la portata dell’ingiustizia della situazione e dell’oppressione, poneva anche il problema del conflitto interno[22].
Benché Lanternari faccia di tutto per sfumare il problema della gerarchia tra dimensione religiosa e dimensione politico-economica, di fatto, implicitamente, è quest’ultima dimensione a indirizzare, sia pure tra molti distinguo, la lettura dei fenomeni religiosi. Ciò non avviene subordinando «filosofia» e «religione» all’«economia», ma distinguendo e correlando (sulla scorta di Croce) «filosofia» ed «economia» e subordinando la «religione». I movimenti religiosi diventano movimenti religiosi di libertà non in base alla «religione» (non in base alla consistenza mitologica e rituale che li costituisce, né in base alla dinamica del sacro), ma in base alla filosofia della libertà che essi esprimono, correlata all’opposizione binaria oppressori e oppressi, egemoni e subalterni. Per esempio: il movimento dei « primitivi cristiani», i quali a costo della vita si astenevano dai riti pagani dei dominatori, sono per Lanternari comparabili con i movimenti religiosi dei popoli oppressi in regime coloniale, anche quando questi ultimi ricorrono ai riti e alle credenze della religione cristiana degli oppressori. Non sono dunque le credenze e i riti a dettare l’interpretazione dei fenomeni religiosi, ma sono le correlazioni tra le filosofie implicite dei movimenti religiosi con i dinamismi politici ed economici concernenti il rapporto tra popoli oppressori e popoli oppressi e tra classi egemoni e classi subalterne.
Il libro di Lanternari ha un’articolazione interna complessa, ricca di sfumature, ma l’idea che lo sostiene e assicura l’unità dell’analisi è chiara e semplice. La sua storia, come voleva la teoria di Croce, ha un solo soggetto (l’idea di libertà) e molteplici teatri geografici e sociali di svolgimento, unificabili nella dialettica tra libertà e oppressione. Entro questo grande quadro, Lanternari non ha difficoltà a selezionare dati e interpretazioni dalle fonti cui ricorre, benché esse siano tra loro diversissime per scala di attenzione e per criteri d’interpretazione. È indicativo, per fare un solo esempio, come Lanternari possa far suoi lunghi stralci dell’opera di Sundkler sui profetismi del Sudafrica, senza che il lettore avverta minimamente lo scarto tra le impostazioni e i fuochi dell’analisi dei due studiosi. Non c’è eclettismo nel libro di Lanternari, proprio perché le differenze tra le fonti, cui necessariamente ricorre, si stemperano o svaniscono in un così largo e chiaro quadro di riferimento teorico.
La selezione dei fatti religiosi proposta da Lanternari mette in ombra le morfologie rituali non solo perché le fonti sono spesso avare di notizie in tal senso, ma soprattutto perché l’analisi del rito e la considerazione della dinamica del sacro avrebbero richiamato la totalità dei campi investiti dal fatto religioso locale e ne avrebbero diminuito l’estendibilità e dunque la comparabilità su grande scala cronologica e geografica. La dimensione rituale avrebbe chiamato in causa sia il contenzioso tra popoli oppressori e popoli oppressi sia il contenzioso interno ai popoli oppressori sia il contenzioso interno ai popoli oppressi. Avrebbe eroso così il sistema ordinatore binario di Lanternari o avrebbe obbligato l’autore a una complessità narrativa ai limiti del riferibile.
La sottovalutazione e la semplificazione del problema della «stregoneria», nelle pagine che Lanternari dedica ai profetismi africani, vanno spiegate in tal senso. Se Lanternari avesse accolto la grande e costante preoccupazione dei profeti africani nei confronti della stregoneria, con tutte le conseguenze teoriche derivanti, sarebbe stato costretto a rivedere le basi della sua messa in ordine della correlazione tra religione, filosofia e dinamismo sociale. La stregoneria avrebbe aperto uno squarcio sulle ricadute della situazione coloniale negli antagonismi interni alle popolazioni subalterne e, soprattutto, avrebbe spostato l’attenzione su una preoccupazione dei movimenti religiosi diversa da quella considerata da Lanternari. A voler rimanere fedeli al suo linguaggio, essa dovrebbe essere definita una preoccupazione «disinteressata», cioè di natura anche propriamente speculativa, tesa più alla messa in ordine dei rapporti di senso che alla trasformazione dei rapporti di forza.
