La misura mostruosa della normalità

Il museo anatomico, la piazza, gli ethnic show

Fulvio Librandi

Università della Calabria, Dipartimento di Studi Umanistici, Arcavacata di Rende, Cosenza, Italy

Table of Contents

Corpi senza voce
La pedagogia del raccapriccio
Freak show, ethnic show
Precipitare nella storia
La fine di un paradigma
Bibliografia

Abstract. During the second half of the 19th Century, teratological bodies have been a privileged matter of concern in the public spaces and scientific laboratories. On one side, freak shows reached their greatest success of audience; on the other, teratology, the science which studies freaks, become one the reference science for other medical disciplines. The aim of this article is giving a picture of the biunivous exchange of relics between scientific institutions and freaks exhibitions in local fairs, which could be also considered, in an evolutionist view, an exchange of knowledge. During the 19th Century, a monstrous body, looked by the perspective of the theory of the adult development and the theory of embryonic recapitulation, was used to keep together the ethnological cause and the biological one, naturalizing the classification of human races.

Keywords. Freak-show, musei teratologici, corpo mostruoso, evoluzionismo.

Corpi senza voce

Nel museo Morelli in alcune teche piene di alcol, riposte sopra un’usata scaffalatura metallica, sono conservati feti di interesse teratologico. Il museo si trova all’interno degli ex locali dell’Istituto Forlanini di Roma e da tempo, nonostante conservi collezioni scientifiche importanti, è a rischio di chiusura o trasferimento per mancanza di fondi. Nelle sue stanze austere si possono osservare una raccolta di embriologia completa - dall’uovo fecondato al feto al nono mese di gravidanza - e circa novecento preparati anatomici, tra i quali, di grande interesse, sono gli stampi bronchiali - una sorta di negativo tridimensionale dei polmoni -, e quelli dell’apparato nervoso. Nella sala dedicata all’anatomia topografica sono esposte cinquanta sezioni longitudinali e trasversali di un corpo umano adulto e un quadro di ventidue sezioni pediatriche che costituiscono uno stupefacente prototipo di tomografia, con la differenza che invece dei radiogrammi sono esposte vere sezioni di un corpo umano spesse un solo millimetro e montate su pannelli che ne rendono possibile la visione da entrambi i lati. Vi è poi una sezione di anatomia radiologica e chirurgica che raccoglie quadri di interesse storico-scientifico relativi alla patologia della tubercolosi precedenti alla scoperta degli antibiotici. Le immagini di corpi scorticati, le ceroplastiche iperrealistiche, l’anatomia umana vista dal lato interno, risultano estranianti e, poiché il fine della collezione è stato sempre - in modo diverso nel tempo - didattico, un elemento di continuità diacronica può essere individuato nella funzione attribuita allo stupore nei processi educativi. Ora mummificati, ora immersi in liquido conservante, ora riprodotti in cera, decine di organi del corpo, funestati dalle patologie più diverse, vengono offerti alla considerazione del visitatore. È come avere a che fare con una sorta di strumentario per la ricostruzione ideale, al netto delle patologie illustrate, di un corpo umano sano. La rappresentazione sottesa all’itinerario museale è quella di un corpo paradigmatico da ricostruire mentalmente dopo avere esperito e scartato ogni diversità dalla norma.

Poi appaiono i corpi interi, e sono corpi inquietanti. Le denominazioni scientifiche – mutevoli nel tempo – parlano di acondroplasici, pigopagi, anencefali, secondo un linguaggio specialistico che li inserisce in una dimensione altra. Il visitatore constata che alle didascalie corrispondono, ad esempio, due feti che si fondono completamente al livello del bacino, senza arti inferiori e rannicchiati in posizione fetale, un neonato con due teste, un altro che presenta sul petto l’abbozzo di un parassita, un altro ancora con il cranio più grande del resto del corpo, un altro, infine, di cui sono chiare le fattezze umane dai piedi all’ombelico mentre la parte superiore è costituita da un ammasso informe. Tra i musei che contengono collezioni di interesse teratologico, quello ospitato nell’ospedale Forlanini, intitolato al fondatore Eugenio Morelli, è uno dei più recenti. Venne infatti inaugurato nel 1941, in un periodo in cui una nuova sensibilità aveva ormai da tempo relegato la visione corretta dei corpi di interesse teratologico ai soli gabinetti scientifici. Il più specifico museo teratologico “Cesare Taruffi” di Bologna, che di recente è stato inglobato nelle sale del “Museo delle cere anatomiche Luigi Cattaneo”, mette in mostra reperti di malformazioni congenite sotto alcol o formalina, calchi in cera, scheletri essiccati e corpi mummificati. Taruffi, primo professore di Anatomia patologica della scuola medica di Bologna e autore di una monumentale Storia della teratologia, venne nominato curatore del nuovo Gabinetto di Anatomia patologica nel 1863. Nel 1863 viene fondato anche il museo di anatomia patologica e teratologia veterinaria a opera di Giovanni Battista Ercolani, figura di riferimento della scienza veterinaria in Italia, mentre è nel 1871 che Giovanni Antonelli, docente di anatomia, dà nuova forma al Museo anatomico oggi ospitato nella seconda Università di Napoli, che conserva, tra moltissimi reperti, una collezione di oltre 150 malformazioni fetali. A Vienna, il Pathologisch-anatomisches Bundesmuseum è oggi un’attrazione della città: è ospitato al terzo piano della Torre dei Pazzi, costruita nel 1784 dall’imperatore Giuseppe II, che fino al 1860 fu uno dei primi sanatori per malati di mente. In questo museo è possibile vedere un’infinita serie di malformazioni che mette il visitatore nella condizione di constatare i limiti della sua fantasia L’elenco, che potrebbe continuare, è lungo, e accanto alle collezioni legate all’istituzione universitaria occorre annoverare anche piccole sezioni di piccoli musei - una interessante è seminascosta a Gallipoli nel museo Emanuele Barba - che, per il loro portato inquietante, restano a volte non catalogate e inesposte, difficili da censire.

