Spazi di cura trans–nazionali

Pluralismo medico e percorsi di accesso ai servizi sanitari, fra immigrate filippine e ucraine

Milena Greco

Università degli studi di Napoli Federico II Dipartimento di Scienze Sociali, Napoli, Italy

Table of Contents

Introduzione
Il concetto di spazio terapeutico transnazionale e il ruolo delle reti sociali
Le storie e le narrazioni delle immigrate, fra spazi di cura transnazionali e forme di pluralismo medico
Le immigrate ucraine: percorsi sanitari e itinerari transnazionali di cura
La centralità dei network comunitari fra le immigrate filippine e l’importanza dei legami transnazionali
Considerazioni conclusive
Bibliografia

Abstract. This article, born of a wider research, aims to further study how the creation of “transnational health spaces” and the reliance on medical pluralism intertwine, in the case of Filipino and Ukrainian female migrants with difficulties in accessing health services and how such difficulties are overcome through several resources and networks. This work relies on the interviews carried out with the forty female migrants part of an investigation, employed an anthropological approach within two Italian cities differing in both their social and health-related policies, Pisa and Naples.

Keywords. Transnational health spaces, accessing medical services, medical pluralism, Female immigration, migration networks.

Introduzione

La presenza straniera in Italia caratterizzata fin da principio da una considerevole componente femminile e nella quale si intrecciano nuovi e vecchi flussi migratori, ha assunto, sempre più, i caratteri di un fenomeno strutturale, ponendo importanti sfide a livello politico, sociale e culturale, fra cui quelle inerenti l’accesso ai servizi sanitari e la fruizione dei diritti alla salute. Questi seppure sanciti a livello formale,[1] non sempre trovano applicazione nei territori, per l’intrecciarsi di molteplici fattori e barriere, che possono far riferimento a diversi livelli, in quanto rimandano alle politiche sociali e sanitarie, all’organizzazione dei servizi, ad aspetti più propriamente relazionali o alle condizioni degli stranieri [Geraci, Bonciani Martinelli, 2010; Tognetti Bordogna 2012, 2016; Masullo 2010; Seppilli 2015; Quaranta 2012; Sen 1999].[2]

Alcune indagini, inoltre, nell’ambito della concezione per la quale i fenomeni migratori vanno sempre più a delinearsi lungo traiettorie transnazionali[3] [Glick Schiller 2005; Portes, Guarnizo, Landolt 1999; Sassen 1999; Ambrosini 2008], hanno constatato come, anche da un punto di vista medico e sanitario, i migranti mettano in atto pratiche che travalicano i confini nazionali [Zanini, Raffaetà, Krause, Alex 2013; Krause 2008; Dyck, Dossa 2007]. Si parla a riguardo di “spazi di cura” o terapeutici “transnazionali” per evidenziare il fatto che, sovente, coloro che emigrano fanno riferimento a differenti risorse e network ed alla possibilità di accedere, qualora ne sentano la necessità, a più di un sistema sanitario nazionale o a diverse pratiche e approcci medici [Kane 2012; Krause 2008; Murphy, Mahalingam 2004].[4]

Questo articolo, intende approfondire come fra immigrate di origine filippina ed ucraina,[5] i percorsi e le difficoltà di accesso ai servizi sanitari nell’ambito della salute femminile e materno infantile, in contesto migratorio,[6] si intreccino alla creazione di “spazi di cura transnazionali” e a forme di pluralismo medico. [7]

La decisione di adottare un approccio di genere si ricollega al fatto che, come evidenziato dai gender studies, questa categoria delinea le traiettorie migratorie ed è fondamentale per la loro comprensione [Morokvasic, 1984, 2011; Boyd 1991; Carling 2005; Andall 2000; Anderson 2000; Parrenas 2001; Castles, Miller 2012; Bimbi 2003; Tognetti Bordogna 2012; Macioti, Gioia, Scannavini 2007; Miranda 2008; de Filippo 2009; Balsamo 1997; Decimo 2005]. Essere una ricercatrice donna consente, per altro, di accedere a spazi culturali e di vita propriamente femminili e ciò sembra particolarmente significativo in una indagine inerente salute e maternità.

Tale intervento, inoltre, nasce da una ricerca più ampia, svolta nell’arco di circa tre anni, in due contesti territoriali caratterizzati da una considerevole presenza di immigrate occupate nei servizi alla persona, ma notevolmente diversi per politiche sociali e sanitarie, le città di Pisa e Napoli.[8] È stato condotto, in particolare, un approfondimento bibliografico e delle normative di riferimento in questo ambito, assieme a un’analisi delle statistiche migratorie e sanitarie.[9] A partire da maggio 2015 inoltre, è stata realizzata una indagine sul campo, con un approccio prevalentemente qualitativo e antropologico, articolata in diverse fasi.[10] Questa ha previsto, infatti, attività di osservazione presso alcuni servizi consultoriali in entrambi i territori, di osservazione-partecipante nei contesti delle immigrate e la realizzazione di interviste semi-strutturate che hanno coinvolto informatori privilegiati (fra cui referenti del terzo settore e mediatrici interculturali), medici e operatori sanitari. Sono state, inoltre, intervistate, in profondità, quaranta donne filippine[11] e ucraine[12]con l’intento di mettere in luce, a partire dalle loro narrazioni e testimonianze, come le traiettorie migratorie, le condizioni in Italia, da un punto di vista familiare, lavorativo o abitativo, si ricolleghino ai percorsi inerenti l’accesso ai servizi, ai vissuti del parto, al riferimento a diversi approcci medici.[13]

Si può ritenere, infatti, che le circostanze e le situazioni legate ai percorsi ed ai progetti migratori possano influire sull’accesso ai servizi sanitari delle immigrate, così come le loro concezioni inerenti la salute, la malattia, la gravidanza, le cure. Concezioni che, come hanno messo in luce le riflessioni condotte nel filone di studi dell’antropologia medica, vanno contestualizzate e considerate storicamente situate, quali “prodotti umani da analizzare nei loro molteplici processi di produzione” [Quaranta 2012, XXVII]. I modi di intendere la maternità, la gravidanza, ma anche la salute o la malattia, sono, infatti, da interpretare in relazione ai contesti sociali e culturali, considerando le problematiche inerenti le dinamiche relazionali e di potere [Kleinman 2006; Good 1999; Farmer 2003; Fassin 2004; Ranisio 2014a; Quaranta 2006; Seppilli 2014, 2015; Schirripa 2015]. Essi, inoltre, in ambito migratorio, rimandano agli universi simbolici dei contesti di provenienza e al contempo ai processi di negoziazione, risemantizzazione e ibridazione culturale [Sayad 2002; Massey, Jess 2001; Signorelli 2006],[14] mentre l’evento “biosociale” della nascita, cruciale nella costruzione dell’identità femminile, può assumere peculiarità inedite [Ranisio 1996, 2012, 2014a, 2014b; Giacalone 2013, 2006; Falteri 2013; Lombardi 2005; Bonfanti, 2012; Scheper-Hughes, Lock 1987].

Dopo aver approfondito il concetto di spazio di cura transnazionale, pertanto, si andrà a focalizzare l’attenzione sulle storie, le esperienze, i punti di vista delle immigrate intervistate in riferimento ai percorsi di accesso ai servizi sanitari e ai vissuti inerenti il parto e la gravidanza, evidenziando come gli itinerari di cura e le forme di pluralismo medico si snodano, sempre più, lungo traiettorie che travalicano i confini.

Il concetto di spazio terapeutico transnazionale e il ruolo delle reti sociali

Diversi studi hanno focalizzato l’attenzione sul concetto di spazio terapeutico transnazionale [Dyck, Dossa 2007; [15]Krause 2008; Zanini, Raffaetà, Krause, Alex 2013; Raffaetà 2016, Tognetti Bordogna, Rossi 2016] prendendo in considerazione le modalità con le quali i migranti possono avvalersi delle risorse formali o informali di cura dei contesti migratori e dei paesi di origine [Krause 2008; Kane 2012].

Alcuni ricercatori, inoltre, hanno messo in rilevo l’importanza dei networks che possono essere rappresentati da quelli locali o transnazionali [Krause 2008; Thomas 2010].[16] Si può ritenere, infatti, che le reti sociali a cui gli immigrati e le immigrate fanno riferimento, costituiscono una importante risorsa nel veicolare valori, informazioni e possibilità, anche per l’accesso ai servizi sanitari nell’ambito della salute femminile o dei percorsi di gravidanza e parto.

Le indagini più recenti, in ogni caso, nel focalizzare l’attenzione sulle reti transnazionali hanno ribadito come una lettura che tenga conto esclusivamente del sistema di cura del paese di accoglienza, non consente di comprendere pienamente quali siano le risorse messe in atto dai migranti, né ciò che esse sottendono [Tognetti Bordogna, Rossi 2016, 34].

Krause parla, ad esempio, di «transnational therapy networks» [Krause 2008] termine con il quale fa riferimento alle attività legate alla cura che spaziano fra il paese di origine e di emigrazione, nelle quali possono intrecciarsi pratiche formali, istituzionali ed informali. Per la studiosa, infatti: «These are interlaced situational, formal and informal contacts between people which become meaningful in the event of sickness, providing financial and practical support and help in finding the right treatment »[17] [Krause 2008].

Le traiettorie di cura transnazionali e le pratiche ad esse correlate possono includere forme di mobilità delle persone, dei farmaci o delle informazioni ed avvalersi dei più recenti mezzi di comunicazione, consentendo ai migranti di discutere via skipe o al telefono, con familiari, o esperti, delle loro condizioni di salute.

La mobilità legata alla salute, inoltre, rappresenta un fenomeno in crescita [Whittaker, Manderson, Cartwright 2010] e alcuni studi hanno evidenziato come coloro che migrano rappresentano una quota significativa di “pazienti transnazionali” quando rientrano, ad esempio, nel paese di origine, per le vacanze o vi fanno ritorno appositamente per curarsi, a causa dei costi sanitari elevati o inaccessibili nei contesti di emigrazione [Ormond 2014]. [18]

Gli immigrati, così, scelgono dove sia più vantaggioso ed economico potersi curare [Raffaetà 2013]. Ciò, si può ricollegare, al cosiddetto “paradox status” della migrazione transnazionale [Nieswand 2011], per il quale «people gain a higher status in the home context, which allows them, for instance, to consult private medical care, through the income they gain with dirty and dangerous work in the migration context» [Zanini, Raffaetà, Krause, Alex 2013, 15]

Alcuni studi hanno evidenziato, inoltre, come i migranti possano inviare nei paesi di origine anche farmaci [Krause 2008], che andrebbero a costituire, pertanto, delle “rimesse speciali” [Kane 2012; Pribilsky 2008].