L’anno in cui appare Movimenti religiosi è l’anno in cui la maggior parte degli Stati africani ottiene l’indipendenza. E le prime parole del primo capitolo del libro richiamano la situazione africana, i cui profetismi sono interpretati come segni premonitori e preparatori dell’azione di emancipazione politica dal giogo coloniale. Lanternari interpreta come «messianici» i profetismi africani coevi e li considera come termine di paragone implicito nei confronti di tutti i movimenti religiosi che erano nati nei paesi coloniali in età moderna e contemporanea. Anche le aggiunte delle pagine alle varie edizioni del suo libro procedono, per dir così, più per addizione che per sintesi.
L’Africa nera non ha nel libro di Lanternari più spazio o più attenzione di altre aree, ma la sua stagione politica, coeva alla gestazione del libro, detta la chiave d’interpretazione che influenza tutto l’impianto della ricerca. Alcune forme messianiche, come per esempio il kimbangismo, incarnano in modo semplice e completo il modello interpretativo di Lanternari. Ciò non significa che i diversi movimenti religiosi di cui egli parla, diffusi nei vari continenti, sono tutti assimilati al messianismo di Kimbangu. Significa che nel kimbangismo Lanternari trova una coincidenza quasi perfetta tra l’idea intrinseca che ispira lo storico e lo svolgimento di questa idea nella storia stessa, fino ai giorni in cui egli scrive il suo libro. Il kimbangismo funziona come una sorta di modello di coincidenza massima tra «idea» e «fatto», a partire dal quale misurare, attraverso vari trattamenti, la distanza, l’ambivalenza e la contraddittorietà di tutti gli altri profetismi e di tutti gli altri movimenti religiosi di cui Lanternari parla. Ciò è rafforzato, dal punto di vista storiografico, dal fatto che il messianismo di Kimbangu è parte di uno svolgimento storico di movimenti religiosi congolesi di libertà a lui precedente e seguente. Ripercorrendone la storia, che Lanternari presenta dal caso di Dona Béatrice (Kimpa Vita) del XVIII secolo fino ai casi successivi a Kimbangu, il lettore può persuadersi di assistere allo svolgimento di una stessa idea che ha lavorato in tempi e modi diversi nella storia e che proprio nei giorni in cui il libro è scritto trova una sua distinzione e una sua chiarificazione, quando il movimento religioso di libertà e di salvezza si biforca in due distinti versanti: uno di accentuazione del «carattere religioso» (cioè di religione non più di libertà, né popolare) e l’altro di distinzione propriamente etico-politica. Questo secondo versante emerge dove il movimento religioso si autonomizza nelle sue valenze rituali e burocratiche, senza però per questo cedere la spinta autonomista, che si esprime all’interno della Chiesa. Di fatto però Lanternari indica come vero e proprio esito del movimento religioso di libertà e di salvezza il versante che dà vita «ai partiti nazionalisti militanti» che prendono direttamente «la responsabilità delle iniziative politiche e rivoluzionarie»[23], cioè quando si creano le condizioni di piena autocoscienza dell’idea di libertà, che nel suo svolgimento storico si era espressa in forme non ancora distinte.
La storia dei movimenti religiosi congolesi ricapitola, agli occhi di Lanternari, la logica di una storia religiosa locale che riproduce uno svolgimento della storia tout court. Il soggetto della sua ricerca non è, per esempio, la storia del cristianesimo e del suo proselitismo in Congo, ma è l’idea di libertà che nei vari movimenti religiosi è stata espressa. Il profeta Kimbangu «diveniva più che imitatore dei grandi fondatori religiosi, fondatore e martire egli stesso, alla pari di Cristo e di Mosè, di una religione per i negri»[24]. Il movimento congolese presenta, dunque, in modo esemplare, un soggetto della storia identificato nella libertà. E come tale, il soggetto può essere svolto su scala mondiale, anche in altre e diverse situazioni geografiche e cronologiche. Secondo il lessico caro a Croce, non si tratta di una storia universale, ma di un universale che si è svolto e si svolge nella storia. Popoli e gruppi sociali diversi sperimentano, in tempi e modi specifici nelle singole civiltà, l’articolazione di un’idea che muove sia la storia sia la storiografia che la svolge. E si tratta più di una storia di libertà nel senso di Croce che di lotta di classe nel senso di Marx ed Engels.