Alcune schede che presentano il museo Morelli raccontano della sua origine “insolita e curiosa”, che è da ricondurre a quegli spettacoli di piazza in cui erano presenti i mostratori di stranezze umane. Il dottor Morelli ebbe come collaboratore Rudolf Grützner, o Krützner, del quale si hanno poche notizie e che viene talvolta indicato come professore di anatomia patologica, talaltra come esperto di preparazioni anatomiche, altre volte ancora come mostratore di curiosità nelle fiere. È certo che il primo nucleo della collezione è costituito proprio dalle esposizioni di Grützner, e non si può escludere che i feti mostruosi esposti nel museo Morelli provenissero da collezioni mostrate nei baracconi fin quando una nuova sensibilità e una nuova disciplina di legge resero impossibile questa forma di spettacolo. Questo travaso di reperti dalle piazze ai musei, così come dai musei alle piazze, non solo non costituisce una novità, ma è un esempio di un fenomeno diffuso il cui prototipo può essere indicato negli scambi tra Phineas Tylor Barnum e il Museo di Storia naturale di New York, lo Smithsonian Institution di Washington, o la Tufts University. Quando nel 1872, dopo due devastanti incendi, il geniale imprenditore decise di lasciare New York e rendere itinerante il suo spettacolo - che pomposamente definiva The Greatest Show on Earth - donò a queste istituzioni molte cose della sua “sinossi enciclopedica di tutto ciò che val la pena vedere e conoscere nella singolare economia di questo mondo singolare” [Barnum 1927, 266]. Della Tufts University Barnum era stato anche amministratore fiduciario, e la mascotte di questa università è ancora oggi la coda imbalsamata dell’elefante Jumbo che l’imprenditore esibiva nei suoi spettacoli. Barnum contribuiva quindi fattivamente alla nascita dei nuovi musei scientifici che avrebbero determinato la senescenza non del suo “milione di cose di ogni specie della natura”,⁠ ma dello sguardo che si posava su di esse.

Tra il 1863, anno della fondazione del museo di teratologia di Taruffi, e il 1941, anno in cui Morelli inaugurò la sua collezione, un radicale cambio di paradigma aveva reso i mostri del Forlanini muti, parole ormai quasi priva di senso di una langue che si era disarticolata velocemente. Per lungo tempo la teratologia, lo studio delle mostruosità, era stata la disciplina di riferimento per la biologia e per le altre scienze mediche, e in piena temperie evoluzionista questa scienza aveva consentito la costruzione di un atlante anatomico che individuava continuità tra uomini, mostri e animali, fino al dettaglio dello sviluppo anomalo delle singole parti del corpo; più in generale, consentiva di delineare una geografia fantastica in cui sistemare, ordinandoli gerarchicamente, uomini di razze diverse. I corpi di interesse teratologico mediavano saperi diversi, garantendo la continuità logica tra le esibizioni di piazza, le lezioni nei gabinetti di anatomia e le riflessioni degli antropologi.

La pedagogia del raccapriccio

Nella seconda metà dell'Ottocento l’industria della mostruosità diventa un’attività altamente remunerativa, molto spettacolare e accettata ovunque [Bogdan 1988]. Nelle fiere, nei circhi, nei luna park, all’interno di carrozzoni, venivano esibite, in vivo e in vitro, persone che avevano caratteristiche fisiche fuori dal normale. L’esibizione a fine di lucro delle anomalie corporee non costituiva una novità, erano però nuove alcune modalità del commercio di questi corpi, nuovo lo spirito imprenditoriale e la diffusione su larga scala: dalle più grandi metropoli europee e americane fino alle fiere rurali, il teatro che viene fatto delle bizzarrie umane suscita un enorme interesse. A Parigi moltitudini di curiosi si affollano alla Foire du Trone le cui baracche espongono bizzarrie di ogni forma; da Londra si raggiunge in treno Croydon o Barnet, per trascorrere la giornata osservando le creature più strane.

