Stampatori del sacro a Napoli tra Ottocento e Novecento

Aspetti visivi della comunicazione

Domenica Borriello

Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, Dipartimento di Lettere e Beni Culturali DILBEC, Caserta, Italy

Table of Contents

Stampatori del sacro: Giovanni Russo e... tanti altri
L’identico e il diverso, aspetti della comunicazione visiva sacra
Riferimenti bibliografici

Abstract. This article presents the activity of typographers, lithographers and chalcographers who created sacred images on paper in the nineteenth century and in the first half of the twentieth century in Naples. Public and private collections of sacred prints and pictures on paper are analyzed here, along with the indications reported by the Naples trade guides during the period examined. In this way, families of «sacred printers» succeeded in time have been identified. The author focuses on other aspects, such as serial visual communication or related to the skills of the various families of Neapolitan printers. Particular attention is also paid to the figurative details placed in relation to local times and specificities that have contributed to make the visual communication and the diffusion of such images rich in the central and southern part of Italy.

Keywords. Sacred prints; sacred pictures on paper; typographies lithographs and calcographs of Naples; visual communication.

Stampatori del sacro: Giovanni Russo e... tanti altri

Nel centro storico di Napoli, in una delle sue piazze più note, San Domenico Maggiore, un’antica insegna pubblicitaria testimonia l’attività, ormai cessata, di una ditta oleografica, quella di Giovanni Russo, erede di un sapere e di una tradizione produttiva artigianale e familiare attiva a Napoli già negli anni Sessanta dell’Ottocento. «Articoli di devozione; oleografie e stampe; articoli da ricamo; oggetti diversi»: così indica l’insegna pubblicitaria racchiusa in una cornice di pietra di piperno semicircolare, su uno sfondo di colore rosso. Essa pubblicizzava l’attività prevalente e quelle collaterali di Giovanni Russo[1]. L’iscrizione è per molti una visione sorprendente, poiché richiede un’imposizione dello sguardo: l’insegna pubblicitaria sorge infatti sulla porta d’ingresso della nota pasticceria napoletana «Scaturchio» e, dunque, è offuscata dalla dominante e moderna pubblicità sottostante, quella della pasticceria. Nella ditta di Piazza San Domenico 14 Giovanni Russo produceva e, al tempo stesso, vendeva anche stampe sacre e santini. Egli lavorò sicuramente tra il 1904 e il 1939, come attestano una guida commerciale di Napoli del 1904[2] e un suo discendente, il pronipote Rosario Russo, attuale titolare di un negozio di articoli religiosi sito in via San Biagio dei Librai, poco distante dalla piazza San Domenico[3]. L’attività di Giovanni Russo fu ereditata alla sua morte dal nipote Adolfo (figlio del fratello Vincenzo), assunto presso la ditta già nel primo ventennio del Novecento. Nel 1939, Adolfo rilevò l’attività dello zio paterno e si trasferì in via Valletta. Qui, con lui, lavoravano anche i suoi quattro figli, nel ruolo di rappresentanti della ditta presso noti luoghi di culto del Sud e del Centro Italia. In particolare, vanno ricordati Ugo che assunse la conduzione dell’impresa del padre in anni successivi e Antonio che ancora oggi a ottantasette anni vi lavora con i propri figli. La ditta Russo di via Valletta ha smesso di produrre immagini sacre su carta dagli anni Cinquanta in poi, in seguito ad una più conveniente produzione di nuovi oggetti artigianali di ambito religioso realizzati in plastica. La produzione di immagini sacre su carta è stata affidata, dai Russo della ditta di via Valletta, ad una società milanese che per decenni ha operato utilizzando il nome della famiglia Russo[4]. Negli anni Sessanta del secolo scorso, sotto la direzione di Ugo Russo (uno dei quattro figli di Adolfo) la fabbrica di via Valletta si è ampliata e si è convertita nella produzione specializzata di articoli religiosi anche personalizzati: stellari[5] in plexiglass, medagliette in argento con incisioni, foto votive impresse su legno...

Dagli anni Ottanta del Novecento sono dunque attivi, a Napoli, due nuclei della famiglia Russo discendenti di Adolfo: i nipoti figli di Ugo che gestiscono due negozi in via San Biagio (il primo sotto la denominazione «Russo» e il secondo con l’insegna a nome «Rinaldini») e i due nipoti figli dell’anziano Antonio che gestiscono la società di vico Nicola Valletta intestata ufficialmente a Roberto Russo, come indica un passo della pagina pubblicitaria disponibile alla consultazione online:

Fabbrica di articoli religiosi. Ditta Roberto Russo s.n.c.[...] Fondata nel 1939 dal nonno Adolfo e negli stessi locali di allora, si continua per la terza generazione con un'attività che, con l'esperienza acquisita in tanti anni ci ha resi un'azienda che è un punto di riferimento per clienti italiani e stranieri [...] La nostra produzione è articolata in vari settori, quella specifica per Santuari, quella dedicata a oggetti ricordo per celebrazioni sacramentali, premiazioni, beatificazioni, canonizzazioni, ecc. o quella specializzata per il Natale o ricorrenze particolari[...] [http://www.dittarobertorusso.it,1].

Giovanni e Adolfo Russo hanno gestito una consistente produzione sacra a stampa (stampe sacre e santini), intensa ancora nel periodo fascista e successivamente, anche nel corso della seconda guerra mondiale, quando nella loro ditta vi lavoravano anche ragazze addette a ritagliare le immagini stampate in litografia e a cesellarle a mano; « mio padre Adolfo ha continuato a lavorare anche durante la guerra e con i locali requisiti dai tedeschi», ricorda con orgoglio suo figlio Antonio[6]. Sono ancora oggi molto diffusi, presso i mercati dell’antiquariato o presso collezionisti, i santini e le stampe della prima metà del Novecento impresse con il nome della ditta Russo, da Giovanni fino agli anni Trenta e, successivamente, da Adolfo. Nel tempo, la produzione si è adeguata alle esigenze e all’ideologia della committenza, non sempre ecclesiastica, come testimonia chiaramente un santino prodotto da Giovanni Russo che ritrae una nave da guerra in navigazione, aerei da combattimento e soldati italiani in guerra, alla conquista della Libia. Il santino raffigura lo sbarco dei soldati che sventolano la bandiera della Libia italiana, il tricolore con lo stemma reale bordato di azzurro e sovrapposto sul bianco, mentre dall’alto Cristo proteggere i militari e sacralizza la guerra voluta dal regime. L’immagine sacra diviene, in tal modo, un veicolo di preghiera per i familiari dei militari ma anche un oggetto dal potente valore apotropaico per ciascun soldato che lo ha con sé: «con te Gesù vittorie e trionfi. Dio ti protegga», è indicato sul recto dell’immagine; significativo, tuttavia, è soprattutto il testo stampato sul verso del santino che indica un’attività produttiva artigianale seriale e funzionale, inevitabilmente al servizio di una committenza di regime che ha utilizzato, con il consenso ecclesiastico, anche la produzione sacra quale potente mezzo di diffusione della propria ideologia, nonché di manipolazione della realtà[7]. Il testo di seguito riportato è in tal senso significativo, soprattutto se collocato nell’ambito di una tipologia produttiva che potremmo definire popolare per alcune sue caratteristiche in parte già evidenziate, come la serialità e la funzionalità:

O Gesù Trionfatore della morte e amante della Patria, che redimesti le anime col tuo Sangue per salvarle, benedici l’Impero che abbiamo conquistato per donare la tua fede a quelle anime e abolire la schiavitù. Donaci sempre il tuo aiuto perché difendiamo la tua Chiesa con la sua civiltà e siamo pronti a morire per la tua fede come per la Patria nostra, che ti adora, ti ama e difende la pace dei popoli nel regno della tua giustizia per unire tutti nel tuo Nome e nel tuo Amore. Così sia. Con approvazione ecclesiastica. Prem. Ditta Giovanni Russo Piazza S. Domenico Maggiore – Napoli

Se esaminiamo ancora altri prodotti su carta risalenti al Diciannovesimo secolo, come le stampe della nota raccolta di Vittorio Imbriani[8] troveremo tra queste, ancora il cognome dei Russo: un certo Luigi Russo aveva una bottega nella «Strada s. Biagio dei Librai n. 5» e stampava libretti popolari a basso costo dalle tematiche varie, liriche, epiche, derisorie e devozionali corredate da immagini esplicative: il

« Contrasto e disputa di due pueti con proposta, e Risposta dell’uno, e dell’altro con molte cose redicolose da indovinare» lo indica attivo nel 1869, mentre un altro libretto dedicato alla storia della Sacra Famiglia in fuga verso l’Egitto, racconta dell’incontro tra quest’ultima con una zingara dalle capacità predittive che offre ospitalità nella sua casa, alla Vergine, al Bambino e a san Giuseppe[9]. Il libretto non rilegato, realizzato «a spese di Luigi Russo di Napoli, via s. Biagio dei Librai 5» testimonia chiaramente l’attività di Luigi Russo quale produttore di piccoli opuscoli di ampia diffusione che riportavano racconti di facile circolazione presso le masse popolari o che traevano ispirazione da personaggi della tradizione orale e da altri ancora che ricoprivano ruoli specifici nella diffusa ritualità popolare, come quella calendariale legata al Natale o alla settimana santa. Ancora oggi infatti la figura della zingara è presente nel presepe napoletano come lo era in quello dell’Ottocento. Nel presepe essa può avere una duplice raffigurazione: è il personaggio che ha con sé simbolici chiodi, perché con questi preannuncia la futura Passione di Cristo ma la sua identità può essere anche quella di una donna, la Stefania, che reca in braccio un bambino in fasce. Nel presepe, la sua storia è, non a caso, ricollegabile ad una leggenda[10]. Al tempo stesso, la zingara è anche uno dei tanti personaggi protagonisti delle sacre rappresentazioni viventi che si svolgono tuttora il venerdì e il sabato santo, come quelle dell’area del Vulture, in Basilicata: qui, adorna di vistosi gioielli, la zingara procede liberamente nel percorso processionale rituale, recando in mano un cesto colmo di chiodi e ferri, per ricordare, secondo una tradizione orale, la sua profezia sul futuro martirio di Cristo; secondo un’altra testimonianza, al contrario, essa ha con sé i chiodi, perché li procurò ai soldati romani per lasciare crocifiggere Gesù.

Calcografia Luigi Russo. Fonte: Raccolta Vittorio Imbriani. Napoli, Biblioteca Universitaria

Calcografia Luigi Russo, secolo XIX, seconda metà. Fonte: Raccolta Imbriani, Napoli, Biblioteca Universitaria

Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, nel 1886, Augusto Lo Gatto ha segnalato nell’elenco dei litografi e dei calcografi di Napoli e provincia[11] la presenza di un altro litografo con cognome Russo, Salvatore Russo, con bottega in vico San Filippo e Giacomo 10, a pochi metri dalla più nota via San Biagio dei Librai.

È evidente che la famiglia Russo con le sue diverse discendenze e ramificazioni familiari ha una tradizione lavorativa di vecchia data nel settore della produzione a stampa, come altre famiglie impegnate in un’analoga attività tra Ottocento e Novecento.

La storia di Giovanni e di suo nipote Adolfo Russo, con i loro antenati litografi e calcografi, con gli eventi che hanno caratterizzato la vita delle loro ditte e con le diverse tipologie di articoli di devozione realizzati e venduti assieme alle immagini sacre a stampa, può essere assunta come rappresentativa di una specifica attività produttiva napoletana vivace e attiva nel centro storico della città di Napoli già nella prima metà del Diciannovesimo secolo, specializzata in quell’epoca, oltre che nella produzione e stampa di libretti popolari a basso costo, da un’altra specifica tipologia di prodotti stampati su carta non rilegata, come i fogli volanti, le canzonette, i giochi di ampia diffusione, come quelli presenti nella Raccolta Imbriani, o i santini e le stampe sacre. Nel Novecento, dagli anni Cinquanta in poi, molte ditte litografiche ed oleografiche sono scomparse[12], se non ridimensionate o costrette dalle «leggi» del mercato a sopravvivere, riciclandosi, come è accaduto agli eredi di Giovanni Russo, nella produzione e nella vendita di altre tipologie produttive legate all’artigianato devozionale, su richiesta di committenti attivi soprattutto nei luoghi di preghiera e di devozione. L’attività delle piccole tipografie, delle litografie, delle tipolitografie e delle oleografie napoletane[13], spesso a conduzione familiare, che hanno operato per lo più nel centro storico di Napoli dalla seconda metà dell’Ottocento fino all’epoca fascista, è stata poco documentata da studi scientifici, orientati soprattutto nell’approfondimento di notizie riguardanti la produzione dei tipografi di maggiore fama come «Francesco Wenzel» attivo nella prima metà del Diciannovesimo secolo o, successivamente, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, le ditte «Richter & C» e «Dolfino»specializzate in lavori di stereotipie, oleografie, rilegature, disegni su pietra, incisioni[14].

Questa vivace realtà produttiva era presente anche nelle città di Venezia, di Milano, di Roma, di Palermo, di Messina, di Catania[15] ma a Napoli, come in Sicilia, era per la maggior parte costituita da minute imprese artigianali spesso non censite ufficialmente[16]. La produzione ha qui investito nel tempo anche rami diversi di un originario nucleo familiare. La sede lavorativa poteva mutare anche sotto la direzione di uno stesso titolare, ma più spesso, nella trasmissione della società da una generazione all’altra. In alcuni casi, più fratelli erano coinvolti nella medesima attività, lavorando in collaborazione ma talvolta anche separatamente, ciascuno con la propria sede. Tra i produttori della seconda metà dell’Ottocento, cominciano ad emergere specializzazioni di genere. In questo secolo, già negli anni Quaranta, il tipografo Azzolini, ad esempio, era particolarmente abile nella produzione e distribuzione dei testi di nuove canzoni; Salvatore Di Giacomo ha ricordato la sua valentia nello stampare soprattutto nuove canzoni nella bottega di via Gerolomini n.10: «l’Azzolini acquistava la proprietà dei versi compensando il poeta con sei carlini e offrendogli un migliaio di copie della canzone stampata. Ne distribuiva il resto ai venditori ambulanti e costoro popolarizzavano la canzone» [Di Giacomo 1994, 198]. Avallone, con la sua tipografia sita presso il palazzo Vicaria Vecchia a Forcella, al n. 24, amava dedicarsi alla produzione di stampe sacre ma anche di giochi su carta, come attesta la Collezione Imbriani. Per molti produttori di immagini sacre la committenza si estendeva anche nel Centro-Sud d’Italia, in particolare, in Sicilia, come mostrano stampe napoletane del XIX secolo esposte nel Museo Etnografico Giuseppe Pitrè di Palermo che raccoglie più di settecento stampe devote provenienti dalla collezione di Pitrè[17], da quella di Giuseppe Cocchiara (direttore del Museo dal 1935 al 1965) e da altri raccoglitori non identificabili. Tra le stampe devozionali del museo etnografico siciliano, sono ricorrenti quelle prodotte da alcuni tipografi di Napoli specializzati in tale produzione: «G. Lo Santo», «F. Apicella», «F. e S. Scafa»[18]. Giuseppe Cocchiara ci ha fornito una testimonianza del ruolo svolto in Sicilia dai centri di produzione napoletana e dai traffici di immagini sacre con la città di Palermo: «molti tipi di stampa giunsero in Sicilia direttamente da altri centri: soprattutto da Napoli [...] L’Apicella dovette godere di una certa rinomanza in Sicilia se a lui [...] veniva commissionata la stampa di San Sebastiano da Melilli» [Cocchiara 1982, 5-6].