Lanternari si cimenta nello steso problema in cui s’impegna De Martino: recuperare alla storia come storicismo il mondo etnologico. Identifica però un tema stringente (l’attesa messianica) e una figura sintetizzatrice (il profeta-messia), nella quale l’individuale (i vari profeti e i vari movimenti religiosi di libertà) non è separabile dall’universale (la libertà). Il profeta, e in particolare il profeta-messia, rappresentano così per Lanternari, indipendentemente da Max Weber (nominato per la prima volta nella prefazione alla seconda edizione), figure storiche suscitatrici dell’idea di libertà. Lanternari dimostra di distinguere, metodologicamente, la figura ideale del «messia» dalle sue realizzazioni storiche anche per due altri motivi: perché egli non abbraccia una concezione di «evoluzione» necessaria e impersonale della storia, e in questo senso Lanternari, pur non essendo debitore diretto di Weber, è a lui più vicino di quanti ne hanno interpretato le tipologie in un’ottica evoluzionistica (dal profeta al leader politico); e perché egli interpreta la storia del missionarismo cristiano come polo negativo di oppressione e solo in tal senso, secondo il concetto prima richiamato di «positività della storia», eventuale mallevadore di libertà.
Il modello del «Cristo nero», cui i profeti stessi ricorrevano e che Lanternari e altri studiosi hanno amplificato in opere giustamente celebri[25], permette di riassumere, in una sola immagine, il nucleo interpretativo e il metodo del libro di cui qui si discute. Non sono i fatti estrinseci del movimento religioso di salvezza e libertà scaturito da Cristo e poi diffusosi in Occidente e nei mondi coloniali a giustificare il comparativismo, ma è l’idea di libertà che in tempi e modi diversi, per influsso diretto o indipendentemente, si è svolta nella storia. Lanternari porta a fine ciò che promette nella prefazione: «Non vi sono tabù per la storia religiosa. Cristianesimo, mormonismo, lazzarettismo appartengono alla storia religiosa, al medesimo titolo del matsuismo congolese, del Cargo cult melanesiano, del peiotismo americano»[26]. La comparazione senza tabù, cioè su un piano di parità ideale, tra cristianesimo, matsuismo congolese, cargo-cult melanesiano e piotismo americano, non si giustifica né con la realtà estrinseca dell’importanza che tali movimenti hanno avuto, né con il loro contatto. Trova, invece, per dirla con Croce, il suo fondamento logico e la sua plausibilità storiografica nel giudizio intrinseco dello storico, che individua nell’idea della libertà il soggetto comune che si è svolto in tutti i movimenti considerati, quali che siano i diversi esiti e l’estensione geografica e cronologica dei fatti.
Movimenti religiosi non è un libro militante: le preoccupazioni scientifiche sono preponderanti e la complessità dell’analisi non consente semplificazioni di sorta. La sua fortuna, innescata dalla recensione che ne fece uno dei più grandi storici delle rivoluzioni[27], va però messa in relazione anche con le attese ideali dei suoi lettori.
I modelli interpretativi binari nelle scienze sociali del dopoguerra (oppressori e oppressi, egemoni e subalterni, popoli coloniali e popoli colonizzati) sono stati implicitamente solidali (bongré malgré rispetto alle intenzioni dei suoi ideatori) con le ideologie dipendenti dalla geopolitica delle macroalleanze. Anche l’impianto del libro di cui discutiamo non era incompatibile con un sostrato ideologico diffuso. Esso può essere richiamato in una sorta di paradosso che teneva insieme modelli binari d’interpretazione della storia e della società e modelli fattuali dell’antagonismo geopolitico mondiale. Fino a qualche decennio fa, insomma, il mondo sembrava effettivamente dividersi in due. E nei fatti concernenti la libertà, il primo e secondo Mondo agivano dentro e fuori in maniera complementare: il blocco occidentale estendeva le libertà al suo interno, con la crescita del peso politico delle classi subalterne, ma favoriva l’oppressione nel Terzo Mondo, attraverso alleanze politiche con i regimi più oppressivi; il blocco orientale opprimeva le libertà al suo interno, ma le favoriva nelle alleanze politiche nel Terzo Mondo.