L’esperienza migratoria può implicare così, alle volte, l’adozione di pratiche mediche che si collocano in uno spazio trans-nazionale e che possono essere considerate “ibride”, risultato dell’integrazione fra le risorse dei luoghi di accoglienza e dei paesi di origine [Raffaetà 2016, 185].

Raffaetà, a riguardo, in una ricerca condotta fra famiglie ecuadoregne e marocchine, ha evidenziato come la “frequenza e l’intensità” degli itinerari medici transnazionali si ricolleghi al senso di appartenenza percepito dai migranti e possa variare in relazione ad esso [Raffaetà 2016, 185]. Gli spazi di cura che travalicano i confini così, possono essere letti, per la ricercatrice, quali “specifiche pratiche di appartenenza”, mentre i servizi sanitari dovrebbero essere ripensati e riorganizzati “in un’ottica transnazionale” [Raffaetà 2016, 185].

Questa dimensione, inoltre, si ricollega a quella delle diseguaglianze in ambito sanitario, in relazione al fatto che non tutti coloro che migrano, possono avere le stesse risorse e “possibilità” in riferimento al controllo dei “networks di cura” transnazionali [Massey 1998; Zanini, Raffaetà, Krause, Alex 2013], o per potersi recare nei paesi di origine. Molto può dipendere, in tal caso, dalle condizioni giuridiche, economiche e sociali in cui versano.

Il riuscire a creare o meno spazi di cura transnazionali, così, può rappresentare una “opportunità” o una ulteriore forma di “esclusione” [Tognetti Bordogna 2016, 37] e dare origine a nuove diseguaglianze nell’ambito della salute [Tognetti Bordogna 2016, 14].

Si può ritenere, d’altro canto, che le possibilità correlate alle traiettorie di cura transnazionali possano influire sui percorsi di accesso ai servizi nei contesti migratori, e viceversa, che le stesse difficoltà di accedere e usufruire delle strutture sanitarie, possano far sì che immigrate ed immigrati adottino strategie che travalicano i confini per rispondere alle loro necessità o a quelle dei loro familiari. Strategie che, alle volte, rientrano in una prospettiva più vicina alla loro idea di cura e di salute.

Alcune indagini, in tal senso, hanno rilevato come le donne impiegate in attività di assistenza agli anziani, possano decidere, talora per ragioni economiche, di farsi curare nel paese di origine, ove preferiscono acquistare farmaci ai quali ricorrere, poi, nei contesti migratori [Tognetti Bordogna, 2008].

Andiamo quindi ad approfondire se e come tali riflessioni si concretizzano nei percorsi e nelle traiettorie delle immigrate intervistate nel corso della ricerca, dopo aver brevemente delineato e messo a confronto i tratti fondamentali dei flussi migratori provenienti dalle Filippine e dall’Ucraina.

Le storie e le narrazioni delle immigrate, fra spazi di cura transnazionali e forme di pluralismo medico

Immigrate[19] filippine ed ucraine hanno modelli migratori simili, ma che al contempo si differenziano fra loro.[20]

In entrambi i casi, infatti, le donne, “pioniere” nella migrazione, rappresentano, sovente, il primo anello della catena migratoria. Partite per ragioni prevalentemente economiche e lavorative esse, inoltre, si inseriscono, soprattutto, nel settore dei servizi, come colf, collaboratrici domestiche o in attività di assistenza e cura, quali “badanti”.[21]

Vi sono, in ogni caso, considerevoli differenze fra queste due collettività. La presenza ucraina, divenuta visibile e consistente agli inizi del nuovo millennio,[22] infatti, è molto più recente rispetto a quella filippina, che rappresenta una delle comunità “storiche” in Italia, i cui primi arrivi risalgono alla metà degli anni settanta. [23] Donne ucraine e filippine, inoltre, si inseriscono in differenti nicchie e segmenti del settore domestico o dell’assistenza, come hanno messo in luce gli studi di Anderson [2000] e Parrenas [2001], relativi alla stratificazione esistente, in questo settore occupazionale, anche a livello salariale. Le immigrate filippine, infatti, a differenza di quelle ucraine, svolgono tali attività lavorando per persone più agiate da un punto di vista economico, con una maggiore regolarità lavorativa e dunque anche relativa allo status giuridico del soggiorno.

In entrambi i casi, comunque, i network femminili, che assolvono una considerevole importanza, hanno contribuito a incrementare fenomeni di segregazione occupazionale [Ambrosini 2008; Conti, Bonifazi, Racioppi 2016, 302].

Differenze fra le due collettività, d’altro canto, possono attenere alla durata dei progetti migratori [24] o al ruolo delle reti comunitarie, che presentano caratteristiche diverse.[25]

I vissuti di maternità delle immigrate di queste nazionalità, inoltre, possono rappresentare una esperienza segnata, con modalità differenti, da pratiche transnazionali, sebbene siano stati riscontrati segnali di mutamento e stabilizzazione, in seguito all’aumento di nuclei familiari e di minori [Caponio 2009; Banfi 2009].[26]

In riferimento ai percorsi in ambito sanitario, invece, alcuni studi hanno messo in rilevo come possano essere considerevoli le problematiche di donne impiegate quali colf e soprattutto, in attività di assistenza full - time, nel rivolgersi alle strutture mediche. Le immigrate, infatti, il più delle volte, fanno riferimento ad esse, soprattutto per coloro che assistono e poco per sé stesse [Tognetti Bordogna, 2008].

Dalle interviste condotte alle donne filippine e ucraine, sia a Pisa che a Napoli, è stato possibile constatare, analogamente, come permangano anche nell’ambito della salute femminile o per i percorsi legati alla gravidanza e al parto, innumerevoli difficoltà ad accedere ai servizi sanitari, nonostante le tutele normative. [27]

Nel corso della indagine, in ogni caso, è emerso che le traiettorie e le condizioni in cui versano le migranti possono influenzare considerevolmente le modalità di approccio alle strutture mediche, così come altre variabili, individuate da studi precedenti, quali il tempo di soggiorno in Italia o il livello di istruzione [Censis 2015]. L’accesso e la fruizione ai servizi sanitari, così, si ricollegano ai percorsi di integrazione sul territorio.[28]

Un ruolo fondamentale, in questo ambito, inoltre, nel far fronte alle barriere che le donne possono incontrare i primi tempi in Italia, può essere svolto dalle reti sociali e familiari presenti nel contesto migratorio e dagli stessi datori di lavoro.

L’esperienza della maternità e i vissuti inerenti la gravidanza, il parto, che costituiscono eventi fortemente connotati da un punto di vista sociale e simbolico [Ranisio 2012], possono rappresentare momenti centrali nella vita delle immigrate intervistate, in quanto contribuiscono a ridefinirne le identità, i ruoli in ambito familiare, sociale e lavorativo. È emblematico che alcune di esse abbiano dichiarato di aver fatto riferimento ai servizi sanitari esclusivamente in tali occasioni o per la cura dei propri bambini.[29]

Nel corso della ricerca, inoltre, sia fra donne ucraine che filippine, è stato possibile rilevare l’esistenza di itinerari di cura transnazionali e di forme di pluralismo medico, che possono affiancarsi e intrecciarsi al ricorso ad approcci biomedici e a strutture del servizio sanitario nazionale nel contesto di emigrazione.[30]

Le immigrate ucraine: percorsi sanitari e itinerari transnazionali di cura

Le immigrate ucraine, come è emerso durante l’ indagine svolta sia attraverso l’analisi dei dati statistici in ambito sanitario[31] che delle interviste condotte agli informatori privilegiati, accedono ai servizi medici in misura maggiore e con un’“apparente” facilità rispetto a donne di altra provenienza.[32]

Dalle testimonianze e dalle storie raccolte,[33] d’altro canto, si desume come persistano diverse problematiche che ostacolano il ricorso alle strutture sanitarie in ambito migratorio.[34] Queste possono ricollegarsi alla condizione di irregolarità del soggiorno, al poco tempo libero per via di attività lavorative fortemente usuranti e segreganti, alle difficoltà ad ottenere permessi di lavoro e recuperare spazi, tempi per sé stesse, a problemi linguistici, economici, alla carenza di informazioni in riferimento a possibilità e diritti, o ai lunghi tempi di attesa per le visite. [35]

Sono significative a riguardo le parole di Sv., referente di un sindacato di base della città di Napoli, che sostiene:

La salute per gli immigrati viene in ultimo posto! Perché fai di tutto per risolvere problemi principali, magari debiti, trovare lavoro, sistemare casa, magari far venire familiari e non guardi proprio la salute! [Intervista a Sv., ucraina, Napoli, 2016].

K., invece, una giovane donna di trent’anni che risiede a Pisa, a riguardo, ha ribadito «Non c' è tempo, sì qui la gente, nel senso, cerca forse di curarsi da soli, poi se già proprio al limite vanno dal dottore, però non è che ... Perché forse non c'è possibilità di stare a casa!» [Intervista a K., ucraina Pisa, 2016]

Può esservi, poi, soprattutto fra coloro che versano in una condizione di irregolarità, la percezione di considerevoli barriere, anche in situazioni che dovrebbero essere tutelate da un punto di vista normativo. Le stesse reti sociali, alle volte, possono veicolare informazioni non del tutto corrette, alimentando le paure. Significativa, a riguardo, è la testimonianza di Al., giunta a Napoli nel 2001 da clandestina e trasferitasi, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, in alcune località del Nord Italia ed infine, a Pisa, dove è stata, in seguito, raggiunta da una delle sue figlie. La donna, non più giovane, non esita a usufruire delle possibilità offerte dal servizio sanitario nazionale, anche per la tutela della sua salute femminile. Ha, tuttavia, evidenziato come gran parte di coloro che sono in una situazione di irregolarità, analogamente a sua figlia, abbiano, invece, timore a rivolgersi ai servizi sanitari, affermando:

Se lavori in nero, se persone ignorante, non ha tutti coraggio, […] loro hanno paura, proprio hanno paura! […] Diritti hanno tutti. Paura usare! Se usi ti portano a casa, ti mandano a casa! […] Chi lavora a nero c’è paura, ignoranti c’è tutto! […] Mia figlia qui clandestina e lei anche ha paura! [Intervista ad Al., ucraina, Pisa, 2017].