In realtà le produzioni di Francesco Apicella e quelle della famiglia Scafa sono note soprattutto per la particolare e ricorrente vivacità comunicativa dei colori spesso utilizzati anche come sorta di macchia per attirare l’attenzione sui dettagli delle figurazioni.

Santa Maria dell’Arco, litografia acquerellata di Francesco Apicella, XIX secolo, ultimo trentennio. Fonte: Santuario Madonna dell’Arco (NA)

Non sempre le immagini sacre erano realizzate in un contesto lavorativo fondato sulla specializzazione delle competenze; per la creazione di fogli di grosso formato occorrevano, generalmente, diverse figure professionali: dal disegnatore al litografo che stampava la parte figurata, al tipografo che aggiungeva i testi, al coloritore che le acquerellava a mano ma la produzione di stampe sacre a basso costo, come quella destinata ad una ampia circolazione e a una fruizione di massa veniva prodotta in una sola bottega, spesso con l’ausilio di giovani apprendisti, per risparmiare sui tempi e sui costi della produzione. Anche a Napoli, come in Sicilia, gli stampatori del sacro del XIX secolo furono attenti a realizzare immagini gradite a un pubblico di massa e ad una committenza non esclusivamente legata a quella ecclesiastica. Come gli «stampasanti» siciliani, anche gli stampatori napoletani furono «sempre più vicini alla committenza popolare, meno legati ad esigenze di carattere estetico e se mai preoccupati di ridurre ciascuna immagine nelle sue linee compositive essenziali ai fini di produrre un maggiore numero di opere nel più breve tempo possibile»[19]. L’effetto comunicativo, tuttavia, fu sempre una finalità perseguita anche all’epoca; ciò motivava l’uso del colore quale elemento attrattivo o di ausilio alla memoria, ma anche con il valore e la funzione di attributo del personaggio sacro raffigurato: i colori venivano spesso utilizzati con uno scopo ben preciso, riconducibile all’universo simbolico del mondo popolare. Occorre ricordare che nell’Ottocento e nella prima metà del Ventesimo secolo, il successo delle stampe devozionali di grosso o medio formato presso diffusi ambiti sociali, è stato legato in parte al basso costo rispetto ad altre raffigurazioni su tela, su vetro o su altro supporto; esse infatti risultavano facilmente collocabili in ambienti domestici come parte integrante dell’arredo della casa e circolabili agevolmente. Va ricordato a riguardo il ruolo di propaganda, l’incidenza e la funzione di divulgazione svolte nel tempo dai diversi ordini religiosi che hanno contribuito all’ampia produzione delle stampe e dei santini in serie, favorendo la loro circolarità anche attraverso l’attività dei frati questuanti, ma va indicata anche e soprattutto l’attività di divulgazione esercitata dai cantastorie nei diversi contesti geo-culturali legati al proprio lavoro[20] o dai venditori ambulanti che giravano per le fiere dei paesi. Diversa era la realtà per la produzione dei santini manufatti (collage di lustrini, di carta, di stoffa o di fiori secchi, artistici ricami e intagli con temperino a lama stretta, trafori ad ago o teatrini), destinati ad una differente circolarità ed occasione d’uso, confezionati spesso presso i conventi[21]. Anche a Napoli, la popolarità di tali produzioni va riferita, come ha puntualizzato Antonio Cusumano per la produzione siciliana, «soprattutto all’ambito sociale di prevalente diffusione, non essendo di per sé connessa a fatti culturali specifici ed esclusivi a determinati ceti»[22]

Utili fonti per familiarizzare con gli stampatori napoletani del sacro sono le stesse immagini sacre d’epoca custodite presso collezioni private e pubbliche che recano spesso anche indicazioni utili per identificare i produttori e le loro sedi[23], ma lo sono anche le guide di commercio «storiche» pubblicate a Napoli dalla metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento fino al primo decennio del Novecento[24]. Un incrocio tra le due diverse fonti consente di delineare un quadro piuttosto chiaro sulla dislocazione degli stampatori del sacro a Napoli tra Ottocento e Novecento e sulle famiglie operanti in quest’ambito nei dodici quartieri in cui era suddivisa la Città[25]. Nella metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento, la guida commerciale di Napoli curata da Giuseppe Genatiempo indica, in tre annate non consecutive (1854; 1856; 1859), una presenza piuttosto diffusa di «tipografie», segnalate tuttavia con i soli cognomi dei titolari delle diverse botteghe artigianali ma con indicazioni sull’abituale luogo di lavoro: via e numero civico o nome dell’edificio presso il quale era ubicato il laboratorio. In queste annate sono registrate complessivamente, ben 251 tipografie, ma non appaiono ancora ulteriori indicazioni circa specifiche competenze di genere. Di interesse, la distribuzione delle tipografie nei diversi quartieri e la loro maggiore concentrazione in specifiche aree della città, come a San Lorenzo dove erano attive ben 72 botteghe[26]; seguivano poi i quartieri San Giuseppe con 40 tipografi[27] e Avvocata con 31 officine tipografiche[28]. In questo periodo, l’attività dei tipografi si concentrava maggiormente nella zona settentrionale della Città, che comprendeva i quartieri San Lorenzo, San Giuseppe e Vicaria. Nella fascia periferica, dove rientrava anche il quartiere Avvocata, le tipografie erano qui maggiormente presenti rispetto agli altri quartieri della medesima area periferica: nel quartiere Stella le guide commerciali segnalavano solo 13 tipografie e ancor meno, quattro, a San Carlo all’Arena; nell’ultimo quartiere della zona periferica, Chiaia, non risultava alcuna attività tipografica. Va ulteriormente indicato che nella città dell’epoca l’area settentrionale, che comprendeva gran parte del centro storico, era a struttura residenziale e con una consistente presenza di un ceto agiato costituito da proprietari, da impiegati e da esponenti di professioni liberali, mentre la zona periferica che non includeva i quartieri del centro storico, vedeva la prevalenza di un ceto medio che inglobava piccoli proprietari, impiegati e artigiani[29]. Negli elenchi delle tre annate commerciali degli anni Cinquanta, ritroviamo due tipografi che produssero immagini sacre, tra quelli a noi ormai familiari: «Azzolini e Avallone»[30] . Negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, per le attività e le specializzazioni di settore abbiamo indicazioni più dettagliate: accanto alla voce «tipografie», troviamo anche «litografie, calcografie ecc.», «tipolitografie».