Sono scomparsi i «popoli oppressi» dal titolo della terza edizione del libro di Lanternari non perché ovviamente siano scomparsi gli oppressi, ma perché, con il mondo in frantumi, si sono frantumate anche le analogie concettuali binarie. Esse permettevano di correlare la dinamica tra libertà e oppressione a quasi tutte le altre dinamiche binarie, attraverso l’attivazione di tastiere allusive di corrispondenze implicite, largamente condivise. Si trattava di corrispondenze capaci di mettere in ordine il mondo, dal punto di vista territoriale (Occidente e Terzo Mondo), sociale (colonizzatori e colonizzati, classi egemoni e classi subalterne), razziale (Bianchi e Neri), economico (capitalismo e collettivismo), entro un’immagine del divenire storico che sembrava affrettarsi verso qualche soluzione. La fortuna recente del «negativo» nell’idea dell’Africa morente e irredimibile non è estranea all’idea che l’aveva eletta teatro privilegiato del messianismo della libertà[28]. Tale fortuna eguale e contraria esprime infatti soltanto la delusione totalizzante seguita a un’illusione totalizzante, alla quale però non si accompagna una volontà di comprensione paragonabile a quella che infiammò la stagione politica e culturale di cui il libro di Lanternari è documento.
Tradotta in sette lingue, quest’opera di Lanternari ha avuto successo anche perché era attesa. Captava e dava forma compiuta a un ordinamento simbolico riconoscibile in campi diversi, anche lontani da quelli specialistici della storia e dell’antropologia delle religioni. Ciò non ne diminuisce ma ne esalta il valore di documentazione e interpretazione scientifica, accanto ad altri notissimi classici, basati sul principio sintetico delle opposizioni binarie, come per esempio Les Damnés de la terre di Fanz Fanon[29]. Proprio nel senso della metodologia storiografica di Benedetto Croce, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi doveva essere ed è stato un libro di «storia contemporanea»[30].
Non sono gli anni trascorsi dalla prima edizione che ci allontanano dal libro di Lanternari, ma è la storia delle forme e delle loro implicite corrispondenze che l’autore aveva individuato per lo svolgimento della sua idea. I primi lettori di Movimenti religiosi ne leggevano le pagine nel contesto di fatti diversi uno dall’altro, ma che si lasciavano interpretare lungo una stessa direzione. I «movimenti nativisti», le Chiese indipendenti, i profetismi, i messianismi, nell’interpretazione data da Lanternari, trovavano unità anche perché potevano rappresentare, sul piano dei fatti religiosi, ciò che altri fatti rappresentavano sul piano politico. Erano gli anni della lotta dei diritti civili dei Neri americani, della crescita dei partiti e delle organizzazioni delle classi subalterne in Occidente e dei partiti e dei movimenti nazionali e sovranazionali delle aree coloniali e semicoloniali, dell’indipendenza degli Stati africani, della rivoluzione cubana e dei mille fermenti di liberazione dell’America latina, dell’Asia e in genere del Terzo Mondo. La possibilità di unificare le forme religiose scelte da Lanternari per la sua storia dei movimenti di libertà e di salvezza si è spezzata insieme con le rappresentazioni di quel mondo con cui era idealmente solidale, in un tempo divenuto presto remoto alla luce di molti disinganni.