Dalle interviste, inoltre, analogamente ad indagini precedenti [Tognetti Bordgona, 2009], è stato possibile riscontrare come le donne impiegate in attività di assistenza e cura full time, o che non hanno una rete familiare sul territorio, pur essendo in una condizione di regolarità giuridica e lavorativa, possono avere considerevoli difficoltà a orientarsi fra i servizi o a far riferimento ad essi. Ciò a differenza di coloro che, invece, sono inserite in percorsi di stabilizzazione, magari hanno un nucleo familiare o svolgono attività part – time e rientrano, dunque, nella categoria delle cosiddette “migranti permanenti” [Vianello, 2009]. [36]

Dinanzi alle barriere relative all’accesso e alla fruizione delle strutture sanitarie nel contesto migratorio, le immigrate, come si evince dalle interviste, possono ricercare soluzioni autonome di cura o rivolgersi a risorse e reti transnazionali, sebbene le storie, le vicende siano, in ogni caso, singolari.[37]

Può essere frequente, ad esempio, la decisione di rinviare le cure e le visite mediche ai periodi di vacanza in Ucraina, soprattutto fra “migranti in transito” [Vianello, 2009], che hanno ancoraggi emotivi, in prevalenza, nel paese di origine e svolgono attività lavorative “notte e giorno”, percependo l’esperienza migratoria come transitoria. Tale prassi, per altro, può essere diffusa, anche fra coloro che sono in Italia da molti anni e nonostante una valutazione positiva del sistema sanitario italiano e dei suoi principi universalistici. È emblematico che alcune donne intervistate abbiano dichiarato di non essersi quasi mai rivolte ai medici nel contesto migratorio, preferendo, invece, far riferimento alle opportunità offerte in Ucraina, anche a pagamento.

Si esplica, così, il “paradox status” della migrazione transnazionale [Nieswand 2011],[38] che può ricollegarsi a molteplici ragioni fra le quali quelle economiche, organizzative, linguistiche, ma anche alla preferenza per cure o rimedi più vicini alla medicina tradizionale del paese di origine.

Le testimonianze, in tal senso, sono numerose.

Le condizioni occupazionali di La., ad esempio, assieme alle barriere linguistiche percepite, non facilitano l’accesso ai servizi sanitari del territorio. La donna, infatti, che ha cinquantasette anni e da cinque anni svolge a Napoli l’attività di badante per aiutare economicamente i familiari rimasti in Ucraina, al momento dell’intervista assiste una persona anziana e gravemente inferma. Pur avendo ottenuto il permesso di soggiorno, così, non ha la possibilità, per mancanza di tempo, di richiedere la tessera sanitaria, ribadendo:

Ora ho ricevuto un permesso, a dicembre e devo fare carta sanitaria, ma non posso ancora andare! [...] Perché lavoro tutti i giorni... Lavoro! La signora ora già più grave, così! I parenti non prendono lei a casa […] Ora già lei non può camminare, io sempre sto a casa. Se mia amica sta qua io posso andare. Sì devo andare... Perché questo sempre solo la mattina. Noi abbiamo giorno libero pomeriggio. Se devo fare qualcosa, devo chiedere a qualcuno, così! [Intervista a La., ucraina, Napoli, 2017].

A causa delle difficoltà in ambito lavorativo, La., analogamente ad altre connazionali, da quando è in Italia non ha mai fatto controlli per la sua salute femminile e preferisce approfittare dei periodi di vacanza nel paese di origine per svolgere eventuali visite, affermando:

Qua molti problemi. Poi quando vado a casa mia, io faccio tutto a casa mia... esame, tutto […] Sì preferisco perché c'ho miei dottori che sanno […] Ogni tanto, ogni anno! Quest'anno stava due mesi a casa! […] Per me non lo so preferisco così, come faccio! Meglio sì, perché avevo sempre problema con la lingua! A casa mia più facile spiegare, se qualcosa! [Intervista a La. ucraina, Napoli, 2017 ]

E’ significativa, inoltre, la vicenda di N., una sessantenne che vive e lavora a Pisa da circa venti anni ed è impiegata in attività di assistenza agli anziani. N., al momento dell’intervista era alla ricerca di una nuova occupazione poiché era stata licenziata a causa della necessità di tornare nel paese di origine per un intervento chirurgico urgente, l’asportazione di un tumore alla tiroide. Analogamente ad altre connazionali, la donna preferisce eseguire i controlli medici in Ucraina a causa delle barriere linguistiche, delle difficoltà di conciliare la cura di sé, della propria salute, con l’attività lavorativa, ma anche per la paura di perdere il lavoro, fonte di sostentamento dei familiari rimasti in patria, o per via di una maggiore fiducia e familiarità con i medici nel paese di origine. A riguardo sostiene:

Medicina problema sì, può andare ospedale, però problema prendere permesso. Datore di lavoro non è contenti se noi bisogno di andare per fare un po’ di esami, controlli. […] No, io no, paura perdere lavoro. Ogni vacanza io faccio tutto, tutti i controlli! [Intervista a N. ucraina, Pisa, 2016]

Il precedente datore di lavoro di N., inoltre, le nascondeva le lettere inviate dall’ ASL per gli screening periodici volti alla prevenzione della sua salute femminile, come ricorda ribadendo:

Prima quando anche, dopo vacanza, quando sono venuta qui, io voleva cambiare vestito da mia signora […] nell’armadio sotto mutandi io ho trovato tre lettere, per esame, per mammografia. Si, nascosto e non è prima volta! Si, anche lì [nel paese di origine] io faccio. Ogni vacanza io faccio tutto, tutti i controlli, perché età già… E qui sempre nascondi. È così![Intervista a N. ucraina, Pisa, 2016]

La prassi di rivolgersi a itinerari di cura transnazionali, d’altro canto, può ricollegarsi come ha rilevato Raffaetà [Raffaetà 2016] al senso di appartenenza.

Dalle parole di alcune immigrate, ad esempio, si evince la percezione di transitorietà con cui è vissuta l’esperienza migratoria, come nel caso di R. che ha cinquantatré anni e vive a Pisa, svolgendo, dal 2002, l’attività di badante, per sostenere i familiari in patria. La donna sente di essere considerata, in Italia, sempre e comunque alla stregua di «straniera», sostenendo: «Noi siamo stranieri sempre! Anche che lavoriamo o non lavoriamo!» In possesso di un permesso di lungo periodo, così, R., non ha difficoltà a tornare in patria periodicamente, dove preferisce eseguire eventuali controlli e visite mediche, affermando:

Preferisco a casa, Ucraina, perché lì posso fare esami tranquilla ho già un mese! […] Perché qua a Pisa quando ci tocca a noi andare a fare una cosa, prima cosa lavoriamo ventiquattro ore, se dobbiamo chiedere permesso per fare uscire… Per fare esame quando sei proprio così [distesa] loro portano! Quando sei ancora in piedi devi cercare modo di andare tempo libero. Tempo libero domenica o giovedì pomeriggio! Così quando proprio una persona capitato male, lei [riferendosi alla figlia del suo datore di lavoro] me l’ha portato fare a dottore privato, perché non potevo aspettare mia fila. Per fare fila ci vuole tre mesi, per prenotare fare! […] Signora dove lavoro io, datore di lavoro mi ha fatto favore, fatto me favore che mi ha portato. Per lavorare con padre! [Intervista a R., Ucraina, Pisa, 2016].

Le immigrate, inoltre, come è emerso dalle interviste, possono farsi inviare medicinali dai familiari rimasti in patria o portarli con sé quando rientrano dalle vacanze, per i costi meno elevati, a causa delle difficoltà nel potersi recare dal medico e farli prescrivere nelle località di emigrazione, ma anche perché i farmaci del paese di origine sono maggiormente “noti”, “conosciuti”, rispetto a quelli reperibili in Italia.[39] Tale pratica, per altro, è frequente soprattutto nei primi tempi del percorso migratorio, qualora per le migranti possano esservi maggiori impedimenti ad accedere ai servizi, per la eventuale condizione di irregolarità giuridica, per questioni linguistiche, oppure a causa degli intensi ritmi lavorativi legati ad attività “notte e giorno”.

Emblematiche a riguardo le parole di N., la quale ribadisce come, il più delle volte, sia più semplice far ricorso ai rimedi medici inviati dall’ Ucraina piuttosto che acquistarli in Italia ed al contempo consultare gli specialisti nel proprio paese di origine, attraverso il web o il cellulare. A riguardo, infatti, racconta:

Sì, noi portiamo qui un sacco di medicina nostra e se bisogna qualcosa, se serve qualcosa, fa male testa, fa male stomaco, fa male schiena, noi abbiamo la medicina. Perché qui non possiamo prendere medicina senza ricetta, per prendere ricetta, […] Prendere appuntamento con dottore, […] e poi fra un mese altro analisi, poi terzo analisi, poi quarto, poi da specialista, mamma mia! Questo impossibile fare qui! Siamo … no è liberi per fare queste cose! È difficile! Noi portare sua medicina, se fa male qualcosa, telefona, mi porta questo, mi manda questo… da Ucraina, troviamo decisione! [Intervista a N., ucraina, Pisa, 2016]

Nel caso di M., invece, che ha cinquantatré anni, un diploma da infermiera e vive a Pisa, assieme a sua figlia, la scelta di far riferimento a strategie e itinerari di cura transnazionali si ricollega soprattutto alla situazione di irregolarità temporanea in cui versa. La donna, infatti, al momento dell’intervista era in attesa del rinnovo dei documenti per il soggiorno e in cerca di lavoro, a causa della morte della persona che, in precedenza, assisteva. In caso di necessità, pertanto, come molte connazionali, preferisce, rivolgersi ai medici nel suo paese di origine e acquistare lì medicinali che poi, porta in Italia, prediligendo, qualora possibile, il ricorso alle medicine naturali. Afferma d’altro canto, di poter “fare da sé”, grazie alle competenze mediche legate al suo percorso formativo e lavorativo, sostenendo:

Conosco tutte medicina. Io per me preferisce andare nostro paese. Posso comprare senza ricette anche per il cuore qualcosa. Qui no... […] Quando andato mio paese una scatola piena per tutto. Per dolore, per influenza, per tutto! [… ] Mia figlia [a Pisa] è andata dottore per problema lei ha pagato ricetta, venti euro. Poi ha detto bisogna prendere appuntamento adesso per la prossima volta...Troppo, troppo tempo! [Intervista a M., ucraina, Pisa, 2016]

Nel corso delle interviste, inoltre, è stato possibile riscontrare come le immigrate, possano far riferimento a un approccio medico tradizionale, legato a rimedi naturali, erboristici, particolarmente diffusi in Ucraina, che si affianca al ricorso alla biomedicina e ai servizi sanitari nel contesto migratorio.

È diffusa, infatti, la prassi di farsi inviare tali rimedi dai familiari rimasti in patria, sia fra le immigrate più anziane, che fra le più giovani, le quali possono avere in Italia un loro nucleo familiare, sperimentando, talora, forme di mobilità occupazionale. E’ emerso, poi, sovente, fra le intervistate, un atteggiamento fortemente critico per l’impiego di farmaci in Italia, considerato, il più delle volte, eccessivo.