In questo periodo, in Europa, un sistema sociale basato su equilibri che sembravano immutabili si modifica velocemente. Il grande esodo dalle aree rurali alle città determina nuove modalità di relazione sociale, basate sull’anonimato del capitale, che vanno velocemente a sostituire quelle tradizionali proprie delle piccole comunità. La fiera resta, costitutivamente, un luogo in cui è possibile fare esperienza dell’extra-ordinario, è un luogo in cui spesso si mescolano intrattenimento e istruzione, attrazione e scoperta, e in cui è possibile accedere alle versioni popolari del sapere scientifico del tempo. Per quello che ci riguarda, alcuni sedicenti musei anatomici ambulanti esibiscono le peggiori patologie conservate sotto formalina o rappresentate in cera, dichiarando un’intenzione educativa che Italo Calvino ebbe a definire “una pedagogia del raccapriccio” [Calvino 1988, 434]. È il caso, ad esempio, del Grand Musée anatomique ethnologique del dottor Pierre Spitzner (ma sul titolo di studio i dubbi sono moltissimi) fondato nel 1856 a Parigi dove resterà per circa trent’anni, e che poi divenne itinerante [Vita 1997, 39]. Spitzner viaggiò in Francia, in Olanda, in Inghilterra, in Belgio, e diventò un’attrazione importante per molte fiere. Il nucleo originario dell’esposizione era composto da ottanta pezzi provenienti da un’antica collezione anatomica appartenuta al dottor Dupuytren: per questa raccolta avevano lavorato i maggiori modellatori di pezzi anatomici e Spitzner, con buone ragioni secondo il sentire del tempo, poteva pubblicizzarla come un indispensabile strumento per un’adeguata preparazione medica. Nel tempo la raccolta si era arricchita dei reperti più diversi e più strani e, di anno in anno, nei vari cataloghi a stampa, si può notare come arrivassero sempre nuovi oggetti mentre altri sparivano, cosa che lascia supporre una sorta di mercato delle bizzarrie che seguiva l’andamento della curiosità della gente. La missione dichiarata del museo era educativa e la sequenza di organi malati esposti, come fegati distrutti dalla cirrosi oppure organi genitali deformati dalla sifilide, dovevano servire da monito ai giovani.

Lo spettacolo dell’alterità che Spitzner propone contempla la giustapposizione di corpi con vari gradi di deformità - spesso frutto di artificio -, ma anche di corpi di persone provenienti da diversi angoli del mondo, secondo una continuità logica che appare all’epoca normale. In un museo il cui core era l’anatomia, la prima sezione era dedicata all’etnologia. I primi sedici pezzi numerati constavano dei seguenti calchi: “1. Samoyède; 2. Nègre d’Amérique; 3. Cafre; 4. Nubienne; 5. Femme indienne; 6. Papou; 7. Creole; 8. Boschimane; 9. Indien, chef de tribu; 10. Nubien; 11. Soudanaise. 12. Australien; 13. Ethiopien; 14. Hottentote; 15. Aztèque (homme); 15 bis. Aztèque (femme)”; non venivano fornite ulteriori indicazioni che consentissero ai visitatori di contestualizzare i calchi in un angolo di mondo. Le sezioni successive erano quelle di “Anatomia e patologia interna ed esterna”, “Fratture”, “Malattie della pelle, cancro, diverse affezioni sifilitiche dell’epidermide, ecc.”, “Anatomia, patologia, fisiologia”, “Collezioni di mostri”, eccetera, passando da “Curiosità anatomiche” fino a “Effetti nefasti dell’abuso di alcool sull’organismo”. Laddove altrimenti si cercava, in pieno fervore etnologico, di misurare la distanza temporale che separava i nativi africani dal grado di sviluppo degli europei, al livello più popolare gli “altri” facevano mostra di sé, anche in questi musei, tra un feto mostruoso, conservato sotto formalina, la sezione verticale di una donna incinta di sette mesi, un gorilla, il cranio di un gigante russo. La “Collezione di mostri” del museo di Spitzner era sempre visitatissima; tra i reperti più interessanti si segnalano un feto con due corpi e un’unica testa conservato sotto formalina, una serie di ricostruzioni degli apparati delle gemelle siamesi Millie e Christine -dalle vertebre dorsali, alle ovaie, alle due vagine separate-, diversi mostri doppi. È suggestiva la riflessione di Calvino che ritiene sia la nudità l’elemento che garantiva la coerenza delle collezioni di Spitzner: “la nudità diversa, intima come ogni nudità ma resa distante dalla malattia, dalla deformità o dall’estraneità di civiltà o razza, con in più il disagio che dà la cera quando imita il pallore della pelle umana” [Calvino 1988, p. 30].