Negli anni 1904-1905 l’Annuario Lo Gatto fornisce ancora altre indicazioni: «stampe, oleografie, quadri e cornici»; è interessante riscontrare ancora che fin dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, l’informazione pubblicitaria «Immagini sacre» appare accanto al cognome e al nome dei titolari di alcune botteghe. Negli ultimi vent’anni del XIX secolo compaiono i nomi di membri della famiglia Lo Santo, «Lo Santo Gennaro» e «Lo Santo Vincenzo», ma anche «Ricciardi Francesco», «Gaetano Scafa» e «Sutera Ignazio» sono segnalati con continuità tra gli stampatori specializzati nella produzione di immagini sacre. Nei primi anni del Novecento, al nome di Gaetano Scafa che aveva bottega in via San Biagio, si affianca anche quello di un familiare, Pasquale, in vico Nilo 17, a poca distanza da via San Biagio; tuttavia, una stampa raffigurante San Vincenzo Ferreri ci indica ancora un altro nominativo: un certo Francesco Scafa attivo nel 1817 in via san Biagio 117; un’ulteriore stampa, dedicata alla Madonna di Montevergine, è attribuibile alla seconda metà del XIX secolo e attesta un’attività congiunta da parte dei «Fratelli Scafa san Biagio 109». Il confronto tra la fonte pubblicitaria e quella iconografica è di interesse, non solo per eventuali identificazioni dell’epoca di appartenenza delle stesse immagini sacre ma soprattutto perché ci restituisce un quadro piuttosto composito della produzione di santini e stampe, caratterizzato, con ricorrenza, da saperi tramandati nel tempo ma anche da separazioni familiari o al contrario, da collaborazioni periodiche e da ricorrenti mutamenti delle sedi di lavoro o vendita, ubicate tuttavia sempre nella medesima area commerciale. Francesco Apicella, ad esempio, è indicato nelle guide di commercio come specializzato nella produzione sacra e collocato tra il 1881 e il 1905, in via san Gregorio Armeno 38 (una storica via perpendicolare a San Biagio); alcune stampe attribuibili al XIX secolo, testimoniano, al contrario, una sua attività in via San Biagio 38 o 39.

Logo pubblicitario della tipografia napoletana De Angelis & figlio. Fonte: Annuario Commerciale Bronner a. 1880. Napoli, Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III

Altri stampatori specializzati e pubblicizzati come tali tra il 1904 e il 1905 furono «Visciani Gennaro», «Palumbo Giuseppe» e «Altavilla Francesco». L’attività di quest’ultimo è segnalata sulle guide di commercio in via San Gregorio Armeno 38, ma alcune produzioni di epoca successiva, indicano l’attività di un suo probabile familiare esperto anche nella produzione delle prime fototipie, «G. Altavilla», con sede nella vicina via Duomo. Le fonti visive ci restituiscono ancora ulteriori nominativi di produttori del sacro non segnalati nelle guide di commercio, come «Francesco Rinaldini» che con i suoi familiari ha realizzato, in Vico Figurari e in via San Biagio, interessanti immagini di devozione dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta. Possiamo ancora ricordare «P. Morrone» e «Antonio Colecchio», con sede sempre in via San Biagio[31].

L’identico e il diverso, aspetti della comunicazione visiva sacra

Un aspetto connotante l’attività degli artigiani del centro storico napoletano nel periodo esaminato fu, come più volte abbiamo indicato, certamente la produzione sacra realizzata in serie e a costi limitati; di non minore rilevanza fu anche la loro abilità nel rendere riconoscibili soggetti e pratiche rituali da divulgare. I soggetti iconografici raffigurati sulle immagini stampate in questo periodo erano imposti dall’alto, in stretta relazione con le esigenze divulgative e ideologiche della committenza, prevalentemente ecclesiastica. Tuttavia, le differenze stilistiche e semiologiche si accentuarono maggiormente proprio nell’Ottocento per il tipo di carta usata, per le modalità di incisione, per la scelta e le tecniche dei colori, per la presenza o assenza di un testo scritto, per l’ornato e i fregi che connotarono la produzione come destinata ad una fascia sociale di utenza piuttosto che un’altra. Nelle stampe e nei santini prodotti nel centro storico di Napoli l’uso dello spazio figurativo ha avuto una sua rilevanza sul piano della comunicazione: la superficie destinata alla raffigurazione del personaggio sacro non si riduce a favore di una marginatura tecnicamente molto elaborata, come nelle produzioni destinate a ceti sociali elevati e la comunicazione visuale non punta alla evidenziazione concettuale e alla ricorrente formulazione in termini allegorici ma, al contrario, è consistentemente occupata dal soggetto sacro e prevalgono l’elemento narrativo e l’immediatezza della comunicazione. Spesso, infatti, in appositi riquadri ai margini della raffigurazione oppure sullo sfondo del personaggio sacro centrale sono illustrati i miracoli e gli episodi salienti della sua vita, ma si possono cogliere anche riferimenti a eventi eccezionali o magico-religiosi, spesso tratti dai racconti apocrifi o da tradizioni orali locali legate al contesto geografico e culturale dell’area di diffusione cui era destinata l’immagine sacra. L’efficacia della comunicazione è stata ulteriormente rafforzata dai testi didascalici che hanno integrato gli eventi visivamente raccontati ma anche da preghiere e invocazioni stampate sul verso. Nell’esecuzione del prodotto è prevalsa una sorta di rozzezza ed elementarità dell’esecuzione: i protagonisti delle immagini sono raffigurati in modo schematico e, talvolta, anche con una ieratica fissità che ricorda l’iconografia bizantina ma tuttavia si coglie con ricorrenza una corposità, una fisicità nella rappresentazione dei personaggi e nella loro gestualità che risultano pertanto non eterei ma, al contrario, vicini al mondo socioculturale cui l’immagine era destinata. L’elemento narrativo è stato raffigurato con ricorrenza e visivamente espresso con un’operazione di selezione e di «pertinentizzazione»: solo alcuni caratteri di ciò che doveva essere rappresentato e comunicato venivano riprodotti nei segni visivi, in quanto giudicati più pertinenti a discapito di altri meno funzionali ad un certo scopo comunicativo. In queste raffigurazioni è essenziale, più che la plasticità artistica, un simbolismo volto a segnalare la specificità taumaturgica del personaggio; in tal senso, anche l’uso del cromatismo ha avuto un suo significato, poiché i colori sono stati utilizzati con scopi precisi. Nelle immagini prodotte nulla è casuale o casualmente reso. Le stampe destinate ad un «pubblico essenzialmente popolare», ha precisato Davide Bertolini, sono certamente riconoscibili:

La costruzione delle immagini è essenziale e sintetica, le linee sono semplificate, le figure appaiono forti nella capacità comunicativa ma deboli nel volume plastico denunciando come le preoccupazioni degli autori fossero dirette a ricercare un effetto generale dove il valore icastico dell’immagine prevalesse nettamente su quello estetico [Bertolini 2008, 8]