D. ad esempio, che ha un progetto migratorio volto alla stabilizzazione, poiché vive a Napoli da circa venti anni, assieme ai figli e ai nipoti e lavora in un’associazione rivolta a persone dell’Europa dell’Est, pur considerando il sistema sanitario italiano migliore rispetto a quello ucraino per i suoi principi universalistici, preferisce farsi inviare rimedi erboristici da sua madre, affermando:

Mia mamma manda se mi serve! [...] E questo io mi sto curando quasi da sola... se qualcosa ... E così devi fare! Perché se no subito, anche per bambini, danno subito cortisone, antibiotico! [...] Sì sì [uso rimedi tradizionali] fino adesso! Sì da noi sì, facciamo anche a casa, sciroppo! Antibiotico e tutto! [Intervista a D., ucraina, Napoli, 2016]

V., analogamente, che ha trentasei anni ed è giunta a Napoli assieme al marito nel duemila, nell’ambito di un progetto migratorio familiare, sostiene:

No io non prendo tanto queste medicine perché a me non serve. Se prendo … non prendo troppo! Io sono quella là che utilizza ancora i metodi quelli là vecchi di nonni, mi piace! Sì. Sì. Certo! […] Ma io adesso sono arrivata con medicinale qua! Prima di venire in Italia, da noi veniva anche un medico che fa medicina di erboristeria, perché mia mamma è di zona di queste montagne, dove c'è raccolta di tutte queste erbe! [...] Si sì, è più facile che consultiamo con lui! Oltre erbe, c'è miele! [Intervista a V., ucraina, Napoli, 2016]

In Italia, V. ha dato alla luce i suoi tre figli e i vissuti della donna inerenti la gravidanza e il parto sono stati caratterizzati dall’essere poco medicalizzati, per una sua consapevole scelta. La vicenda di V., in ogni caso, è significativa poiché, come altre connazionali più giovani, ha raccontato di essersi rivolta alle strutture sanitarie esclusivamente per la gravidanza, il parto e in seguito, per la cura dei propri bambini. Da essa, inoltre, si evince come anche i percorsi legati alla maternità, nonostante le tutele legislative esistenti, possano, alle volte, essere ostacolati dalle condizioni di precarietà occupazionale, dalla carenza di informazioni in merito ai propri diritti e dalla assenza di una rete di sostegno sul territorio. La sua prima gravidanza, infatti, è stata messa a rischio da datori di lavoro che non rispettavano i suoi diritti e accompagnandola alle visite mediche, mentivano sull’andamento della gestazione, i cui esiti sono stati, poi, positivi grazie all’ ausilio di una vicina di casa. Emblematico come V., in seguito, abbia condotto, vincendo, una causa contro il suo ex datore di lavoro per il riconoscimento dei diritti che le spettavano.[40]

Rappresentativa, inoltre, è l’esperienza di Av. che ha trent’anni e vive a Napoli assieme al marito, anch’egli ucraino ed ai loro due bambini, nati nel capoluogo campano. La donna pur essendo cresciuta in Italia, dove è giunta all’età di dieci anni assieme ai genitori, preferisce, alle volte, farsi inviare rimedi erboristici e naturali dalla nonna, che vive in Ucraina. In riferimento ad essi, infatti, ribadisce: «A volte io uso anche, o li compro qua a Napoli che li vedono, oppure me li faccio mandare da mia nonna dall’ Ucraina.» [Intervista ad Av., ucraina, Napoli, 2017]

È significativo, inoltre, il fatto che Av., pur rientrando in una seconda generazione di immigrati, abbia riscontrato episodi legati a pregiudizi e discriminazione in occasione del parto o in ambito medico e percepisca, così, più di altre intervistate, la condizione di essere considerata, comunque “straniera”. Ha infatti, denunciato, nel corso dell’ intervista, la prassi della ginecologa privata che ha seguito la sua prima gravidanza, di far pagare, in occasione del parto, alle donne straniere, una quota aggiuntiva ed ha riscontrato, in seguito, per la cura dei suoi figli alcune difficoltà nel rivolgersi al pediatra, perché irregolare. È emblematico, pertanto, come i suoi progetti per il futuro, siano volti al rientro nel paese di origine con il suo nuovo nucleo familiare. [41]

Il ricorso a forme di pluralismo medico, in ogni caso, è frequente, fra le madri di origine ucraina. L., ad esempio, che vive e lavora a Napoli dal duemila assieme a sua figlia, che l’ha raggiunta per ricongiungimento familiare, afferma:

Sì, sì, come! Ricette di nonna! Anche per il raffreddore per i bambini. Sì, sì un’applicazione al posto di andare dal medico, […] No perché io sono proprio contro, contro medicine! Eh sì lo usiamo sempre! Sempre tutti noi! [Intervista a L. ucraina, Napoli, 2016]

E. analogamente, che ha trentanove anni e ha sposato a Napoli un connazionale, ha ribadito come per la salute di sua figlia ricorra a rimedi propri della biomedicina solo dopo aver provato quelli erboristici, sostenendo:

La mia bimba ha quattro anni e sette mesi e solo la prima volta, quando è stata in ospedale ha preso l’antibiotico. Fino a questa età, al massimo se non riuscivamo a scendere la febbre, allora la tachipirina, per due giorni al massimo! E basta! [...] Erbe, c’è prodotti di erboristeria, in Ucraina più che in Italia! [Intervista a E., ucraina, Napoli, 2016]

Alcuni prodotti erboristici e naturali provenienti dall’Ucraina, possono essere venduti in Italia dalle stesse immigrate, impegnate in attività di rappresentanza o alle volte presso associazioni, agenzie, come è stato possibile riscontrare nel capoluogo campano.[42]

Nel corso delle interviste, d’altro canto, è emerso che non tutte le immigrate facciano riferimento a risorse e reti transnazionali, alle volte per scelta, altre per via della situazione di precarietà ed irregolarità in cui versano. Vi. ad esempio, al momento dell’intervista ha sessantaquattro anni, è in cerca di una occupazione e vive presso l’abitazione del suo precedente datore di lavoro, una donna che assistito fino alla morte, grazie all’ospitalità dei suoi familiari. Priva di una rete familiare e di sostegno, sia in Italia che nel paese di origine, Vi., a causa delle difficoltà economiche in cui versa, non può far rientro in patria, ma ricorre, qualora sia necessario, alla sanità pubblica italiana, sebbene alle volte anche i costi del ticket o delle medicine possano rappresentare una barriera.

Ecco come, anche nelle possibilità di rivolgersi a itinerari e percorsi di cura transnazionali, riemergano nuove forme di diseguaglianze, che colpiscono soprattutto coloro che sono in una situazione di maggiore fragilità.

La centralità dei network comunitari fra le immigrate filippine e l’importanza dei legami transnazionali

I percorsi di accesso ai servizi sanitari fra immigrate filippine, come si evince dalle interviste condotte sia a Napoli che a Pisa, sono influenzati, analogamente alle donne ucraine, dalle condizioni lavorative, dalle reti familiari, dalla temporaneità o meno dei loro progetti migratori, dal tempo trascorso in Italia e da quello disponibile in base alle esigenze lavorative.[43] I principali problemi, in tale ambito si ricollegano, infatti, a questioni linguistiche, alla regolarità del soggiorno i primi tempi in Italia, alla carenza di informazioni o al poco spazio da poter dedicare a sé stesse.

Emblematica a riguardo la vicenda di Ca. che, da oltre venti anni, vive a Pisa, dove ha raggiunto il marito emigrato in precedenza e dal quale ha successivamente divorziato. La donna, così, oramai sessantenne, ha allevato da sola le sue tre figlie, lavorando come badante e in riferimento alle sue esperienze in ambito medico, afferma:

Ti dico la verità dopo la nascita della più piccola non ho più visto il medico […] Perché non ho avuto tempo tre figlioli io dopo il lavoro! […] Per me quello che diciamo per noi filippini, per noi lavoratori, non possiamo, non abbiamo il permesso di ammalare! [Intervista a Ca., filippina, Pisa, 2016]

Significative, inoltre, possono apparire le parole di Mo., che al momento dell’intervista viveva a Napoli da circa tre anni ed ha raccontato di aver riscontrato considerevoli problemi nel rivolgersi ai medici o alle strutture sanitarie del territorio, legati, soprattutto, a barriere linguistiche e comunicative.[44] Queste possono, poi, intrecciarsi a ostacoli burocratici, organizzativi e alle volte, alla percezione di sentirsi ed essere considerati “stranieri”, come si evince dall’intervista condotta alla donna, che afferma:

“First of all, a new immigrant coming to Italy cannot understand the language. They do not have the proper communication allowing them to explain, for example, what kind of disease a patient is feeling and how a doctor can relate, because some doctors can understand English. […] I can understand some Italian, but I cannot understand the most profound words. […]

Some of the Filipinos told me (I have a lot of friends) they don’t want to go to Italian hospitals…. Because they are afraid and feel that, as immigrants, they are not receive full attention by the doctors. That is because they are strangers. How should I call that? Is it racism or discrimination? […] My friends told me that they prefer to rely on self-medication, rather than going to a hospital in Italy. […] They are very …“paura”, they are very afraid. […] They tend to go to hospitals only if their problems are very serious. They are afraid. So, when I heard that, I knew that they used fruits, natural medications and the like.” [Intervista a Mo., filippina, Napoli, 2017]

La percezione delle difficoltà a far riferimento ai servizi del territorio, in ogni caso, può ricollegarsi alle molteplici traiettorie dei percorsi migratori e alla possibilità di avere un ausilio.[45]

Il ruolo delle reti sociali presenti nel contesto migratorio, rappresentato da connazionali, familiari e dai datori di lavoro è, per immigrate di questa nazionalità, come nel caso delle donne ucraine, di fondamentale importanza, nel fornire informazioni, indirizzarle o consentire loro di superare eventuali barriere. In tal senso anche le seconde generazioni, rappresentate dai figli ricongiunti o cresciuti in Italia, che frequentano la scuola, possono rappresentare un ausilio.

I network comunitari e associativi, inoltre, fra donne di questa nazionalità possono essere centrali e svolgere un ruolo considerevole nell’ambito della tutela della salute e nei percorsi di maternità, sia a Napoli che a Pisa, a differenza di quanto avviene fra immigrate di altra provenienza.[46] È significativo, a riguardo, come a Napoli, le stesse associazioni locali possano creare degli appositi “percorsi” sanitari sul territorio, con l’ausilio delle reti informali dei datori di lavoro. La presidente di una delle associazioni filippine della città, ad esempio, organizza periodicamente, per le connazionali, visite mediche di gruppo gratuite, presso servizi convenzionati del territorio.