Spitzner provava ad rivestirsi di un’aura istituzionale, e gli ambienti dell’esposizione erano costruiti un po’ come laboratorio, un po’ come morgue, sempre sul confine tra il rispettabile e il losco [cfr. Ibidem]. Il suo museo costituiva un riferimento di prestigio per tutti i baracconi che esibivano stranezze anatomiche percorrendo lunghe distanze da fiera a fiera. Solo per esempio, a piazza Pepe, a Roma, nei primi anni del Novecento, Petrolini racconta come nei carrozzoni si potesse osservare a pagamento, tra la donna barbuta e il teatro meccanico con la nevicata, “il grande museo anatomico di cose inutili e disgustose a vedersi premiato con diplomi e medaglie d’oro in tutte le accademie di scienze del mondo” [Petrolini 1932, 47, 48].

Freak show, ethnic show

Alla fine dell'Ottocento le fiere per eccellenza diventano le Esposizioni Internazionali, in cui si mostrano, si misurano, si comparano, si comunicano, i saperi disponibili del mondo. La partecipazione della gente è enorme: quella di Parigi del 1889, che fu occasione della costruzione della Tour Eiffel, fu visitata da circa trentadue milioni di persone. Secondo Benjamin, le Esposizioni Internazionali sono un “luogo di pellegrinaggio al feticcio della merce [che] nasce dall’intento di divertire le classi operaie” [Benjamin 2000, 9]. Nell’industria del divertimento che origina in questo periodo, e che si sovrappone, coesistendo, alla festa popolare, i freak show conoscono il momento del loro massimo splendore. Il corpo strano si adegua alle nuove esigenze dello spettacolo, continua a stupire e, al contempo, a essere teorema che convalida il sistema metrico che serve a misurare “scientificamente” e a interpretare ogni diversità.

La pratica di fare commercio esponendo corpi mostruosi è documentabile in tempi diversi, ma nuove sono le logiche che sottendono all’esposizione. Robert Bogdan indica il periodo dello splendore dei freak show negli Stati Uniti nei cento anni che vanno dal 1840 al 1940. In questo lasso di tempo lo spettacolo delle bizzarrie umane, delle anomalie fisiche o mentali, vere o artate, diventa parte integrante della vita sociale americana. Accanto ai born freaks, le persone nate realmente con anomalie fisiche, venivano esibiti i made freaks, la cui anormalità consisteva, ad esempio, nell’essere molto grassi o molto magri, nell’avere barba e capelli o unghie eccezionalmente lunghi, cicatrici o tatuaggi. I mostratori professionisti sapevano che la logica dello spettacolo consentiva loro ogni tipo di trucco, e gestivano sapientemente le emozioni di un pubblico pagante che chiedeva solo di essere stupito.

Prima dell’inizio della sua attività itinerante, Barnum mostrava al pubblico, nel suo American Museum, Joice Heat, donna a suo dire di 160 anni che era stata la balia di George Washington, e che dopo la sua morte, come moltissimi lusus naturae, venne sottoposta a un pubblico esame autoptico che ne svelò l’inganno [Reiss 2003, 37]. Joice Heat era chiaramente un made freak, importante sia perché Barnum considerava la sua esibizione il punto di partenza della sua fortuna imprenditoriale, sia perché rende evidente la commistione di freak ed ethnic negli show che da quel momento in poi sarebbe diventata la norma [ibidem, 43]. Con Barnum si esibirono Eng e Chang Bunker, che erano uniti all’altezza dello sterno da una striscia di cartilagine. Erano nati nel Siam (da cui l’aggettivo “siamese” per indicare i gemelli doppi), esonimo che indicava l’attuale Thailandia, e la loro carica spettacolare aumentava per la combinazione dell’alterità culturale e dell’alterità fisica. I due - che però si consideravano una persona sola e firmavano congiuntamente come Eng-Chang [Bogdan 1988, 2], ebbero vita normale, si sposarono, ebbero molti figli e divennero imprenditori di sé stessi.

Con Barnum si esibì anche Laloo l’Indiano, dal cui epigastrio fuoriusciva un parassita completamente sviluppato dalla schiena in giù. Laloo vestiva il suo parassita con abiti esotici - raccontava si trattasse di un corpo maschile -, e la sua evidente anomalia non impedì neanche a lui di sposarsi e di condurre una vita regolare. Ancora, con Barnum, poi con Buffalo Bill, infine da solo, ebbe molto successo il siciliano Frank Lentini, che era nato a Siracusa, e non presentava alcuna particolarità tranne quella di avere una terza gamba situata esattamente nel mezzo delle altre due, con la quale, durante il suo spettacolo, era in grado di colpire un pallone (l’arto supplementare, in realtà, apparteneva a un rudimentale gemello parassita) [Fiedler 1981].