Pur possedendo un suo valore, il canone estetico ha avuto in questo tipo di produzione d’epoca certamente minore rilevanza rispetto ad altre funzioni pratiche prevalenti. Il valore del canone estetico, ha precisato a riguardo Gabriella d’Agostino in una sua riflessione sui simboli nell’arte figurativa siciliana, è inversamente proporzionale al grado di innovazione che esso comporta. «Dunque quanto più un canone estetico è nuovo, tanto maggiori sono gli ostacoli che si frappongono alla sua comprensione e tanto più effimero può essere il suo successo nel fronteggiare e nel sostituire un canone estetico tradizionale [...] in generale [...] la gerarchia dei canoni estetici è in diretta relazione con quella dei diversi strati sociali» [D’Agostino 1991,133][32]. La precisione nella realizzazione del prodotto non era dunque un requisito rilevante per questi artigiani del sacro, poiché il valore estetico non aveva una ricaduta vantaggiosa sul piano economico, né su quello del culto. La produzione seriale, limitatamente inventiva sul piano estetico risultava dunque non solo vantaggiosa dal punto di vista dei costi di produzione ma anche utile alla comunicazione di massa dell’epoca:

Si può dire che l’arte di destinazione popolare tende alla riproduzione dell’identico di là delle tecniche che la rendono possibile ed economicamente vantaggiosa [...] nelle immagini la ripetizione del modello figurativo considerato sacro viene a rendere tecnicamente possibile un’autonoma tendenza della tradizione: la moltiplicazione dell’identità [Petrarca 1991, 230].

Nel processo comunicativo della produzione seriale a stampa dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, la moltiplicazione dell’«identico» ha trovato espressione nella riproduzione di alcuni cliché figurativi che si sono affermati nel tempo, come quelli collegati alle leggende di fondazione di un culto: tali leggende «spiegano» la costruzione di un edificio sacro o la nascita e la diffusione di una devozione. Nei modelli figurativi le «leggende di fondazione» sono solitamente espresse con i loro motivi narrativi più rilevanti, ma talvolta anche interamente raffigurati; altre volte esse sono narrate secondo specifiche modalità poste in relazione all’evento più significativo della narrazione, ai personaggi prescelti dal Sacro per manifestarsi, ai luoghi presso i quali il protagonista viene ritrovato o appare ma anche solo attraverso simboli, in riferimento a motivi narrativi determinanti per la fondazione o la connotazione del culto[33].

La serialità, o moltiplicazione dell’identico, si coglie, nelle sue modalità figurative, anche e soprattutto negli attributi che aiutano ad identificare con precisione i personaggi sacri. Tale processo, tuttavia, si è attuato non senza comportare, di volta in volta, differenze rispetto ai cliché dei modelli colti imposti dalle varie committenze. I personaggi da rappresentare devono infatti risultare essenziali e taumaturgicamente efficaci per essere riconoscibili nel processo di circolazione: alcuni attributi possono essere ritenuti superflui e omessi, altri aggiunti perché più pertinenti al contesto socio-culturale dei produttori e dei fruitori dell’immagine, in un processo fondato sulla essenzializzazione comunicativa[34]. L’attributo qualifica dunque il personaggio sacro e ne specifica il particolare patrocinio che l’agiografia «popolare» gli ascrive, delineandone, ma nello stesso tempo delimitandone, i campi d’intervento. Possono fungere da attributi essenziali gli elementi dell’aspetto, come la barba o un dettaglio dell’abbigliamento, i segni di un morbo e la tipologia o gli effetti di una tortura, gli animali, le piante, gli oggetti retti tra le mani o posti accanto al personaggio sacro, nonché le persone legate ad un prodigio del santo o a un particolare evento agiografico. Può accadere spesso che anche un solo elemento simbolico determini il campo taumaturgico in cui opera un santo; così, ad esempio, un grande cappello ornato da conchiglia diviene il simbolo della protezione di S. Giacomo sui pellegrini, in ricordo di quanti si recavano in pellegrinaggio al santuario di Compostela in Galizia ma, in senso traslato, simboleggia anche il suo patronato sui cappellai; Santa Lucia non potrebbe essere raffigurata senza il vassoio con gli occhi. Essenziali e immediatamente decodificabili sono anche le posizioni delle braccia o delle mani; l’atteggiamento del volto e la direzione dello sguardo, soprattutto nelle immagini a mezzobusto, sono ricchi di significati immediati e simbolici, come il colore utilizzato spesso con valore di attributo[35].

Il processo di raffigurazione del personaggio sacro, con le sue peculiarità che ne rendono riconoscibile l’immagine ed efficaci i suoi poteri, non può tuttavia attuarsi, nell’ambito di una produzione seriale, senza alcuna relazione con i sistemi di rappresentazione socio-culturali di una determinata area, ossia senza il suo patrimonio simbolico, rituale e orale di cui gli stampatori dell’epoca erano in parte consapevoli. Ciò implica in primo luogo che «l’identico» non può essere immutabile nel tempo e non può essere riprodotto sempre a prescindere da quei processi di localizzazione collegabili a nuove richieste delle committenze locali, a specificità ambientali e territoriali, a differenti esigenze generazionali, nonché a quelle espressive e finanziarie degli stampatori del sacro. Nel limitato spazio figurativo può dunque trovare espressione, accanto alla riproduzione dell’identico, propria della serialità, anche quell’elemento figurativo che abbiamo denominato «il diverso», come manifestazione di specifiche esigenze di volta in volta analizzabili e interpretabili. E’ utile ricordare a riguardo, con Janne Vibaek che anche nella produzione seriale c’è spazio per piccole variazioni dalla regola. Ciò che occorre imparare ad apprezzare non è tanto l’identità, quanto le strategie delle variazioni, ossia il modo in cui l’identico viene lavorato per apparire diverso[36]. Va ulteriormente precisato che l’invenzione di un particolare, inserito in un affermato modello figurativo seriale ed espresso come testo didascalico o come dettaglio iconografico, può avere un forte impatto nella comunicazione e può determinare, talvolta, anche il successo dell’immagine nel processo di circolazione e di comunicazione di massa.

Un esempio a riguardo può essere la produzione a stampa relativa al culto per la Madonna Incoronata di Foggia. Un’iconografia ampiamente diffusa ancora oggi la ritrae secondo una modalità affermatasi già nel diciannovesimo secolo con la produzione napoletana di Gaetano Scafa e di Avallone. La raffigurazione si ispira ad una leggenda di fondazione del culto: l’apparizione della Vergine su un albero ad un conte e, successivamente, anche ad un cacciatore.

Maria SS. Incoronata di Foggia. Litografia G. Scafa, sec. XIX. Fonte: collezione U. Maggio

Se confrontiamo alcune stampe prodotte a Napoli nell’Ottocento con altre di epoca successiva realizzate nella seconda metà del Novecento da ditte milanesi, potremo verificare la continuità di una proposta visiva seriale: il medesimo cliché iconografico viene ripetuto, ma si possono osservare anche alcune variazioni che attengono a nuove esigenze espressive e comunicative. Alla tradizionale raffigurazione eseguita da Gaetano Scafa nell’Ottocento, che ritraeva una vergine dal colorito chiaro seduta su un albero, si è affiancata, nella produzione off set di un santino del Novecento, la Madonna sull’albero con il suo Bambino in grembo ma entrambi hanno la pelle scura, in risposta ad orientamenti teologico-promozionali imposti dall’alto; in un’altra cromolitografia del medesimo periodo, troveremo un espediente visivo innovativo dato dalla compresenza di più stereotipi associati in un’unica proposta comunicativa. Nella parte inferiore dell’immagine dedicata alla Vergine ritroviamo anche le raffigurazioni stereotipate di san Michele che sconfigge il demonio e quella di San Nicola di Bari secondo tradizionali riferimenti leggendari: l’espediente interpreta esigenze, linguaggi, funzioni che rispondono ad aspettative collettive «sia nel caso che con esso si miri a pubblicizzare i culti e i luoghi di culto più rilevanti in Puglia o ad ampliare la diffusione e commercializzazione delle stesse immagini, sia che esso risulti specchio inconsapevole di una radicata e condivisa ritualità e oralità» [Borriello 2006, 54].