Nel corso della ricerca, d’altro canto, è stato possibile riscontrare alcune differenze fra i due contesti di indagine, in riferimento alle possibilità di tutela della salute femminile e all’accesso ai servizi consultoriali, che possono ricollegarsi a questioni organizzative dei servizi, così come al ruolo svolto dai network sociali nel veicolare informazioni e possibilità, relative all’efficienza delle strutture sanitarie.[47] Emblematico come nel capoluogo campano, le intervistate si siano rivolte soprattutto a medici o a servizi privati, grazie all’ausilio dei propri datori di lavoro o delle reti comunitarie e familiari.[48]

Dalle interviste, inoltre, si evince come sia frequente il ricorso, a modalità di cura autonome che si ricollegano a forme di pluralismo medico diffuso nelle Filippine e riproposto anche nel contesto migratorio.[49] Questo fa riferimento a un sapere legato a preparati fitoterapici o erboristici che affiancandosi alla biomedicina è trasmesso, a livello familiare, fra le generazioni,[50] sebbene, come emerge dalle testimonianze, vi siano figure esperte in questo ambito.[51] Mo., ad esempio, analogamente ad altre connazionali, ha raccontato come fin da bambina i genitori le abbiano insegnato le varie proprietà dei rimedi naturali, ricordando «Since I was a child, I know very much about all this. Because my parents told me. […] There are experts, but, in most cases, everybody knows everything.» [Intervista a Mo., Napoli, 2016]. La donna, inoltre, ha evidenziato come nelle Filippine il ricorso a tali rimedi naturali sia particolarmente diffuso, affermando:

So, in my country, chemistry- based medicine is not so present. We rely on natural medicine That is true. They are very healthy! Other kinds of medicine may damage your intestine. We use guava leaves for that. You can also boil them and drink their juice to good effect […] Everything natural medicine provides can heal your body within. If you drink guava, it is good for everything. In the Philippines, there is a lot of herbal medicine. […] Do you know diabetes? There is an herbal medicine for that as well, called “Ampalaya”[52]. It’s only in the Philippines. It is bitter and good for diabetes. […]There is also a root, called “Kugon”, you can boil and then use for your knee [...] We also use leaves, from the guava and the like, for medication. Do you know ginger? It is like an antibiotic. […] My children, if they have some stomach pain… […] I give them ginger […] Yes. I never asked for medicines in Italy. […]Onions and garlic are also available. We do also use coconut oil. [Intervista a Mo., Napoli, 2016].

Fra i rimedi erboristici, lo zenzero, “ginger”, considerato un grande ausilio nel caso di raffreddamenti, mal di gola o infezioni, per le sue proprietà ritenute antibiotiche, è molto diffuso sia nel paese di origine che in Italia. Esso è, infatti, facilmente reperibile anche nei supermercati italiani, come hanno ribadito le donne intervistate. T., ad esempio, giunta a Pisa circa ventuno anni fa, dove vive con il marito e una figlia adottiva di nove anni, svolgendo un lavoro part-time in ambito domestico, sostiene:

Sì, noi usa qualche volta perché anche io ginger […], per mal di gola, mettiamo un pochino di miele, o zucchero va bene, pochino. E poi bisogna bere, è buono! C'è né tanto nei supermercati italiani...ce n'è tanti qui ora!” [Intervista a T., filippina, Pisa, 2016]

La donna, così, analogamente ad altre connazionali, fa ricorso ad approcci medici tradizionali sebbene sia in Italia da molti anni e sostenga di non avere particolari difficoltà a rivolgersi ai servizi sanitari del territorio o al proprio medico di base, se non legate a questioni linguistiche.[53]

I rimedi erboristici utilizzati nell’ambito della medicina tradizionale filippina, possono essere portati in Italia dagli stessi migranti, ad esempio, quando si recano in vacanza nel paese di origine, oppure o in alcuni casi, essere reperiti in supermarket gestiti da connazionali o da persone di altra nazionalità.[54]

Le reti trans – nazionali, in tal senso, rappresentano un ausilio per poter ricorrere a tali pratiche curative. Sono, per altro, numerose le testimonianze delle donne che hanno raccontato di far riferimento ad esse nel contesto migratorio.

B. ad esempio, che ha quarantaquattro anni e vive a Napoli dal 2006 con la sua bambina di sette anni, ha ribadito di avere difficoltà a rivolgersi alle strutture sanitarie, a causa soprattutto di barriere linguistiche, preferendo ricorrere, in caso di necessità, a rimedi naturali. Sostiene, infatti: «Sempre naturale io. E' più efficace! Number one limone e ginger. Come lime… Medicina no! Anche per il parto!» [Intervista a B., Napoli, 2016].

P., analogamente, che ha sessantatré anni, è sposata con un italiano ed è in Italia dagli inizi degli anni novanta, integra il ricorso alla biomedicina con rimedi propri della tradizione medica filippina. Grazie all’ ausilio di questi ultimi, ad esempio, ha superato un forte malessere al ginocchio ribadendo:

Allora per esempio io ho avuto il problema al ginocchio… Io non ho comprato medicina! Ho fatto lo medicine tradizionali! Lo sai ginger, zenzero e poi buccia di limone, ho fatto così [mostra come lo ha passato sul ginocchio], la benda tutta la notte … e poi al mattino, mezzogiorno, sera bevo zenzero. E’ come la menta. Si grattugia, o anche un pezzo così, lo metto poi si fa bollire un quarto di ora e il sapore è come menta e tolto il mal di gola. [...] Io quarantacinque giorni che camminavo proprio male … non posso appoggiare le gambe e si è tolto e poi faccio un poco di massaggio mattina e sera. [Intervista a P., Napoli, 2017]

Le immigrate filippine, come si evince dalle interviste, possono far riferimento alle reti transnazionali per ricorrere ad approcci medici erboristici e naturali, anche in occasione della nascita dei propri bambini o per la loro salute.

I., che ha quarantaquattro anni e vive a Napoli da circa venti anni, ad esempio, ha raccontato:

Eh, per mio figlio sì, uso medicina per non prendere freddo diciamo, si mettiamo nei piedi, e nella pancia […] è vero zia? […] Herbal. Quella è medicina da noi in Filippine c’è questa che prendono nella erba, e basta che si usa. C’è anche odore tipo di menta. Metti la mattina, la sera … Se entra aria fredda, mettiamo sempre, così! Ad esempio quando nasce il bambino c’è quella parte molle qua [indica la testa], buco che se entra l’aria fredda … e mettiamo sempre così! Sì mattina e sera. Poi sulla pancia [Intervista a I., filippina, Napoli, 2016]

Emblematica, inoltre, a riguardo è la storia di R. una giovane donna cresciuta in un contesto familiare transnazionale segnato dalla separazione con la madre, che lavorava a Napoli ed alla quale si è ricongiunta, raggiungendola, all’età di diciassette anni. Nelle Filippine, infatti, R. è stata allevata dalla nonna, ricordando come ciò sia stato per lei estremamente difficile. «Troppo difficile!», sostiene. Una volta a Napoli aveva in programma di proseguire gli studi universitari ai quali si è vista costretta a rinunciare per le difficoltà a conciliarli con l’attività lavorativa. Ha sposato, così, un connazionale ed hanno avuto due bambini, che al momento dell’intervista avevano un anno e mezzo e cinque anni.[55] Questi sono nati in Italia con parto cesareo in un ospedale pubblico delle città, l’Annunziata, dove R. ha raccontato di essersi trovata “benissimo”. In tale occasione, tuttavia, ha fatto ricorso anche a rimedi tradizionali e in particolare ad erbe che le avevano inviato dalle Filippine e che potevano essere di aiuto per cicatrizzare la ferita del taglio cesareo.

Non è stato facile, in seguito, conciliare il lavoro con la maternità e la cura di suo figlio, che soffriva di asma, pur avendo l’ausilio di una baby-sitter e di alcuni connazionali. Vivrà, pertanto, l’esperienza della maternità transnazionale, delle separazioni forzate, anche se questa volta nel ruolo di madre. Assieme al marito infatti, decide di lasciare il suo primo figlio alle cure della nonna nelle Filippine, per difficoltà economiche, organizzative e nella speranza che lo stato di salute del bambino possa migliorare, grazie ad un clima diverso e alla possibilità di far ricorso a cure naturali. La famiglia, intanto si trasferisce in una città dell’Italia centrale, dove vi sono opportunità di lavoro più favorevoli. La distanza dal primogenito, tuttavia, è molto difficile da affrontare sia per il bambino che per i genitori i quali decidono, pertanto, di farlo tornare in Italia, sebbene nelle Filippine lascino alle cure della nonna, anche se solo temporaneamente, la bambina più piccola. Una volta rientrato in Italia, tuttavia, la salute del bambino peggiora nuovamente, così, R. è costretta a ricorrere frequentemente al pronto soccorso e nell’ambito delle cure prescritte dai pediatri, a rimedi cortisonici o antibiotici. Cerca, pertanto, soluzioni più naturali e medici che possano aiutarla in tal senso. Con l’ausilio di internet scopre che un’erba australiana potrebbe forse essere utile alla situazione di suo figlio, decidendo di provarla, facendola prima coltivare e poi inviare. Il bambino, così, migliora mentre lei continua, in ogni caso, a cercare medici in Italia che possano seguirla con approcci più naturali.

La vicenda di R. è significativa poiché in essa si evince come l’ausilio dei network locali ed al contempo, transnazionali sia fondamentale per creare spazi di cura ibridi nell’ambito della salute materno infantile, che travalicano i confini. Grazie a tali reti, infatti, la giovane donna ha avuto modo di districarsi fra pratiche di cura formali e informali, come pure fra il ricorso, da una parte, ai servizi sanitari italiani e alla biomedicina e dall’altra, ai rimedi erboristici che rientrano nella tradizione medica filippina, o che sono tipici, finanche, di altre località (come nel caso dell’erba australiana).

Dalla storia della donna, inoltre, emergono le difficoltà di preservare legami genitoriali in un contesto transnazionale e la drammaticità che le separazioni, in ambito familiare, possono comportare. Separazioni a causa delle quali la stessa R. ha sofferto da bambina e che, pertanto, cerca di non far rivivere, nei limiti delle possibilità economiche e organizzative, ai propri figli.

