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Abstract. Actually, Mexico is confronting a generalized violence linked to conflicts among drug cartels, the state and extractive companies for the control of territory and of legal and illegal sectors of the economy. In 2011 the inhabitants of Cherán, an indigenous municipality of Michoacán, Mexico, matched the criminal group responsible for kidnapping, extortion and illegal felling of the wood in the communal territory. Crossing contributions from anthropology and Peace Research, the paper describes the conflict and the community responses to violence through the process of peace formation.
Keywords. Conflict, logging, organized crime, peace formation, p’urhépecha, Cherán.
Il 15 aprile 2011 è una data fondante per la storia recente di Cherán, un municipio indigeno incastonato nel cuore della zona montuosa della Meseta dello stato di Michoacán, nel Messico occidentale. Quel giorno gli abitanti catturarono diverse persone che facevano parte della banda criminale responsabile dei sequestri, le estorsioni e il disboscamento clandestino nel territorio comunale. Il sistema proprio di governo e sicurezza, che si sviluppò in seguito, è considerato un esempio di auto-organizzazione efficace nel ridurre le molteplici violenze nel territorio indigeno.
L’eccezionalità delle conquiste di Cherán nell’ambito della sicurezza, la partecipazione e la trasformazione del conflitto spicca in un contesto nazionale che, dal 2006 in poi (anno in cui il governo guidato da Felipe Calderón[1] dichiarò ‘guerra’ alla criminalità organizzata) vive una situazione di violenza sociale generalizzata e senza precedenti. Si tratta di un conflitto tra le strutture politiche ed i corpi di sicurezza dello Stato, i diversi cartelli della criminalità organizzata e le imprese estrattive per il controllo del territorio, le risorse ed i settori legali ed illegali dell’economia. Tale conflitto ha una portata internazionale, dal momento che coinvolge i paesi centroamericani e gli Stati Uniti, un’enorme territorio in cui è in gioco il controllo del transito di migranti, oltre che della produzione e il traffico di sostanze illegali, in particolare i derivati dell’oppio, le droghe sintetiche e la marihuana.
La maggior parte degli omicidi volontari attualmente commessi in Messico si riferiscono a questa vera e propria ‘guerra’ non riconosciuta: si tratta di morti in scontri a fuoco tra i cartelli o tra questi e l’Esercito, la Marina e la polizia, e di esecuzioni sommarie e desapariciones perpetrate tanto dalle ‘forze dell’ordine’ che dalla delinquenza organizzata, frequentemente colluse nella gestione dei traffici illegali. Le cifre sono drammatiche: il Sistema Nazionale di Sicurezza Pubblica ha registrato, solo nel 2016, 20.549 omicidi dolosi, che significa un tasso di omicidi di 16,81 per ogni 100.000 abitanti; il dato acquista senso se comparato con l’analogo tasso in Italia che, nel 2015, è stato di 0,8. Lo stato di Michoacán, zona chiave per il traffico e la produzione di droga (attualmente soprattutto metanfetamina e altre droghe chimiche) ha registrato nel periodo in cui ho svolto la ricerca sul campo (2016), un tasso di omicidi ancora più elevato: 27.81 per 100.000 abitanti, mentre la mia regione natale, il Veneto, ne registrava appena lo 0.3. Ma le dimensioni dell’orrore vanno oltre: gli sfollati interni a causa del conflitto, sul territorio nazionale, sono 311.000, di cui 23.000 solo nel 2016,[2] mentre i desaparecidos (sequestrati e poi scomparsi) riconosciuti ufficialmente sono stati quasi 32.000.[3]
La militarizzazione e la creazione di ampie ‘zone di eccezione’ in tutto il paese, determinate dall’intreccio tra strutture statali e la delinquenza, ha reso ancor più evidenti le violenze istituzionalizzate come l’impunità, la corruzione e la discriminazione sistemica. L’uso eccessivo della forza e la violazione dei diritti umani si esacerbano nel contesto di insicurezza generalizzata, come dimostrano gli eccidi di presunti delinquenti compiuti dall’Esercito a Tlatlaya (2014) e Tanhuato (2015), o la sparizione forzata di 43 studenti della scuola Normale di Ayotzinapa perpetrata da narcotrafficanti e poliziotti a Iguala nel 2014. La sfiducia nel sistema giudiziario spiega perché nel 2015 la cifra negra, vale a dire il livello di delitti non denunciati, sia stata del 93,7%.[4]
Le risposte della società messicana a questa realtà sono eterogenee ed includono tanto le organizzazioni di vittime che cercano i familiari scomparsi nelle fosse comuni clandestine, quanto i gruppi di autodifesa finanziati dagli imprenditori; tanto i flussi di sfollati come le esperienze di autorganizzazione popolare che resistono alla violenza partendo dalla propria cultura e creano alternative sociali come nel caso di Cherán [Gasparello 2016].