Se l’immagine del profeta-messia può sintetizzare il nucleo interpretativo da cui si sprigiona l’investigazione ad amplissimo raggio di Movimenti religiosi, quella che potremmo chiamare la figura del «profeta non messia» sintetizza la continuità di applicazione dei temi cari a Vittorio Lanternari. Se non altro perché i profeti hanno continuato a occupare la scena, a prestare il loro corpo e la loro voce a qualche potenza straordinaria, per proporci anch’essi idee e pratiche dove si riflettono, come in un gioco di specchi deformati, gli esiti della vocazione missionaria dell’Occidente, messa in opera, ieri come oggi, attraverso le merci, la scienza, i cannoni e la croce. Anche in queste situazioni, dove le nuove espressioni profetiche hanno fatto emergere temi e problemi che obbligano a rivisitazioni sia etnologiche sia storiografiche, l’Africa nera occupa un posto di rilievo[31]. Non è possibile qui darne conto se non attraverso brevissimi accenni a campione. Ciò sia per ragioni di spazio sia perché proprio la fortuna dei temi cari a Lanternari ha favorito ovviamente lo studio analitico, la distinzione tra le varie «vocazioni» dei profeti, compresa quella militare[32], l’esplorazione dei caratteri distintivi delle aree profetiche, l’individuazione di dinamiche sociali e culturali che non sapremmo sintetizzare o che non si lasciano sintetizzare. I profeti del mondo etnologico sono legati a filo doppio alla storia che dall’età moderna a oggi ha fatto il mondo così com’è. E a loro modo sono anch’essi impegnati a interpretarne il senso. Si potrebbe quasi dire che oggi il profetismo e gli studi sul profetismo interpretano in solidarietà un carattere del mondo contemporaneo avanzato: afferrano simboli della comunicazione globale per la messa in ordine di micromondi fatti ognuno, singolarmente e diversamente, di totalità.
Considerati a volo d’uccello, nel loro incessante ripresentarsi dall’età moderna a oggi, i profetismi e la loro documentazione appaiono innanzitutto come i resoconti del malinteso. I profeti hanno deluso, dopo averli illusi, tutti i loro interpreti occidentali, a cominciare da quelli che li archiviavano come incidenti di percorso di interesse psicopatologico. Hanno deluso i missionari, dopo averli temporaneamente sedotti con le loro campagne contro i feticci e la stregoneria delle religioni locali, continuando a presentarsi sempre e comunque come voce autentica del loro stesso Dio. E hanno deluso, in un certo senso, anche gli storici e gli etnologi che avevano visto in loro sempre e comunque dei messia, catalizzatori di un’idea o di una necessità della storia destinate in tempi brevi alla realizzazione di un disegno. Essi, più che passare il testimone ai politici di professione, hanno loro suggerito uno stile, che si è dimostrato carico di futuro in Africa come in Occidente. I profeti insomma ci ricordano, a dispetto dei luoghi comuni, che la modernità non marcia verso il disincanto del mondo.
Per il fatto stesso di essere religioni in potenza, interpretazioni della forza, momenti della produzione del sacro, messe in ordine del mondo, della vita e della persona, i profetismi non possono che continuare a sfidare il pensiero degli antropologi. Marc Augé, per esempio, sin dalle sue prime ricerche, ha opposto la lezione di Nietzsche a quella dello storicismo hegeliano e ha visto nei profeti, anche nel loro succedersi uno dopo l’altro, una sorta di rituale d’inversione, una rivincita del paganesimo, inteso come relativismo e come messa in ordine non metafisica della persona, del mondo e della vita, contro l’imperialismo monoteista delle religioni missionarie[33]. Cosicché, se nell’impostazione di Lanternari il profeta appariva come l’acceleratore di processi storici che si erano già svolti in Occidente, in Augé può apparire come avatar di una storia che avrebbe potuto essere e non è stata, dopo la morte degli dei del paganesimo antico.
André Mary ha rivisitato la nozione di sincretismo in una direzione sostanzialmente diversa da quella di Lanternari, ma dove i profeti restano i principali interpreti. Essi si mostrano come i campioni della mescolanza e della giustapposizione, utilizzatori consapevoli di una figura della modernità, quella appunto del profeta (in una chiave, si potrebbe dire, metaprofetica), per carpire, fino ad anticiparlo e a cavalcarlo, lo spirito sincretico della «surmodernité»[34]. Quel che è certo è che il profetismo africano si è dimostrato meno un residuo della tradizione e più il portato della modernità. Testimonia il ritorno del «religioso» come processo complementare, mai interrotto, di «désenchantements» et «réenchantements» del mondo[35]. In questa prospettiva, imprevista e imprevedibile negli anni Sessanta, quando si era soliti immaginare il profeta come chi avrebbe consegnato il testimone al politico secolarizzato, si sono messi alla prova vari modelli teorici e metodologici d’interpretazione. Fra i più significativi, va ricordato quello di Max Weber[36].