Le immigrate filippine, inoltre, come si desume dalle interviste, possono riproporre nel contesto migratorio, assieme all’uso di erbe mediche che rientrano nella medicina tradizionale, in forma ibrida, prassi e pratiche protettive tradizionali legate all’evento della nascita, ricorrendo a divieti alimentari o ad altre tipologie di tabù (come il non toccare l’acqua fredda nel periodo del puerperio). Nel luogo di emigrazione, tuttavia, l’assenza di una rete di sostegno ed i ritmi lavorativi possono influire sulla relazione fra madre e bambino, non facilitando, ad esempio, la possibilità di un allattamento prolungato negli anni, così come previsto tradizionalmente. Fra le donne intervistate che hanno partorito sia in Italia che nelle Filippine, inoltre, i racconti del parto nel paese di origine stridono fortemente con quelli del contesto migratorio, [56] per la perdita dei riferimenti comunitari e delle reti femminili di sostegno, che rendono tale evento denso di significati da un punto di vista sociale e culturale [Ranisio 2012].[57]

Dalle interviste si evince, poi, come, alle volte, anche nei contesti migratori possano essere presenti figure di guaritori tradizionali, particolarmente diffusi nell’arcipelago asiatico, ai quali le immigrate possono rivolgersi per sé stesse o per i propri bambini.[58]

Significativa, a riguardo, l’esperienza di Ca., la quale dopo una prima reticenza ha raccontato come per curare le sue bambine facesse ricorso all’ ausilio di una connazionale, ormai anziana, residente a Pisa, in possesso di particolari “doti”. Ricorda, infatti:

Sinceramente qui c’era una filippina a quel tempo, che quando le bimbe avevano la febbre, però non c’ha né tosse, né raffreddore, né niente, c'è mal di testa, allora, mal di pancia, lei li curava facendo bollire tutti i vestiti, perché se non troviamo una persona che ha fatto “malocchio” … Quando lo troviamo noi non lo sappiamo chi è stato, da chi è … Si toglie tutti i vestiti si butta nell' acqua bollente si strizza bene bene si fa così [mima un gesto per stendere i panni strizzati], si appende! E dicono che così passava tutto il dolore della pancia! O sennò, ti ho detto quella lì per il mal di gola o la spalla o sennò … Sai i bimbi si muovono in continuazione, una corsa là, una storta là. Prima c’era una qui a Pisa dove lo portavo le bimbe! [...] Una filippina che guariva con l’olio. [...] Anziana, ora ha 88 anni e non fa più! [...] Credo che sempre qui, sempre qui, però anche lei non le fa più, perché sai ci vuole forza, ci vuole forza! Va bene che la conoscenza ce l’ha! [Intervista a Ca., filippina, Pisa, 2016]

Si ritiene che tali guaritori siano in possesso di capacità ricevute in dono da Dio cosicché è possibile accordare loro una fiducia ulteriore rispetto ai medici che, sono in ogni caso “persone normali”.[59] Le prestazioni che forniscono, inoltre, rientrano in forme di scambio che non hanno un corrispettivo in denaro, come ha ribadito Ca., raccontando:

Si portava là i figli, perché poi loro non chiedono mai i soldi te gli devi offrire … qualcosa … Però mai dei soldi, almeno da noi si fa così! Grazie e basta! Forse o perché quando qualcuno crede … Noi siamo cresciuti un po' nell'antichità, metà nel mondo moderno! Ma da noi esiste questa cosa qui! Noi crediamo nella capacità di un guaritore! Bene, che ci sono proprio, è un dono da Dio! Sì anche le mani! Posava nella parte dove c'è il dolore con una orazione. Sono persone rare! Sono persone dotate, come si dice è un dono! Che vedono anche diversamente! Io ci credo, credo a queste cose! I medici possono sempre sbagliare e possono dire che … Ma sono sempre persone normali, anche se hanno studiato per anni! Possono curare le persone e dire che una diagnosi è sbagliata … Invece per me, queste persone speciali, non è che si sbagliano! Così sì, perché bisogna andare dal medico! Però se abbiamo, se conosciamo uno che guarisce che può aiutare, rimedi naturali ... Rimedi eh volentieri! Anzi si preferisce! [Intervista a Ca., Filippina, Pisa, 2016]

Le immigrate filippine così, ricorrendo a forme di pluralismo medico e avvalendosi di risorse e reti transnazionali possono ricreare in ambito domestico, nel contesto migratorio, analogamente quanto accade nel paese di origine, spazi di cura ibridi.[60]

Fra le pratiche transnazionali di cura, in ogni caso, analogamente alle donne di origine ucraina, vi può essere il far ritorno nel paese di origine per curarsi o per controlli medici. Tale prassi, tuttavia, che può ricollegarsi ai percorsi e ai progetti migratori più o meno stabili, fra immigrate di questa nazionalità può essere meno praticabile, a causa della distanza e degli elevati costi per rientrare in patria o previsti dal sistema sanitario filippino, che possono rappresentare una ulteriore barriera.

Considerazioni conclusive

In conclusione, dalle interviste condotte sia a Pisa che a Napoli, dalle storie, dalle narrazioni delle immigrate è emerso come le traiettorie di salute e di accesso e fruizione ai servizi sanitari siano intrinsecamente legate a molteplici fattori. Fra questi i percorsi e i progetti migratori delle donne, le loro situazioni familiari, le possibilità offerte dalle condizioni lavorative, alle volte segreganti ed inoltre, il ruolo svolto dalle reti locali o transnazionali, il senso di appartenenza [Raffaetà 2016] o le concezioni di salute, malattia, maternità che, a loro volta, si ricollegano agli universi simbolici dei paesi di provenienza.

I percorsi sanitari in ambito migratorio, d’altro canto, si intrecciano alle possibilità offerte dai diversi contesti territoriali,[61] mentre i network femminili assolvono un importante ruolo per entrambe le collettività prese in considerazione, sebbene come si è visto, abbiano caratteristiche differenti.

Le problematiche relative a tale ambito, in ogni caso, sono superate dalle immigrate facendo ricorso a più risorse e reti, sia a livello locale, nel contesto migratorio (con l’ausilio di connazionali, familiari o datori di lavoro), che transnazionale.

Nel corso della ricerca, infatti, è stato possibile riscontrare, come in entrambe le collettività prese in considerazione, la creazione di spazi di cura transnazionali possa ricollegarsi oltre che al senso di appartenenza percepito, anche, in maniera significativa, alle difficoltà inerenti l’accesso ai servizi sanitari nel contesto migratorio, rappresentando una riposta ad esse.

La realizzazione di itinerari di salute che travalicano i confini, al contempo, è legata alle concezioni che le migranti hanno della salute, della malattia, della gravidanza e agli approcci medici ai quali sono orientate, intrecciandosi a forme di pluralismo medico, come hanno rilevato alcuni studi relativi a questo ambito di indagine [Zanini, Raffaetà, Krause, Alex 2013; Krause 2008; Dyck, Dossa 2007; Tognetti Bordogna. Rossi 2016]e come è emerso dalle parole delle donne intervistate.

Dinanzi agli ostacoli inerenti i percorsi sanitari nei contesti migratori, così, le immigrate possono far riferimento a pratiche transnazionali, sebbene vi siano significative differenze fra le due collettività, legate anche a diversi background culturali.

Si è visto, infatti, come le donne ucraine, soprattutto qualora abbiano ancoraggi emotivi nel paese di origine o svolgano l’attività di badanti, possano spostarsi lungo itinerari transnazionali, approfittando dei periodi di vacanza nel paese di origine, per effettuare visite e controlli. Diffusa è poi, la prassi di farsi inviare farmaci, rimedi naturali ed erboristici dai familiari rimasti in patria, soprattutto nei primi periodi in Italia, quando sono maggiori le difficoltà o le situazioni di irregolarità che possono ostacolare il ricorso ai servizi del territorio.

A tali strategie possono ricorrere, alle volte, anche le migranti filippine, sebbene la distanza e gli elevati costi per poter rientrare in patria possano rappresentare un ostacolo in tal senso. E’ stato possibile, tuttavia, riscontrare fra immigrate di questa nazionalità, la centralità del ruolo svolto dalle reti familiari e comunitarie nel contesto migratorio, che forniscono un importante sostegno volto ad informare, indirizzare, orientare le donne ai servizi, contribuendo al superamento delle barriere in questo ambito.

Le immigrate di entrambe le nazionalità, poi, grazie all’ ausilio di network che si dispiegano in uno spazio trans-nazionale, possono fare ricorso, a rimedi erboristici o a pratiche di cura “tradizionali”, sia per sé stesse, che per la cura dei propri bambini.

Il riferimento a un sapere medico tradizionale può affiancarsi, per altro, ad approcci biomedici e all’utilizzo delle strutture del servizio sanitario nazionale nel contesto di emigrazione, analogamente a quanto può accadere nei paesi di origine.

Le donne, le madri intervistate, pertanto, come è stato evidenziato anche da Giacalone, si «affidano ai medici senza dimenticare la medicina tradizionale» [Giacalone 2006, 238] cosicché molteplici possono essere le ibridazioni nell’ambito dei loro percorsi di cura o in quelli inerenti la gravidanza e il parto.

Le reti sociali locali, proprie del contesto migratorio e quelle transnazionali, così, si intrecciano nei percorsi delle immigrate, le quali per far fronte alle proprie esigenze e a quelle dei loro bambini, creano spazi di cura ibridi, nell’ambito dei processi di negoziazione e risemantizzazione [Signorelli 2006] propri delle dinamiche migratorie. Spazi che, per certi versi, costituiscono interstizi in cui si esplicano le possibilità legate all’agency,[62] concretizzandosi in una medicina domestica che può essere considerata “un ibrido articolato e composito” [Giacalone 2006, 239], dagli aspetti sempre più transnazionali.

Dalle vicende, dalle storie delle donne intervistate in riferimento alla creazione di spazi di cura che travalicano i confini è stato possibile, infine, constatare come si possano ripristinare nuove diseguaglianze, che penalizzano proprio coloro che sono in una situazione di maggiore precarietà (ad esempio per l’irregolarità del soggiorno o per le difficoltà economiche).

Ci si può, pertanto, interrogare sull’attualità, sulla valenza e sui limiti di politiche sanitarie e migratorie volte a facilitare l’accesso ai servizi sanitari delle donne straniere e a rimuovere le persistenti barriere in questo ambito. Al contempo, si potrebbe ulteriormente riflettere, nella prospettiva sociologica e dell’antropologia medica, sul ruolo svolto da politiche orientate ad un maggiore riconoscimento di forme di pluralismo in ambito medico o delle cosiddette “medicine non convenzionali”, sia in relazione alle specificità dei percorsi di salute e maternità delle immigrate, sia perché esse sono sempre più diffuse, anche fra gli italiani.