Lo spettacolo del freak show è carnevalizzante, è un circo la cui posta in gioco è l’esplorazione dei confini del corpo, e quindi la ridefinizione dei confini dell’umano. Nel circo gli uomini volano, mantengono equilibri impossibili, sollevano pesi enormi, e contemporaneamente “corpi eccedenti (obesi), o sottomisura (nani), o mostruosi sfidano la normalità, riaffermando implicitamente il canone” [Gallini 1999, 530]. Adesso nella piazza, insieme ai confini del corpo, si esplorano anche altre frontiere, e si va specializzando un nuovo tipo di esposizione che mette in mostra uomini di altre culture.

Carl Hagenbeck, brillante imprenditore tedesco, costruì una forma di spettacolo che nel giro di pochi anni ottenne grandissimo successo e divenne attrazione costante di ogni Esposizione. Nei suoi etno-show mostrava scene di vita quotidiana di popolazioni di altri angoli di mondo: Lapponi che facevano gare con le renne, carovane provenienti da Ceylon con annessi elefanti, Calmucchi della regione del Volga, Nubiani del Sudan, indiani Bella Coola del Nordovest degli Stati Uniti. Nel 1878, all’Esposizione universale di Parigi, riuscì ad esibire più di quattrocento autoctoni delle colonie francesi all’interno di villaggi meticolosamente ricostruiti. L’impresario tedesco pretendeva che le rappresentazioni fossero quanto più possibile autentiche, e molte testimonianze certificano come alcune di queste fossero veramente sorprendenti [Rothfels 2002]. L’alterità lontana si manifestava in questa parte del mondo, e l’esperienza, la sola possibile che si poteva fare di questa diversità, consentiva ai visitatori di misurare e confrontare il proprio grado di sviluppo. Oltre a celebrare la potenza della nazione, le messinscene avvaloravano il senso umanitario e provvidenziale della missione coloniale.

William Cody, più noto come Buffalo Bill, proponeva uno spettacolo imponente basato soprattutto su azioni coreografiche eseguite da nativi americani, pellirosse e cow-boy. L’ex pony express, che venne più volte anche in Italia, esibiva persone che, insieme, andavano a costituire il catalogo delle alterità possibili: nel Wild West Show, ad esempio, insieme ai capi indiani Toro Seduto e Alce Nero, proponeva il gigante nero Aaron Moore, l’uomo blu Fred Walters e Nowa Hawa, la principessa alta cinquanta centimetri [Pretini 1984, 148].

È proprio nelle piazze, nelle arene dei circhi, nei parchi di divertimento, che l’immaginario coloniale prende corpo e si diffonde come una moda. Alla fine del XIX secolo le diverse società di antropologia, scienza che andava definendo il suo specifico disciplinare, mostrarono notevole interesse per questi spettacoli, e spesso si contesero la possibilità di analizzare gli uomini dell’altrove che venivano esibiti in piazza. Così facendo, ovviamente, erano gli stessi studiosi ad essere presi nel meccanismo del consumo di alterità, perché la loro certificazione di “esoticità” rendeva ancora più vendibile la diversità agli spettatori. Friedrich Ratzel nella Völkerkunde, lascia intendere di essere stato un fruitore degli spettacoli di Hagenbeck, e afferma addirittura di essersi confermato in alcune sue opinioni proprio vedendo da vicino indigeni provenienti da mondi lontani [Sordi 1989, 62, 63] Fino alla fine degli anni Cinquanta le “tavole descrittive dei tipi razziali” della prestigiosa enciclopedia tedesca Brockhaus erano realizzate prendendo spunto dai partecipanti a questi tipi di spettacolo; l’esibizione degli amerindi Bella-Coola, che Hagenbeck mise in scena tra il 1885 e il 1886, pare abbia avuto un ruolo nella formazione di un giovanissimo Franz Boas che, emigrato in America, utilizzò come informatore una persona che aveva lavorato come procacciatore di Hagenbeck [Thode-Arora 2003, 67,68]. Solo in Francia, tra il 1873 e il 1909, sono stati censiti oltre ottanta articoli sulle più importanti riviste di antropologia e di etnografia scritti sulla base di queste osservazioni [Boëtsch e Ardagna 2003, 143]. Si può senz’altro affermare che lo sguardo occidentale sugli “altri” deve qualcosa a questi incontri sulle frontiere immaginarie che venivano disegnate nelle piazze delle città. L’esibizione della “venere ottentotta”, che nel 1810 fu mostrata in una gabbia a Londra, suscitò numerose proteste, ma fu lei stessa a difendere in tribunale la propria esibizione, dichiarandosi consenziente e interessata ai compensi. Morì per un disturbo infiammatorio prima di riuscire a realizzare il sogno di tornare ricca nella sua terra, e tra i moltissimi studiosi che si interessarono a Saartjie Baartman ci fu George Cuvier, che l’aveva conosciuta viva e che si occupò della sua autopsia. Nella sua descrizione post mortem, nonostante le riconoscesse una certa piacevolezza nelle forme e che sapesse parlare olandese e inglese, sostenne: “aveva un modo di sporgere le labbra esattamente come abbiamo osservato nell’orango-tango. I suoi movimenti avevano qualcosa di brusco e fantastico, ricordando uno di quelli della scimmia antropomorfa […] Non ho mai visto una testa umana più simile a quella di una scimmia antropomorfa di quella di questa donna” [Gould 2008, 98]. Il cranio piccolo, secondo Cuvier, indipendentemente dal fatto che Saartjie era alta solo un metro e trenta, era una caratteristica che la relegava tra gli stupidi, in base a “quella legge crudele, che sembra aver condannato a un’eterna inferiorità quelle razze che hanno crani piccoli e compressi” [Ibidem, 238]. Anni dopo la morte di Cuvier, Cesare Lombroso ebbe a sostenere con convinzione che se, dopo averla osservata, “si volesse ancora fare una specie sola dell’Ottentotto e del Bianco, converrebbe allora comprendere in una sola specie pur anche il lupo e il cane, l’asino e il cavallo, il capro e la pecora” [Lombroso 1871, 29, 30]