Quali sono le manifestazioni della violenza ed i conflitti di fondo che motivarono il levantamiento a Cherán? Quali azioni e strategie avviarono i suoi abitanti per contenere tali violenze e risolvere i conflitti? Quali segnali mostrano un cambiamento nella loro vita quotidiana?
Queste domande hanno orientato la ricerca etnografica che ho realizzato durante l’intero anno del 2016, nel contesto di una ricerca posdottorale ospitata dal Centos de Estudios Antropológicos de El Colegio de Michoacán, nella cittá di Zamora. A intervalli, ho vissuto a Cherán per periodi brevi (una settimana) o piú lunghi (fino a un mese); ció mi ha permesso di acquisire un certo livello di confidenza con le persone le cui testimonianze sono riprodotte in quest’articolo. Il testo si basa sulla ricostruzione di avvenimenti passati sulla base di interviste strutturate e di informazioni ottenute negli spazi informali di conversazione con gli abitanti. La rappresentazione dell’attuale situazione di Cherán e delle dinamiche di risposta comunitaria alla violenza é stata costruita sulla base del vissuto personale durante la ricerca sul campo, e attraverso un continuo confronto sia con i piú stretti interlocutori a Cherán, che con i colleghi de El Colegio de Michoacán.
Metodologicamente, la ricerca unisce i contributi dell’antropologia sociale e della Peace Research, situandosi nel campo di studi denominato Antropologia della pace. D’accordo con Hébert [2006], questa studia i contesti violenti o potenzialmente tali, e le azioni umane volte a stabilire un po’ di pace o a mantenere quella che esiste. Storicamente l’antropologia ha evidenziato la natura sociale e culturale del conflitto e della violenza, ed ha prodotto un’abbondante letteratura che va dallo studio del conflitto [Gluckmann, 1955] e della guerra [Clastres, 1998] in societá non occidentali, all’indagine su genocidi [Dei, 2005] e la tortura [Nahoum-Grappe, 1997] nella societá occidentale contemporanea. La violenza é stata studiata nelle sue diverse dimensioni, che includono sia quella simbolica [Bourdieu 1994] che quella strutturale [Farmer 1996] e politica [Bourgois, 2001] .[5] Attualmente, è necessario dirigere questa tradizione verso un’antropologia della pace, che non enfatizzi la logica che soggiace allo scontro ma che si concentri sulle strategie locali per trasformare il conflitto.
Secondo Galtung [1998], il conflitto è parte integrante della dinamica sociale e non possiede, per sé, un’accezione negativa; la sua risoluzione è veicolo di mutamenti positivi nella società, mentre il fallimento nella trasformazione positiva del conflitto conduce alla violenza. Il triangolo della violenza rappresenta la relazionalità e la causalità tra la violenza diretta, strutturale e culturale.
Il modello di analisi per la trasformazione del conflitto proposto da Lederach (2009) è di grande utilità per comprendere le trame complesse di situazioni violente o potenzialmente tali, come quella che vive la popolazione di Cherán. Tale modello distingue l’episodio, manifestazione evidente del conflitto; l’epicentro, ossia la rete di relazioni in cui è inserito il conflitto; e la storia del conflitto, che consiste nel processo storico, culturale e strutturale che giustifica le relazioni conflittuali.
L’episodio del conflitto a Cherán è costituito da almeno tre aspetti interconnessi che sono degenerati in violenza: la presenza della criminalità organizzata; il controllo del territorio e delle risorse forestali; la rappresentanza politica ed il governo municipale.