Molto spesso, in campo etnologico, le tipologie weberiane erano usate rovesciando la prospettiva del loro autore. Egli cercava la religione nella storia dei fatti che al suo tempo apparivano come non religiosi. Per lo più gli etnologi cercavano invece i fatti non religiosi nei profetismi contemporanei che apparentemente erano immersi nella dimensione religiosa. Chi interpretava Weber, più a torto che a ragione, in una prospettiva evoluzionistica, poteva immaginare ora nel tempo ora nello spazio una stessa risoluzione logicamente ordinata delle figure del potere (per esempio, stregone, mago, sacerdote, profeta, clero, burocrate, politico secolarizzato). I profeti, almeno quelli d’Africa, si sono però affrettati a smentire anche questa genealogia e hanno provato essi stessi, a loro modo ma dicendo più di quanto sanno, a mettere ordine nella rappresentazione dei poteri, con figurazioni sempre originali delle forze che lottano tra loro nella stessa arena, dove compaiono insieme, talvolta nella stessa persona e talvolta scambiandosi di ruolo, quelli che loro e noi chiamiamo mago, stregone, profeta, falso profeta, sacerdote, pastore, leader, politico. Se si volesse recuperare nel campo della riflessione scientifica questa lezione dei profeti africani, si potrebbe perfino dire che essi ci invitano a rileggere Weber[37], a liberare la sua interpretazione dalla patina evoluzionistica e a recuperarla nella sua volontà di fornire appunto dei tipi ideali, come strumenti euristici da mettere al lavoro in vista dell’effettiva comprensione esplicativa dei complicati percorsi della storia universale[38]. Non a caso, la storia recente dell’Africa come dell’Occidente ci mostra i suddetti tipi ideali per così dire intrecciati, secondo realizzazioni della modernità imprevisti e imprevedibili. In questa direzione, Jean-Pierre Dozon ha potuto accostare la filosofia di Weber all’antropologia e il profetismo africano a una sorta di antropologia applicata, fino a considerare i profeti come dei «colleghi che hanno già saputo captare e interpretare gli esiti della vita sociale e posare uno sguardo acuto sui cambiamenti del mondo e della modernità»[39].
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[1] Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi di Vittorio Lanternari appare la prima volta nel 1960, presso l’editore Feltrinelli di Milano. Presso lo stesso editore e con lo stesso titolo è riproposto nel 1974, in una «nuova edizione riveduta e ampliata». Con il titolo modificato in Movimenti religiosi di libertà e salvezza è ripubblicato, ancora ampliato, per gli Editori Riuniti di Roma nel 2003. I riferimenti alle pagine qui segnalate seguono questa terza edizione: Lanternari [1960] 2003. Lo scritto qui presentato riutilizza parti di quello apparso, con il titolo «Les mouvements religieux de salut et le déploiement de la liberté. L’héritage de la méthode historique de Croce», in Fabre, Massenzio 2013, alle pp. 27-46.
[2] Cfr. Massenzio [1994], 1999, pp. 13-61.
[3] La celebre presa di posizione di Benedetto Croce contro l’impostazione degli studi di Raffaele Pettazzoni si trova in Croce 1924, pp. 312-313. Sempre su La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia, diretta da Croce, compaiono altri suoi accenni e interventi utili per mettere a fuoco la prospettiva metodologica di Movimenti religiosi. Cfr. Croce 1924a, soprattto p. 372, e Croce 1929, in particolare pp. 174-176.
[4] Prefazione alla prima edizione, in Lanternari [1960] 2003, p. 39.
[5] Teoria e storia della storiografia di Benedetto Croce appare una prima volta in tedesco (Tübingen, Mohr, 1915). Il testo è poi rielaborato dall’autore attraverso sei edizioni italiane, fino a quella del 1948. Qui i riferimenti al numero delle pagine riguardano l’edizione nazionale: Croce [1915] 2007, dove la nota al testo e l’apparato critico permettono di ripercorrerne genesi, fonti e varianti.