Ciò nella prospettiva per la quale, la salute debba essere considerata alla stregua di un «bene comune» [Seppilli 2014], che come ha evidenziato Ranisio, riprendendo le riflessioni di Seppilli [2014], rientra, «fra quei beni essenziali alla vita dell’uomo che non dovrebbero essere affrontati con la logica del mercato e del profitto», ma «tutelati come beni collettivamente controllati e potenzialmente disponibili per tutti» [Ranisio, Simone 2016, 30].

Ecco come la presenza immigrata consente di riflettere sulle politiche dei contesti di accoglienza, in quanto i migranti e le migranti si inseriscono in essi, come ha ribadito Sayad, rispecchiandone le problematiche e non creandole [Sayad, 2002].

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[1] Le norme italiane in questo ambito, considerate “inclusive”, sono volte a tutelare sia coloro che sono in situazione di regolarità, sia gli irregolari e prestano particolare attenzione ad alcune categorie fra cui minori e donne in gravidanza. Resta problematica, tuttavia, l’applicazione eterogenea delle normative fra i territori [Geraci, Bonciani Martinelli 2010, Affronti et. al. 2014].

[2] Persiste, inoltre, un accesso categoriale ai diritti di salute, per cui i migranti accedono ad essi in relazione al loro status giuridico o alla provenienza. Ciò rimanda al concetto di “cittadinanza sanitaria” elaborato nell’ambito dell’antropologia medica, che fa riferimento al bio-potere dello stato nazione di decidere chi può avere accesso ai diritti di salute [Schirripa, 2014; Petryna 2002].

[3] Un ampio dibattito ruota attorno al concetto di trans- nazionalismo. Con esso si intende una prospettiva che ha aperto un nuovo campo di ricerche, soprattutto in America, con gli studi di Glick Schiller o di Basch che risalgono alla metà degli anni novanta. Per approfondimenti si rimanda a Ambrosini 2008; Miranda, Signorelli 2011; Portes, Guarnizo, Landolt 1999, Sassen 1999.

[4] I “trasmigranti”, infatti, costruiscono nuovi “campi sociali” che “collegano i due poli del movimento migratorio, mantenendo un ampio arco di relazioni sociali, affettive o strumentali attraverso i confini e conducendo una vita intessuta di continui e regolari contatti con il paese di origine, grazie anche ai progressi dei trasporti e delle comunicazioni [Portes, Guarnizo, Landolt 1999].

[5] Si è deciso di far riferimento a tali collettività, prevalentemente femminili, per diverse ragioni. Fra queste il fatto che presentano tratti simili e al contempo differenti. La presenza ucraina, inoltre, è considerevole a Napoli, seppure sia consistente anche a Pisa, mentre quella filippina è la più numerosa nella città toscana, pur essendo ben radicata anche nel capoluogo campano [Dati anagrafici; Istat, 31/12/2016].

[6] Tali ambiti rappresentano punti di osservazione significativi nel contesto migratorio in quanto le immigrate si rivolgono alle strutture sanitarie in misura maggiore rispetto agli uomini, per lo più, per questioni legate alla gravidanza, alla salute riproduttiva o quali “care givers” per la salute dei figli. Essi, poi, presentano ancora aspetti problematici [Lombardi 2005, Tognetti Bordogna 2012].

[7] Per approfondimenti in riferimento al concetto di pluralismo medico si rimanda fra gli altri a Horbst, Schirripa, Gerrets [2017]; Dei [2014, 2012]; Colombo, Rebughini [2006]; Giarelli [2005]; Pizza [2005].

[8] Ciò al fine di valutare come diverse politiche sociali e sanitarie possano influire sui percorsi di accesso ai servizi medici da parte delle immigrate. Un approfondimento delle differenze emerse fra i due contesti territoriali anche in riferimento all’efficienza dei servizi sanitari, tuttavia, non rientra fra gli obiettivi di tale articolo.

[9] Si è fatto riferimento sia alle statistiche ufficiali, che ad informazioni più specifiche richieste in forma personalizzata, direttamente all’ ISTAT o ad ASL e consultori. I dati a livello nazionale e territoriale sono stati, poi, rielaborati ed analizzati. È stata integrata, così, un’analisi quantitativa riferita alle statistiche ad una qualitativa, in fase di ricerca sul campo.

[10] In un’ottica esplorativa, così, questa ricerca ha inteso considerare tale ambito di indagine da più punti di vista e prospettive, adottando un approccio multilivello volto ad integrare la dimensione macro, meso e micro dei fenomeni sociali.

[11] Si è focalizzata l’attenzione sui percorsi delle donne filippine anche perché una indagine condotta a Milano, fra il 2011 e il 2012, nell’ambito della fondazione I.S.M.U. da Carrillo e Sarli, ha evidenziato come vi sia una carenza di contributi scientifici che affrontano tematiche sanitarie in riferimento ad immigrati di questa nazionalità [Affronti, Geraci, Russo 2012, 231].

[12] Sono state intervistate, in particolare, dieci donne ucraine e dieci filippine in entrambi i contesti di indagine. Il campionamento, viste le caratteristiche della ricerca, di carattere esplorativo e data l’assenza di una lista della popolazione, caratterizzata anche da condizioni di irregolarità è stato di tipo “snow-ball”. Il campione in ogni caso è eterogeneo per condizioni lavorative e familiari.

[13] La griglia tematica elaborata per le interviste semi – strutturate in profondità è stata articolata in diverse sezioni volte a rilevare le modalità e le problematiche inerenti l’accesso ai servizi sanitari, le dinamiche della relazione medico-paziente, aspetti valutativi e gli approcci medici, per approfondire se le immigrate facciano riscorso, anche nei contesti migratori, a rimedi tradizionali.

[14] In riferimento ai concetti di risemantizzazione e rifunzionalizzazione si rimanda a Signorelli [2006]. Gli immigrati, secondo la studiosa, che riprende anche il concetto di Ernesto de Martino di “domesticità utilizzabile”, si trovano a dover “rifunzionalizzare e risemantizzare le novità in enunciati almeno in qualche misura compatibili con il senso del mondo già acquisito” [Signorelli 2006, 41].

[15] Dyck, Dossa confrontando due gruppi di donne migranti in Canada (le Sikh del Sud del Punjab e le rifugiate afgano-musulmane) hanno preso in considerazione le pratiche quotidiane volte alla costruzione delle dimensioni fisiche, sociali e simboliche dello "spazio di salute" in ambito familiare, focalizzando l’attenzione sul ruolo svolto sia dall’agency che dai processi strutturali [Dyck, Dossa 2007].

[16] Numerosi studi in ambito migratorio, per altro, hanno evidenziato la valenza delle reti sociali [Tilly 1990; Massey 1988; Portes 1995] che possono costituire, al contempo, una “risorsa” ed un “vincolo” [Ambrosini, 2011], e caratterizzarsi anche in un’ottica di genere [Anderson 2000; Parrenas 2001; Decimo 2005; Spanò, Zaccaria 2003; Ambrosini 2008; Tognetti Bordogna 2008].

[17] Krause ha messo insieme le riflessioni antropologiche sul pluralismo medico e la prospettiva transnazionale degli studi migratori. La studiosa infatti ha approfondito come stato, reti transnazionali e religione si interconnettano nelle pratiche sanitarie degli immigrati ghanesi a Londra, evidenziando che la circolazione di denaro, medicinali e preghiere si ricollega a itinerari transnazionali [Krause, 2008].

[18] Un’ampia letteratura ha focalizzato l’attenzione sulle condizioni dei migranti messicani che attraversano i confini per ragioni mediche, recandosi negli Stati Uniti, qualora abbiano la possibilità di partire regolarmente, oppure se emigrati, decidendo di rientrare in patria, a causa dei costi elevati del sistema sanitario statunitense [Seid et. al. 2003; Wallace et. al. 2009].

[19] Per ragioni legate a economia e spazio a disposizione si farà qui riferimento solo ad alcune delle vicende e delle esperienze emerse nel corso delle interviste svolte alle quaranta immigrate. Queste possono essere considerate, in ogni caso, fra le più significative ed emblematiche.

[20] Al 31 dicembre 2016 i residenti ucraini in Italia sono 234.354 e rappresentano il 4,8% dei degli stranieri provenienti da paesi a forte pressione migratoria collocandosi al quinto posto fra le collettività più numerose. Le donne sono, fra loro, il 78,4 % del totale. I filippini sono invece 166.459 di cui il 56,8% è rappresentato da donne. Essi costituiscono il 3,4 % degli stranieri (Fonte Istat, dati al 31/12/2016).

[21] Tale termine può essere controverso. Faso, ad esempio, ha evidenziato come sia stato utilizzato inizialmente da politici leghisti in una accezione xenofoba [Faso 2008] mentre Signorelli ha rilevato che si riferisce esclusivamente alle donne straniere, per i significati simbolici che sottende [Signorelli, 2011]. Si preferirà, così, l’espressione “donne impiegate in attività di cura ed assistenza”.

[22] La presenza ucraina diviene visibile con la regolarizzazione del 2002, sebbene i primi arrivi risalgano alla metà degli anni novanta. Le indagini più recenti hanno riscontrato un quadro migratorio stratificato [Conti, Bonifazi, Strozza 2016] per i mutamenti inerenti la durata dei percorsi migratori, le motivazioni, l’arrivo di donne più giovani e segnali mobilità occupazionale [Conti, Bonifazi, Racioppi 2016].

[23] Numerosi mutamenti, come è stato riscontrato nel corso della indagine, hanno riguardato, nel tempo, le caratteristiche dei flussi migratori provenienti dalle Filippine, in termini di inserimento occupazionale, abitativo, per le forme associative, nelle dinamiche inerenti la maternità. Si rimanda per approfondimento a Zanfrini, Asis Maruja [2006]; Greco [2004].

[24] I progetti per il futuro delle donne intervistate, sia filippine che ucraine, sono il più delle volte, orientati al rientro nel paese di origine, sebbene, nel caso siano presenti i nuclei familiari nel contesto migratorio, possano essere volti alla stabilizzazione o “sospesi” in attesa delle decisioni future dei figli.

[25] Per questioni legate a economia e spazio non ci si soffermerà ulteriormente sulle differenze di questi flussi migratori nei contesti in cui l’indagine è stata condotta, anche perché ciò non risponde agli obiettivi che ci si è posti in tale intervento. Si rimanda fra gli altri a Banfi [2009], Caponio [2009], Zanfrini, Asis Maruja [2006], Vianello [2009].

[26] Vi sono, anche riguardo tale ambito, delle differenze fra le due collettività di immigrate, dal momento che la presenza ucraina resta prevalentemente femminile, mentre i flussi migratori provenienti dalle Filippine si sono nel tempo riequilibrati per genere e successivamente a un aumento considerevole di nuclei familiari e minori.