Precipitare nella storia

Nel 1877 nel Giardino zoologico d’acclimatazione vennero mostrati, come avveniva di consueto, animali provenienti da diverse parti dell’Africa. Questa volta però, insieme a cammelli, giraffe, elefanti, rinoceronti nani, vennero esibiti anche quattordici africani, definiti nubiani, che accompagnavano gli animali. L’idea pare fosse stata estemporanea, e gli uomini “a corredo” erano stati “forniti” da un commerciante straniero che offriva questo servizio a giardini zoologici europei. Il successo dell’esibizione fu tale che si decise di replicare l’esperienza nel novembre dello stesso anno, quando vennero presentati al pubblico sei eschimesi della Groenlandia. William H. Schneider [Schneider 2003, 77] che ricostruisce questa storia, sostiene che la Società d’Antropologia di Parigi in un primo momento accolse con interesse l’iniziativa, e nominò una commissione guidata addirittura da Paul Broca per studiare gli indigeni. Paul Topinard, che successe a Broca come segretario della Società di antropologia di Parigi, vedeva nelle esibizioni la possibilità di studiare dal vivo le popolazioni esotiche, ma anche di raccogliere dati su razze che si stavano estinguendo [Boetsc e Ardagna 2003, 144]. Quando successivamente il Giardino d’acclimatazione organizzò la mostra sugli Ashanti, la prima sull’Africa occidentale, la logica dello spettacolo era diventata ormai predominante, sì ché gli africani vennero mostrati con costumi strani e presentati come feroci, per aumentarne il potere d’attrazione. Molti esponenti della Società d’Antropologia avevano nel tempo avanzato dubbi sulla scientificità di uno studio che analizzava persone fuori dal loro ambiente, ma le esibizioni ormai si moltiplicavano in tutta Europa; l’interesse era crescente, anche a causa del combinato disposto con i freak show, e in tal modo una vulgata degli studi antropologici raggiungeva nelle fiere il pubblico pagante.

Il Giardino zoologico d’acclimatazione di Parigi era stato inaugurato nel 1850 e il suo fine era quello di esibire animali e vegetali provenienti da ogni parte del mondo. Nel tempo poi, come si è detto, si era trasformato in un laboratorio all’aperto per lo studio delle razze umane. Il direttore che aveva organizzato la prima mostra del 1877 era lo zoologo Albert Geoffroy Saint-Hilaire, figlio del fondatore del Giardino, Isidore, e nipote di Etienne, i maggiori teratologi francesi. La discendenza appare significativa perché, oltre alle volgarizzazioni delle teorie antropologiche, l’altro importante sapere scientifico di riferimento che sottendeva alla catalogazione delle razze proveniva proprio dalle speculazioni della teratologia, disciplina a lungo paradigmatica nel corso dell’Ottocento. In pieno clima evoluzionista, la ragione etnologica e la ragione biologica si ibridavano in un sapere organico che rendeva scientifico il sistema classificatorio delle razze.