[6] Croce dedicò attenzione all’impresa di Ernesto De Martino concernente la storia del magismo (De Martino [1948] 2007) in due occasioni: nella prima gli elogi hanno più spazio delle critiche negative; nella seconda avviene il contrario. Cfr. Croce 1948, pp. 79-80, e Croce [1949] 2005, pp. 185-199.
[7] Conte 2005.
[8] Croce [1915] 2007, p. 272.
[9] Per esempio, Massenzio [1994], 1999, pp. 15-26.
[10] Sulla «filosofia» come la fonte da cui «proviene quell’imperfetto conato al filosofare, che si chiama religione, quando si è dentro al suo cerchio magico, e mitologia, quando se ne è venuti fuori», v. Croce [1915] 2007, p. 52. Su questo aspetto è significativo il ripensamento di Croce che, nella prima formulazione dello stesso passo, parlava di «religione» come «opposto della filosofia»: v. l’«Apparato critico» in Croce [1915] 2007, p. 384.
[11] Lanternari [1960] 2003, p. 40.
[12] Lanternari [1960] 2003, p. 70.
[13] Croce [1915] 2007, pp. 70-78.
[14] Ernesto De Martino riesce nella vera e propria impresa di interpretare il rito in azione come fonte storica. Cfr. innanzitutto De Martino [1958] 2000 e De Martino [1961] 1976. Sul problema del nesso mito e rito nell’opera di De Martino, cfr. Massenzio 1997.
[15] Come si sa, il tema della cultura popolare come filosofia implicita delle classi subalterne anima diverse pagine dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci: Gramsci [1948-1951] 1975. La sostanziale equiparazione tra mondo d’interesse folklorico e mondo d’interesse etnologico segna tutta l’opera di Ernesto De Martino e trova dichiarazioni esplicite in diverse occasioni, fino all’opera pubblicata postuma: per esempio, De Martino [1953, 1962] 1980, pp. 137-140, e De Martino [1977], 2002, pp. 392-393.
[16] Cfr. Lanternari [1983] 1989, p. 352.
[17] La «situazione coloniale» dà il titolo al celebre saggio di Balandier (Balandier 1951), i cui assunti sono ripresi dallo stesso autore nell’opera che Lanternari maggiormente utilizza: Balandier [1955] 1971.
[18] Lanternari [1960] 2003, p. 411.
[19] Balandier [1955] 1971, pp. 34-35.
[20] Lanternari [1960] 2003, pp. 48-49.
[21] Balandier [1955] 1971, per esempio, pp. 417-520. Proprio a tali problemi si riferiscono inoltre i più sensibili aggiornamenti che differenziano la seconda edizione dell’opera di Balandier dalla prima, cui le edizioni del libro di Lanternari si riferiscono.
[22] La monografia di Bengt G. M. Sundkler pure ha raggiunto la terza edizione, nel 2004, che però riproduce la prima, senza dunque le revisioni e le aggiunte che l’autore riservò alla seconda: cfr. Sundkler [1948] 1961.
[23] Lanternari [1960] 2003, p. 70.
[24] Lanternari [1960] 2003, p. 57.
[25] Cfr. Bastide 1972, pp. 7-13.
[26] Lanternari [1960] 2003, p. 42.
[27] Hobsbawm, 1961.
[28] Cfr., per esempio, Petrarca 2010.
[29] Fanon [1961] 1991.
[30] Croce [1915] 2007, pp. 11-23.
[31] Cfr., per esempio, Petrarca 2012.
[32] Behrend [1993] 1997.
[33] Augé 1975; Augé [1982] 2008; Augé et Colleyn 1990.
[34] Mary 1999; Mary 2009.
[35] Dozon 1995, p. 10. V. anche Dozon 2008.
[36] Cfr., per esempio, Johnson [1994] 1997; Anderson, Johnson 1995.
[37] Anche perché il nuovo testo critico della Max Weber-Gesamtausgabe, a cura di Hans G. Kippenberg, ci restituisce un’opera in alcuni casi sostanzialmente diversa da quella che avevamo letto. Per i temi più strettamente connessi con queste pagine, cfr. Weber [1922], 2001.
[38] Cfr.Tessitore 2006 e Massimilla 2010.
[39] Dozon 1995, p. 240.