Dall’ultimo ventennio dell’Ottocento Gaetano Scafa e i suoi familiari hanno dato prova, con la loro attività litografica, di una particolare sensibilità figurativa volta a rafforzare attraverso espedienti visivi sia la forza sovrannaturale del personaggio sacro che aspetti rituali ad esso collegati. Due litografie acquerellate sono a riguardo significative: la prima reca la dicitura «G. Scafa San Biagio 107» e ritrae Michele, l’arcangelo che guidò le schiere angeliche nella lotta contro gli angeli ribelli comandati da Lucifero, annientandoli. Per questo San Michele in Occidente è tradizionalmente raffigurato alato, giovane e bello, secondo un condiviso immaginario collettivo, ma anche armato di scudo, elmo, spada e bilancia, nell’atto di calpestare Satana, ormai sovrastato dalle fiamme degli inferi. Il potere dell’arcangelo Michele e la suggestione scenografica sono qui posti in risalto con una sua raffigurazione tradizionale ma, soprattutto, attraverso l’illustrazione di potenti fiamme che avviluppano non solo Lucifero, bensì altri tre diavoli che soccombono «schiacciati» da san Michele.

San Michele Arcangelo. Litografia acquerellata di G. Scafa, sec. XIX. Fonte: collezione U. Maggio

In un’altra litografia i «fratelli Scafa» pubblicizzarono il pellegrinaggio dedicato alla Madonna di Montevergine (AV), nel riquadro posto in basso a sinistra di una stampa che ritraeva la Vergine insieme ai santi Benedetto e Guglielmo da Vercelli; ancora un altro dettaglio, posto in basso a destra della medesima litografia, lascia intravedere una consuetudine collegata all’omaggio reso alla Madonna di Montevergine: l’acquisto, da parte di un pellegrino, della «nzerta», (una collana di nocciole tostate e private del guscio) ancora oggi confezionata e venduta presso il piazzale del Santuario mariano.

Santa Maria di Montevergine venerata sul monte Partenio (AV). Litografia Fratelli Scafa, sec. XIX. Fonte: collezione U. Maggio

Santa Maria di Montevergine, particolare: un pellegrino con la «nzerta» di nocciole che pende da un ramoscello

Già nel 1817, un altro membro della famiglia Scafa, Francesco, realizzò stampe che pubblicizzarono il potere taumaturgico di San Vincenzo Ferreri, esteso anche alle stesse immagini, come sorta di reliquie idonee ad essere poste sul corpo degli ammalati e a contenere la recita di «preghiere contro ogni male» indicate sulla carta stampata. Per le medesime stampe egli escogitò un ulteriore e singolare espediente attrattivo: l’ammalato e il santo conversavano secondo modalità figurative proprie del fumetto, non ancora diffuso in Italia.

San Vincenzo Ferreri guarisce un infermo colpito ai polmoni e alla milza. Calcografia a bulino, Francesco Scafa, a. 1817

Divulgando l’iconografia di san Paolino, Francesco Apicella puntò sull’elemento attrattivo del colore e sulla raffigurazione della «barca di san Paolino», una maestosa macchina processionale condotta in spalla a Nola (NA) nel corso della «festa dei gigli», raffigurata alle sue spalle. Negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento gli stampatori della famiglia Rinaldini hanno escogitato un nuovo espediente comunicativo per divulgare la particolare taumaturgicità della Vergine della Sanità, nell’omonimo quartiere napoletano: essi hanno fatto ricorso allo schema figurativo di un ex voto pittorico ripartito in due piani, uno superiore destinato alla raffigurazione della Vergine e un altro inferiore che ritrae un ammalato a letto. Nell’immagine così ripartita la Vergine appare dunque infallibile soprattutto nei casi di insperate guarigioni da malattia.

San Paolino vescovo di Nola (NA). Litografia acquerellata di Francesco Apicella, sec. XIX. Fonte: Società Napoletana di Storia Patria

Madonna della Sanità, produzione Rinaldini, sec. XX, prima metà. Fonte: collezione U. Maggio

Nel ricordare anche l’ingente produzione della litografia Morrone può essere utile soffermarsi su una gradevole immagine a stampa di medio formato che raffigura la Madonna di Piedigrotta in processione su un maestoso carro, nel giorno festivo a lei dedicato, l’otto settembre: una folla di devoti di classi sociali differenti assiste al suo passaggio e le rende festosamente omaggio. L’immagine, tuttavia, comunica anche altri contenuti di non immediata «lettura». Attraverso dettagli visuali posti in alto, a destra e a sinistra dello spazio figurativo, ma anche in un angolo in basso si coglie il senso di un severo monito: qui appaiono, in alto, due teschi e, in basso, una donna, un uomo e un sacerdote con un cappello a tre punte: sono anime del purgatorio raffigurate per ricordare che accanto alla gioia e alle emozioni vissute nel giorno festivo, tempo della sospensione rituale del negativo quotidiano, ci sono anche eventi insormontabili da ricordare, come la perdita della vita e il successivo giudizio divino che «livella» ogni stratificazione sociale.

Maria SS. di Piedigrotta. Litografia P. Morrone, sec. XIX. Fonte: Società Napoletana di Storia Patria

Nell’ambito della produzione seriale, l’introduzione del «diverso» come elemento figurativo attrattivo e divulgativo può ricollegarsi anche ai disastri ambientali, ai pericoli corsi dalla comunità dei devoti o a nuove ritualità che gli stampatori di Napoli hanno saputo cogliere ed esprimere. La produzione di immagini sacre dedicate alla Madonna della Neve di Torre Annunziata (NA) offre occasione per un nuovo esempio. Alla fine dell’Ottocento, in Vico Figurari, Francesco Rinaldini ha diffuso immagini sacre di medio e grosso formato con Maria Santissima della Neve raffigurata sovrastante la costa di Torre Annunziata, nell’evidente ruolo di protettrice dei pescatori e dei marittimi ma anche dell’intera comunità. Negli anni Trenta del Novecento la ditta «G. Altavilla» aveva ormai ereditato l’attività svolta da Francesco Altavilla specializzato, lo ricordiamo, nella produzione di immagini sacre, a cavallo tra Ottocento e Novecento[37] e, da tempo, si era trasferita in via Duomo. Nel 1931 sono stati stampati, serialmente, anche da G. Altavilla, santini dedicati alla Madonna della Neve, soprattutto in occasione del venticinquesimo anniversario dell’eruzione del Vesuvio. L’importante vincolo che lega la comunitàdi Torre Annunziata con il mare è chiaramente espresso anche nelle nuove immagini di Altavilla: il luogo di culto e il tabernacolo mariano sono raffigurati, infatti, prossimi al mare, ma diviene visivamente preponderante anche il rischio Vesuvio e il protettorato della Vergine su una comunità esposta più volte al pericolo dell’eruzione vulcanica[38].