[27] Tali difficoltà possono essere intrecciate alle condizioni lavorative, alla regolarità giuridica, alle reti presenti sul territorio, ma anche, all’organizzazione dei servizi o all’attenzione degli operatori sanitari per le specificità dell’esperienza e dei vissuti in ambito migratorio e per le dinamiche relazionali.

[28] Ampio, per altro, è il dibattito inerente il concetto di integrazione, considerato dinamico, per certi versi “controverso”, polisemico, multidimensionale. Per approfondimenti si rimanda fra gli altri ad Ambrosini [2011]; Miranda, Signorelli [2011]; Zincone [2000], Caponio [2009].

[29] E’ stato possibile riscontrare, inoltre, dalle interviste condotte alle immigrate, come la dimensione lavorativa, centrale nelle esperienze migratorie di donne di queste nazionalità, influisca considerevolmente anche sui loro percorsi e vissuti inerenti la gravidanza ed il parto.

[30] Gran parte delle intervistate di entrambe le nazionalità, in ogni caso, considera in maniera positiva le possibilità offerte dai principi universalistici della sanità in Italia, pur riconoscendone le criticità. Sono emersi, inoltre, nel corso delle interviste, episodi legati a pregiudizi o stereotipi considerati, comunque, eventi sporadici ed eccezionali.

[31] Si fa qui riferimento a statistiche nazionali e locali, fra le quali quelle dei consultori (dati dell’ Asl Napoli 1 e dell’ ASL Area Nord Ovest- Ambito Pisa, relativi al 2015). Le donne che provengono dall’Ucraina e dalle Filippine, inoltre, non sono considerate, un’utenza problematica da un punto di vista relazionale, come è stato riscontrato dalle interviste condotte a medici e operatori sanitari.

[32] Ciò può ricollegarsi anche ad una cultura diffusa legata alla prevenzione nel paese di origine [Intervista a J. mediatrice interculturale, Napoli, 2016]

[33] Il campione delle immigrate ucraine intervistate a Pisa e a Napoli è eterogeneo da un punto di vista lavorativo, abitativo e familiare. Include, infatti, donne più o meno giovani, impiegate come “badanti”, in attività part-time, disoccupate, o che hanno intrapreso percorsi di mobilità occupazionale (come mediatrici interculturali o giovani madri impegnate in attività di web marketing).

[34] Dalle interviste sono emersi i segnali di mutamento delineati dagli studi più recenti [Conti, Bonifazi, Racioppi, 2016; Conti, Bonifazi, Strozza, 2016]. Ai percorsi di donne più adulte, partite in seguito alla crisi, con progetti migratori temporanei, infatti, si affiancano quelli di migranti più giovani, impegnate in attività part-time, che possono avere un nucleo familiare in Italia.

[35] Una differenza emersa fra i due contesti di indagine attiene al fatto che le donne intervistate a Pisa, per la loro salute femminile, ricevono periodicamente lettere di invito ad eseguire screening dall’ASL e fanno ricorso, per lo più, ai servizi territoriali e ai consultori. A Napoli possono invece, preferire in misura maggiore medici privati. Molto dipende, in ogni caso, dalle condizioni lavorative.

[36] Vianello riprendendo alcune categorie elaborate da Spanò e Zaccaria [2003], distingue tre profili: le migranti “in transito”, che percepiscono la migrazione come un evento temporaneo, quelle “permanenti”, che hanno invece intrapreso percorsi di stabilizzazione nel contesto migratorio e quelle “sospese” che hanno deciso di far rientro nel paese di origine [Vianello 2009, 137 – 161].

[37] Si può ritenere che alle traiettorie, alle tipologie, ai modelli migratori prevalenti, individuati fra immigrate di questa nazionalità [Vianello 2009; Spanò, Zaccaria 2003], si possano ricollegare diverse problematiche nell’approccio con i servizi sanitari. Ciò nella consapevolezza che le situazioni, nella realtà, possano travalicare tali categorie ed essere più articolate e complesse.

[38] Si rimanda al paragrafo precedente.

[39] Si può, in tal caso, far riferimento al concetto di “domesticità utilizzabile”, elaborato dall’ antropologo Ernesto de Martino e ripreso da Signorelli nelle sue analisi e riflessioni in ambito migratorio. Per approfondimenti si rimanda a Signorelli [2006].

[40] L’accesso ai servizi sanitari, così come i racconti relativi a parto e puerperio, sono invece meno problematici qualora le donne abbiano una rete familiare presente sul territorio, come è emerso nel corso delle interviste.

[41] L’esperienza di Av., così, rientra nel dibattito, attuale, inerente i diritti di cittadinanza delle seconde generazioni e lo Ius Soli.

[42] Ciò nel rispetto delle normative relative a questo ambito.

[43] Il campione delle immigrate filippine intervistate a Napoli e a Pisa coinvolge donne con situazioni eterogenee da un punto di vista lavorativo, abitativo o familiare. Esse sono, in ogni caso, per la maggior parte sposate, impiegate nell’ambito della collaborazione domestica, nell’assistenza o come baby - sitter. In gran parte hanno figli che vivono con loro o alle volte, nel paese di origine.

[44] Per le difficoltà linguistiche di Mo., l’intervista è stata svolta in lingua inglese. La donna comprende infatti abbastanza l’italiano ma ha difficoltà ad esprimersi ed a parlare. Il su percorso migratorio inoltre è singolare, poiché ha raggiunto il marito, emigrato in precedenza ed intrapreso un percorso di mobilità occupazionale. Attualmente, infatti, lavora a Napoli come insegnante di inglese.

[45] Poco problematiche, possono essere ad esempio, le situazioni ed i percorsi di accesso ai servizi sanitari di donne filippine che hanno sposato uomini italiani, come è emerso nel corso delle interviste.

[46] Alcune indagini hanno, per altro, evidenziato come l’associazionismo abbia svolto, fin dagli anni ’70, un ruolo determinante nei percorsi migratori di persone di questa nazionalità, fornendo ausilio e sostegno. Si rimanda per approfondimenti a Greco [2004]; Zanfrini, Asis Maruja [2006].

[47] Tali differenze sono state confermate sia delle interviste che dai dati sanitari. Le immigrate filippine, infatti, fanno ricorso ai consultori della città di Pisa, in maniera più significativa rispetto a quanto avviene a Napoli anche grazie alle lettere che periodicamente ricevono per lo screening.

[48] Gran parte delle intervistate, in ogni caso, valuta in maniera positiva il sistema sanitario italiano, per il principio universalistico su cui si basa, che lo differenzia dal sistema sanitario filippino, di stampo privatistico. Una valutazione particolarmente positiva sia delle dimensioni relazionali, che dei servizi sul territorio è emersa, soprattutto, a Pisa.

[49] Una indagine condotta da I.S.M.U. a Milano ha riscontrato fra immigrati filippini, un ridotto utilizzo dei servizi socio – sanitari, evidenziando come i bisogni di cura siano “affrontati autonomamente”, ricorrendo a strategie transnazionali e alla medicina tradizionale. La scarsa visibilità sarebbe caratteristica, così, anche dei comportamenti in ambito sanitario [Affronti, Geraci, Russo, 2012, 231].

[50] Alcune immigrate hanno raccontato a riguardo, nel corso delle interviste, che erbe mediche si coltivano negli stessi giardini di casa. Tale approccio alla salute si affianca ad un sistema sanitario organizzato su principi privatistici e pertanto, molto oneroso.

[51] Nelle Filippine il ricorso a pratiche mediche tradizionali è stato anche riconosciuto dallo Stato e normato da leggi apposite come quella del 1997, nota come TAMA (Traditional and Alternative Medicine Act)

[52] Ampalaya è in realtà un frutto.

[53] E’ emblematico come non sia prevista, né a Napoli, né a Pisa presso i servizi sanitari, la figura di una mediatrice interlinguistica o interculturale di origine filippina. La mediazione, così, è prevalentemente informale e legata alle attività volontarie di familiari o di connazionali che sono in Italia da più tempo, realizzandosi, sovente, nell’ambito delle reti associative.

[54] Ciò nei limiti e nelle possibilità consentiti dalle normative vigenti.

[55] L’intervista a R. si è svolta a Napoli nel 2015. Ci siamo risentite dopo circa due anni e in quest’occasione mi ha raccontato degli ulteriori sviluppi inerenti i suoi percorsi migratori.

[56] Nelle Filippine, al parto in ospedale, oneroso, si affianca quello in casa, diffuso soprattutto nelle zone rurali o fra le fasce popolari meno agiate. La nascita, in tal caso, accompagnata da massaggi tradizionali coinvolge le donne della famiglia, il marito e una levatrice di comunità, “hilot”, che segue la madre anche durante il puerperio [Intervista a ostetrica filippina, Napoli, 2015].

[57] E’ emblematico che nel corso delle interviste alcune giovani immigrate abbiano affermato di preferire il parto nelle Filippine rispetto a quello in Italia, proprio per la possibilità di ausilio di tali network sociali e familiari.

[58] Attualmente nell’arcipelago, accanto al personale medico di formazione occidentale, coesistono le figure dei guaritori tradizionali. Fra questi vi sono “hilot” termine che indica sia l’ostetrica che il tradizionale massaggiatore e corrisponde ad una antica arte filippina di guarigione, e l’ “albularyo” che utilizza, invece, le erbe oltre al massaggio, come riscontrato dalle interviste.

[59] Alcuni studi hanno rilevato come il senso di religiosità delle Filippine sia particolarmente forte e per far riferimento ad esso, in lingua tagalog, si utilizza il terminemakadyos”. Esso si esplica in diversi ambiti [Cuchapin 2000], come in quello medico, in riferimento, ad esempio, a tali figure di guaritori, proprie della medicina tradizionale.

[60] Non tutte le donne intervistate, in ogni caso, analogamente alle immigrate ucraine, fanno riferimento a rimedi erboristici o tradizionali, come è stato possibile constatare soprattutto, nel caso di coloro che sono in Italia da molti anni e sono magari, sposate a uomini italiani.

[61] Tale aspetto non è stato qui approfondito ulteriormente, oltre che per questioni di economia di spazio, anche per il fatto che ciò non rientrava fra gli obiettivi di questo intervento.

[62] L’agency, concetto attorno al quale ruota un ampio dibattito, rimanda come ha evidenziato Ranisio alla relazione fra cultura, linguaggio e società [Ranisio, 2012, 36] e alla capacità individuale di “dare significato ad eventi e rappresentazioni, accogliendoli o rifiutandoli per adattarsi o resistere” [Fabietti 2011, 200].