La teoria della legge di ricapitolazione di Ernst Haeckel, in realtà non completamente nuova, nella formulazione dello zoologo tedesco influenzò molte discipline. Haeckel aveva messo in relazione il processo dell’ontogenesi con quella della filogenesi, sostenendo che le tappe dello sviluppo embriologico di ogni animale ripercorrerebbero gli stadi evolutivi che lo hanno condotto alla propria posizione nell’ordine naturale: “entrambe le serie dell’evoluzione organica, l’ontogenesi dell’individuo e la filogenesi della stirpe a cui esso appartiene, stanno fra loro nel più intimo rapporto causale. La storia del germe è un riassunto della storia della stirpe, o, con altre parole, l’ontogenesi è una ricapitolazione della filogenesi” [Haeckel 1992, 178]. La semplificazione non rende merito della complessità della teoria che ebbe moltissime varianti [Gould 2013], ma si la può riassumere sostenendo che un individuo, per raggiungere la contemporaneità al suo tempo, a partire dalla fase dell’embriogenesi si arrampica sull’albero degli stadi evolutivi e, in una sequenza progressiva, dal concepimento in poi attraversa tutti i livelli possibili sulla scala evolutiva. Stephen Jay Gould sostiene che la ricapitolazione diventò uno strumento nodale per le tesi antropometriche sull’ordinamento delle razze, per le quali, ad esempio, forma e grandezza del cervello ebbero un ruolo decisivo [Gould 1998, 121]. Parte integrante di questa teoria è quella dall’atavismo, secondo la quale è possibile che durante il processo di ricapitolazione, nella fase dell’embriogenesi, si verifichi un arresto di sviluppo che interrompe il processo di risalita dell’embrione.

La ricapitolazione ebbe un ruolo anche negli studi di Étienne e poi di Isidore Geoffroy Saint-Hilaire. Per i due teratologi, la mostruosità è una condizione che si genera durante i primi mesi di vita intrauterina, quando, per una serie di motivi, si può verificare un arresto di sviluppo di uno o più organi con la conseguente modificazione degli organi limitrofi. Per ogni organo umano viene contemplata la necessità di trapassare attraverso le forme degli organi omologhi in specie inferiori, e l’eventuale mostruosità viene attribuita alla sventurata ipotesi di arresto in una fase precedente a quella umana [Mazzocut Mis 1994]. Un arto, ad esempio, per arrivare al livello di complessità che lo caratterizzerebbe, come ad esempio una gamba umana, deve essere stato prima, in successione, l’organo che ha la funzione equivalente in tutte le specie inferiori: alla nascita di un sirenomelo (persona malformata con le gambe che si fondono in un unico troncone) si potrà sostenere che il resto del corpo abbia risalito la scala evolutiva senza problemi, mentre le gambe abbiano subito un arresto di sviluppo, interrompendo il percorso al gradino di un animale meno evoluto. È compito dello scienziato comparare le forme degli stessi organi nei diversi animali, soprattutto le varianti mostruose, ed esaminare le differenze riconducendole al principio di ricapitolazione embriologica. In altre parole per Étienne Geoffroy Saint-Hilaire gli organi mostruosi in una specie sono invece normali in una specie inferiore. È normale quindi che l’uomo possa presentare dei tratti marcati di somiglianza con diversi mammiferi, ad esempio, sempre secondo Geoffroy Saint-Hilaire padre, lo stato imperfetto dell’occhio è condizione normale nella talpa, la focomelia è presente regolarmente negli insettivori, l’ectromelia biaddominale riproduce una delle condizioni caratteristiche dei cetacei normali, la volta palatina molto rudimentale, anomalia grave che spesso colpisce gli uomini, si ritrova nei pesci. Non c’è nulla di diabolico o di divino nel mostro, al contrario, questi è segno manifesto della coerenza della natura che opera sempre con gli stessi materiali.

Lo zoologo Karl Vogt scrisse, nel 1866, un ponderoso volume dal titolo Memoria sui microcefali o uomini scimmia, in cui i risultati di esami biometrici di crani microcefalici vengono comparati e presentati insieme a illustrazioni molto suggestive che documentano il salto di generazione e di specie. Scrive Vogt:

dopo aver preso nota dei vari fatti che abbiamo appena menzionato, possiamo applicarli al microcefalo. Diciamo quindi che il microcefalo è una formazione atavica parziale, che si verifica nelle parti arcuate del cervello e si traduce in uno sviluppo embrionale deviato che, per le sue caratteristiche essenziali, riconduce al ceppo da cui è cresciuta la razza umana […] Come risultato di questa conformazione scimmiesca dell'organo dell'intelligenza, inevitabilmente la costituzione delle facoltà intellettuali appare dello stesso tipo, l'intelligenza è della scimmia in tutti gli aspetti, dalle manifestazioni della volontà alle concezioni delle cose e delle idee, al linguaggio articolato che manca come mezzo di comunicazione delle idee ed esiste solo come imitazione identica a quella degli animali parlanti. Si potrebbe dire di ogni microcefalo: corpore homo intellectu simia [Vogt K. 1867, 193, traduzione mia].

La ragione biologica si saldava quindi alla ragione etnologica quando si affermava che lo sviluppo nella fase filogenetica poteva fermarsi anche al livello di una razza situata temporalmente nel passato nelle scale degli evoluzionisti. I fratelli microcefali Maximo e Bartola, che venivano presentati come “nani con la testa d’uccello” e che, lungo tutta la seconda metà dell’Ottocento attirarono l’attenzione di moltissimi spettatori delle fiere, venivano esibiti come idoli bambini rapiti nell’inesistente “città perduta di Iximaya”, per questo erano noti come “bambini aztechi” [Fiedler 1981, 40]. “L’ultima degli aztechi” venne definita anche Maggie, che appare nel film Freak di Ted Browning nel ruolo di eterna bambina mentre gioca con altre due coetanee microcefale, Elvira e Jenny Lee Snow.