Maria SS. della Neve di Torre Annunziata (Na). Litografia Francesco Rinaldini, fine sec. XIX. Fonte: collezione U. Maggio

Maria Santissima della Neve. Santino, cromolitografia di G. Altavilla, a. 1931. Fonte: collezione U. Maggio

Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso la minaccia Vesuvio è un ricordo ormai offuscato dal tempo e l’attività locale non è più prevalentemente collegata al mare; anche le modalità figurative sono divenute meno narrative e le immagini dedicate alla Madonna della Neve, prodotte ormai dagli anni Sessanta in poi da una ditta milanese[39], sono sempre più essenziali. Tuttavia, presso la comunità locale è ancora ampiamente condivisa una ritualità devozionale, come quella di donare alla Vergine oggetti preziosi, ex voto, da condurre in processione insieme all’effigie mariana. In questi anni troveremo, nella produzione a stampa dedicata alla Madonna della Neve, una collana di corallo che le pende dal collo: una raffigurazione che rinvia ad una pratica devozionale eseguita in quegli anni dalla comunità dei naviganti.

Questi esempi pongono chiaramente in evidenza il potere comunicativo di dettagli o di composizioni figurative variabili nel medesimo tempo ma anche in tempi diversi, sia pure nell’ambito di un’oggettualità realizzata in serie. Tali prodotti testimoniano oltremodo altre potenzialità, come quella di rafforzare funzioni tradizionalmente attribuite alle stampe sacre e, ancor più, ai santini: non solo rappresentazione della potenza del personaggio sacro e «segno visibile e tangibile di un mondo invisibile e intangibile, soggetto e oggetto materiale di una realtà spirituale»[40] ma anche e soprattutto fonte di una potenza meccanica in grado di produrre effetti prodigiosi e di esercitare azioni propiziatorie. L’immagine sacra infatti, «materializza il bisogno degli individui di organizzare un adeguato sistema di garanzie e di difese dall’irruzione del negativo sempre incombente»[41].

Ancora oggi, dunque, le immagini sacre a stampa assolvono fondamentali funzioni protettive e apotropaiche collegate al culto per la Vergine e per i santi. Tuttavia, dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento, la produzione di santini e di stampe si è rivelata meno efficace sul piano figurativo e attrattivo. Con ricorrenza, infatti, gli aspetti simbolici e narrativi si sono ridotti considerevolmente, lasciando sempre più spazio alla riproduzione essenziale dell’icona o dell’immagine reale della statua venerata presso il luogo di culto. L’autorità ecclesiastica ha imposto raffigurazioni sempre più fedeli alla realtà. La produzione è diventata più statica, meno familiare rispetto alla precedente e molti messaggi visivi sono scomparsi definitivamente. Occorre pertanto sottoporre ad un’attenta analisi iconografica il patrimonio di stampe sacre e di santini di vecchia produzione, per valorizzarne i contenuti comunicativi e per riproporli in una differente veste attrattiva, attraverso formati della comunicazione multimediale in grado di rispondere a esigenze differenti e a nuove modalità divulgative[42].

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[1] Testimonianza di R. R., anni 56, Napoli, 3 giugno 2013

[2] [Lo Gatto 1904-1905, 59]

[3] Rosario Russo è attualmente titolare, insieme a suo fratello Alfredo, del negozio di articoli religiosi che ha sede in via San Biagio dei Librai ai numeri 30 e 31, dalla metà degli anni Ottanta del Novecento. Pochi anni dopo l’inaugurazione del negozio acquistato dal padre di Rosario, Ugo Russo, fu rilevata da Ugo anche la piccola società di un'altra nota famiglia di produttori di immagini sacre a stampa, attiva già nella seconda metà del diciannovesimo secolo, quella dei «Rinaldini». I Rinaldini cessarono di produrre immagini sacre a stampa intorno agli anni Cinquanta del Novecento ma conservarono il negozio adibito alla vendita di articoli sacri, nella medesima strada di via San Biagio dei Librai; tale esercizio commerciale, acquisito nel 1985 da Ugo Russo, per ampliare l’attività dei suoi figli, era situato a pochi metri di distanza da quello dei due fratelli Rosario e Alfredo Russo. [Testimonianza di R. R., 3 giugno 2013, Napoli, San Biagio dei Librai]

[4] Testimonianza di A. R., anni 83, 5 luglio 2013, Napoli, via Valletta 3

[5] coroncine luminose da porre sul capo delle statue dei santi

[6] A. R., 5 luglio 2013, Napoli, via Valletta 3

[7] sulla guerra in Libia e sui crimini compiuti in Africa cfr. [Strazza 2013]; [Salerno 2005]; [Candeloro 2002]

[8] La «Raccolta Vittorio Imbriani» è costituita da fogli volanti e libretti del XIX secolo spesso non rilegati, realizzati con carta di basso costo non rifilata, spesso corredata da xilografie poco raffinate. La raccolta è custodita presso la Biblioteca Universitaria di Napoli, sez. Manoscritti e Rari, Fondo Imbriani. Sul Fondo Imbriani, cfr. [Bianchi, Franzese 1986]. Sulla storia della produzione popolare italiana a stampa cfr.[Novati 1907]; [Toschi 1965]; [Detti 1989]

[9] Il libretto della collezione Imbriani reca il seguente titolo: «La zingarella che indovina come piamente si può contemplare quando la Beatissima Vergine con Gesù, e S. Giuseppe se ne andavano fuggitivi in Egitto; loro incontrò e alloggiò»

[10] La leggenda racconta che una donna chiamata Stefania si incamminò verso la grotta per adorare Gesù, ma gli angeli glielo impedirono perché non era una madre. Stefania prese una pietra, l’avvolse nelle fasce fingendosi mamma e riuscì ad entrare nella grotta. Alla presenza di Maria, si compì un prodigio: la pietra divenne un bambino, santo Stefano, il cui natalizio si festeggia appunto il 26 dicembre [De Simone 1998, 21]

[11] [Lo Gatto 1886, 53]

[12] Cfr. [Caglioti 1989]; [Archivio di Stato di Napoli (A.S.N.), Fondo Tribunale di Commercio]

[13] Sono queste le diverse denominazioni professionali indicate, dagli anni Ottanta del XIX secolo al primo decennio del Novecento, nelle diverse annate delle guide di commercio che pubblicizzavano dati relativi alle attività e alle professioni presenti a Napoli e nella sua provincia. Cfr. [Genatiempo 1854; 1856; 1859]; [Bronner, Cipriani 1880]; [Bronner 1881-82]; [Lo Gatto1886; 1888-89; 1893; 1904-1905]; [M.A.I.C. 1891]; [Galasso 1982; 1962]

[14] La litografia e cartoleria «Richter & C» era stata fondata nel 1842. Fra gli operai che vi lavoravano, sei erano disegnatori provenienti soprattutto dall’estero. I più importanti lavori qui eseguiti riguardavano i cartelloni réclame per gli alberghi, gli articoli di cartoleria, le tavole di cromolitografia e le incisioni riproducenti i monumenti dell’Italia meridionale e gli scavi di Pompei. Lo stabilimento Richter sito in «via Fra Gregorio Carafa al Nuovo corso Garibaldi, con succursale in via Roma 309» [Lo Gatto 1904-1905, 59] ha stampato fino ai primi anni del Novecento anche le Carte Valori per il Banco di Napoli. Cfr. [Caglioti 1990]; cfr. anche [Kawamura 2016]; [Scognamiglio 1964]; [M.A.I.C. 1891]; [Betocchi 1874]

[15] In Sicilia gli artigiani che producevano immagini sacre su carta erano comunemente chiamati «stampasanti»

[16] Cfr. Nel censimento dell’anno 1871 compare per la prima volta la voce «tipografie» [Trudi 1876], mentre in quello del 1888 compiuto ad opera del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio (M.A.I.C.) non sono comprese informazioni dettagliate sulla minuta attività artigiana. Il censimento registra, infatti, solo 57 tipografie presenti a Napoli [M.A.I.C.1891]. Nel secondo Ottocento commercianti e piccoli o medi artigiani mostravano una certa indifferenza verso le istituzioni governative che li rappresentavano e la maggior parte di essi non si identificava in un’organizzazione come la Camera di Commercio, che allora rappresentava la sfera più alta della gerarchia commerciale. Cfr. a riguardo [Caglioti 1990]. Il Fondo Tribunale di Commercio dell’Archivio di Stato di Napoli analizzato per reperire notizie relative ad eventuali fallimenti, perizie o contratti nel settore della tipografia e della stampa, non ha posto in luce alcun dato di nostro interesse.

[17] La collezione personale di G. Pitré comprendeva stampe devote e non, realizzate in Sicilia ma anche altre provenienti da varie regioni d’Italia; per le immagini napoletane contribuì il folklorista Gaetano Amalfi. Cfr. [Cocchiara 1982, 3]

[18] Cfr. [Cocchiara 1982]

[19] [Cusumano 1988, 16-17]. Sulla produzione di immagini sacre siciliane, cfr. anche [Buttitta 1961]; [D’Agostino 1991]

[20] Sulle stampe con soggetti tematici eterogenei, prodotte anche per essere utilizzate dai cantastorie, cfr. [Castronuovo 2014]

[21] Le stampe sacre si caratterizzano per la produzione di grosso e medio formato. Dal punto di vista figurativo la stampa si presenta spesso ricca di dettagli iconografici che svelano l’epifania del personaggio sacro raffigurato, la sua particolare taumaturgicità o una complessa simbologia. Il termine santino indica invece una tipologia di immagine di più piccole dimensioni e con un ricorrente testo scritto stampato sul verso, quasi sempre una preghiera, un’invocazione o un cenno storico che chiarisce, talvolta, differenti “specificità” taumaturgiche del personaggio sacro o un suo particolare patrocinio. Per un’essenziale bibliografia sulle immagini sacre manufatte e a stampa cfr. [Spera 2015]; [Bertolini 2008]; [Borriello 2006]; [Gulli Grigioni, Pranzini 1990]; [Buttitta 1992; 1961]; [Marinucci 1990]; [Cusumano 1988]; [ Lise, Salsi 1987]; [Angiolino et. al. 1985]; [Di Nola 1985]; [Giannino 1985]; [Gulli Grigioni 1985]; [Vecchi 1985; 1968]. Sulla funzione delle immagini devozionali, cfr. anche [Burke 2002]; [Vovelle 1979]

[22] [Cusumano 1988, 17].

[23] Oltre alla Raccolta Imbriani della Biblioteca Universitaria di Napoli, occorre menzionare anche la collezione di stampe sacre della Società Napoletana di Storia Patria e quella della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli, nelle sezioni «Lucchesi Palli» e «Palatina»

[24] Le prime guide commerciali pubblicate a Napoli risalgono al 1850 e al 1852 e furono edite da Genatiempo Giuseppe che curò anche quelle degli anni 1854, 1856 e 1859, le uniche reperibili per il decennio Cinquanta.

[25] Nel secolo XIX la città di Napoli era ripartita in dodici quartieri: Stella, San Carlo all’Arena, Avvocata, San Lorenzo, Vicaria, Montecalvario, San Giuseppe, Porto, Pendino, Mercato, Chiaia, San Ferdinando. A capo di ciascun quartiere vi era un giudice della Gran Corte Criminale, allo scopo di tutelare la sicurezza pubblica dei cittadini. Ancora oggi, nel linguaggio quotidiano, i diversi quartieri napoletani continuano ad essere citati come precisi riferimenti geografici, pur non avendo più alcuna funzione amministrativa. Cfr.[Galasso 1962]

[26] Qui la maggior parte delle tipografie era concentrata in via San Biagio dei Librai, in Vico Purgatorio ad Arco e in altre strade adiacenti

[27] erano dislocati soprattutto nella via Sant’Anna dei Lombardi, nella via e vicoletto Mezzocannone e ancora nei vicoli Carogiojello e San Severo a San Domenico

[28] Nella via Fuori Porta Medina del quartiere Avvocata era presente il maggior numero di tipografie

[29] [Petraccone 1974]

[30] I dati riportati nelle guide di commercio non sono esaustivi; non tutti gli esercenti infatti gradivano essere pubblicizzati, sottoposti a controlli e sanzioni o conoscevano tali opportunità. Il confronto con quanto indicato talvolta sulle stampe delle collezioni pubbliche e private è pertanto fondamentale per la loro identificazione.

[31] Sull’editoria napoletana, sulle specializzazioni editoriali e sulla vendita ambulante a Napoli, cfr.[Trombetta 2008]. Più in generale, sull’artigianato napoletano e sulle piccole imprese, cfr. tra gli altri [Ranisio 2014]; [De Simone 2009]; [ Caoci, Lai 2007]; [Balletta 1991]

[32] Sull’estetica nell’arte popolare cfr. [Mukarovsky 1973]. Più in generale sulle caratteristiche dell’arte popolare cfr. anche [Buttitta 1972; 1992]; [Hauser 1977]; [Clemente 78]; [Vibaek 1992]; [Canclini 1998]

[33] Sulle modalità di raffigurazione di una leggenda di fondazione nelle immagini sacre a stampa cfr. [Borriello 2006, 42-54]

[34] Cfr.[D’Onofrio 1991]

[35] Sull’iconografia dei santi cfr. [Réau 1959]; [Bibliotheca Sanctorum 1961]

[36] [Vibaek 1992]

[37] [Lo Gatto 1904-1905]

[38] Sulle pratiche rituali collegate al rischio Vesuvio cfr. [Gugg 2014]

[39] Si tratta della ditta «ED G MI»

[40] [Cusumano 1988, 9]

[41] [ibidem]

[42] Nell’ambito delle attività del C.R.A. (Centro Interdipartimentale di Ricerca Audiovisuale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II) sono stati progettati e realizzati, nell’anno 2003, prodotti multimediali sperimentali di valorizzazione dell’iconografia devozionale a stampa, con sceneggiature di prototipi per la Collana del Centro «Nuovi formati per la comunicazione audiovisiva». La sperimentazione ha avuto l’obiettivo di divulgare la conoscenza della produzione sacra a stampa, secondo nuove e attrattive modalità comunicative. Sulla metarealtà museale e sull’innovazione dei linguaggi e delle forme della rappresentazione, cfr.[Mazzacane 2015]. Cfr. anche [Benjamin 1966]. Più in generale, per uno studio diacronico dell’immagine, dai culti dell’Antico Oriente alle più recenti realtà virtuali dei media, secondo una prospettiva antropologica, cfr. [Belting 2011]