Il medico Sir John Langdon Down era stato nominato nel 1858 soprintendente medico del Royal Earlswood Asylum for Idiots, un istituto di Redhill, Surrey, vicino a Londra, che accoglieva persone disabili. Era un buon ricercatore che sapeva utilizzare i metodi della craniometria, era informato della letteratura etnologica, e aveva sottoposto a diverse misurazioni gli ospiti del suo istituto. Studiando le fattezze di molti bambini disabili gli sembrò di individuare nei loro tratti somatici caratteristiche di persone appartenenti ad altre razze. Nel 1866, Down pubblica un articolo intitolato Observations on an ethnic classification of idiots in cui tenta di assegnare gli idioti che curava - il termine idiota è tecnico e risale a Esquirol - a una delle cinque razze che Johann Friedrich Blumenbach aveva descritto un secolo prima, e che erano la Caucasica, la Mongola, la Malese, l’Etiope e l’Americana. Aveva potuto descrivere quindi una “idiozia negroide” e una “idiozia malesica”, e naturalmente una idiozia “mongoloide”. Scrive Down:

Da qualche anno sono rimasto impressionato dalla marcata rassomiglianza di bambini a disposizione-debole rispetto ai vari tipi etnici della famiglia umana [...]. Un considerevole insieme si trova sotto il gruppo Mongolico. Essi hanno caratteristiche così marcate che quando i membri di questo tipo sono disposti in prossimità, è difficile credere che essi non siano fratelli e sorelle” [Down 1866, 261].

Negli studi di Down quindi - medico illuminato che si batteva per impartire un’educazione ai disabili -, ciò che oggi si chiama Trisomia 21 era considerata una specie di tara ereditaria, frutto della regressione dei caratteri di una razza evoluta a quelli di una razza inferiore. Anche per Topinard, di cui si è già detto, i Boscimani appartenevano a una “razza paradossale”, perché costituivano il momento di transito dalla razza nera alla razza gialla, quindi una razza colta sul punto del suo divenire evolutivo.

La forma esteriore dell’essere umano, la forma della testa o le misure del corpo, potevano essere utilizzate per assegnare a ognuno un livello di civiltà secondo le gerarchie preparate dagli etnologi. Le forme bizzarre dei corpi teratologici, dei microcefali o dei bambini down, costituivano per molti scienziati un’indicazione che teneva insieme natura e cultura. In questo periodo la necessità di misurare – crani, cervelli, scheletri - diventa una febbre, e quello della classificazione e della comparazione diventa un linguaggio condiviso ancora più che un metodo. Freak e uomini di culture diverse esibiti negli show di piazza erano universalmente considerati come antenati contemporanei, uomini il cui cammino sulla strada della civiltà, sebbene tracciato, era ancora da percorrere. Diventavano testimoni di un passato che, grazie a loro, poteva essere ricostruito e che metteva gli spettatori nella condizione di poter constatare la propria superiorità. Si verificava, in definitiva, la biologizzazione del razzismo.

La fine di un paradigma

Nel giro di pochi anni, tra il 1920 e il 1940 si verifica il crollo di un paradigma: i freak show diventano improvvisamente insopportabili per la nuova sensibilità e chiudono repentinamente; rapido è anche il declino dei musei popolari di stranezze, i cui esercenti spesso recuperano qualche soldo vendendo i preparati in cera o sotto formalina ai musei o alle istituzioni universitarie. La teratologia sarà presa in altri settori disciplinari, diventando parte dell’anatomia patologica, dell’embriologia o della genetica; i programmi eugenetici conosceranno il culmine dell’orrore nel progetto di sterminio dei disabili, portato avanti con sistematicità dai nazisti che peraltro avevano vietato rigidamente gli spettacoli in cui si esibivano i deformi. La parola mostro come qualificazione delle fattezze fisiche di un uomo inizia a diventare politicamente ed eticamente scorretta e, al pari delle persone che indica, gradualmente scompare dalla scena pubblica. Sembra però costante nel tempo il fatto che il mostro continui a esserci nella forma di corpo bandito, nell’accezione che Agamben suggerisce di questa parola [Agamben 1995, 122], ovvero di aperto a tutti – in una esercitazione di anatomia, nelle trasmissioni televisive di Real Time, nei talk show ad esempio quando nascono due bimbi siamesi –, o proibito, confinato nel silenzio delle famiglie o degli istituti vocati ad accoglierlo. Nei grandi musei i mostri nella formalina, se parlano il linguaggio dello spettacolo, costituiscono ancora un’attrazione di grande richiamo; nei piccoli musei scientifici, come quello del Forlanini, restano muti.

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