Il conflitto legato alla presenza di gruppi criminali ha prodotto un’elevata violenza diretta: dal 2009 al 2015 quindici persone sono state uccise e sei sono “scomparse” (presumibilmente, sequestrate e uccise). Dal 2006 è aumentata l’ingerenza delle reti criminali nella Meseta, una regione boscosa e rurale abitata principalmente da popolazione indigena p’urhépecha (o tarasca). Il gruppo controllato da Mauricio Cuitlahuac, El Güero, all’inizio legato al cartello de La Familia e dal 2008 a quello de Los Caballeros Templarios,[6] controllava l’economia illegale nella zona; «poi iniziò ad avere un territorio, ad essere più forte, a controllare più persone ed iniziò a ‘lavorare’ per conto proprio. Poi si metteva a giocare a carte sulla strada di passaggio per riscuotere il pizzo quando scendevano coloro che si dedicavano a tagliare clandestinamente gli alberi» [Comunero Anónimo, cit. in Marquéz, 121].
L’economia illegale si basava, in primo luogo, sulla produzione e il traffico di droga, attività molto diffuse nella regione (le scoscese montagne della Meseta nascondono a tutt’oggi una gran quantità di ‘laboratori’ per la produzione di droghe chimiche, periodicamente smantellati dalle autorità). Un secondo aspetto riguardava il disboscamento clandestino, criminale e su grande scala, dei pini che crescono nel territorio di Cherán, il cui legname veniva venduto, illegalmente, a segherie e fabbriche ‘pulite’ delle grandi città, come Monterrey o Guadalajara. Come emerge dalla testimonianza citata, le organizzazioni criminali non sempre partecipano in maniera diretta alle attività economiche lecite e illecite, ma spesso ne traggono vantaggio o le controllano attraverso la protezione violenta e l’estorsione. Coloro che si dedicavano a tagliare illegalmente gli alberi, detti talamontes, non facevano parte del gruppo criminale, ma erano persone della zona che ricevevano -volontariamente o no- protezione, acquistavano armi e pagavano una quota a chi controllava il territorio da sfruttare. Successivamente, dal 2010 in poi, il gruppo del Güero iniziò «a taglieggiare i negozi, poi a sequestrare persone, commercianti e contadini, alcuni li liberarono, altri sono ancora desaparecidos. Erano sequestri per denaro».[7] Per il ‘bisnes’ criminale, tanto i boschi come le persone diventano risorse da sfruttare senza limite.
Progressivamente furono sospese le feste popolari e i lavori collettivi, poiché entrambe le attività esponevano grandi quantità di persone in spazi pubblici ed aperti. Racconta un giovane:
Il sabato pomeriggio e la sera la gente va in centro, a fare acquisti o a passeggiare con la famiglia. Una sera ero in piazza con gli amici, arrivano dei ragazzi di circa diciott’anni, venivano dai paesi vicini, Rancho Morelos o El Ceresito, vestiti di nero, tirano fuori i fucili e púm, sparano una raffica nella piazza, proprio di fronte al palazzo del Municipio... tutta la gente scappò... la polizia arrivò dopo un quarto d’ora, era evidente che stavano con loro. Ci volevano spaventare, e per un periodo ci sono riusciti, nessuno usciva e loro andavano liberi.[8]
Tra il 2008 e il 2012 diminuirono anche le attività agricole: «i contadini e gli allevatori non andavano più nei campi perché non era sicuro», racconta Vicente, del Consiglio de Bienes Comunales.[9] E continua:
Nel 2007 fu ucciso un signore di settant’anni mentre raccoglieva legna nel bosco con due asini, accompagnato dai nipoti. Volevano rubargli le bestie, lui si oppose e gli spararono alla schiena, i ragazzi corsero ad avvisare. Erano costanti le minacce a chi coltivava mais. Vari allevatori, quando andavano a riprendersi le bestie al pascolo, furono aggrediti e uccisi dai ‘cattivi’. Un signore stava raccogliendo resina,[10] da solo; si ritrovò il suo cavallo, un mese dopo trovarono il corpo carbonizzato, completamente distrutto, venne riconosciuto grazie ad alcuni oggetti come l’orologio.[11]
Quelli riferiti da Vicente sono solamente esempi di una lunga serie di crimini per i quali, a tutt’oggi, non è stata fatta giustizia.
I cheranensi, riferendosi a talamontes esequestratori, parlano de los malos, ‘i cattivi’, segnalandoli come soggetti esterni –almeno idealmente- alla società ‘buona’ di Cherán. È importante però segnalare che ‘i cattivi’sono per la maggior parte originari del municipio, in particolare delle località di Santa Cruz Tanaco e Casimiro Leco, ma anche del capoluogo, Cherán. Questo indica che il conflitto legato alla presenza criminale affonda le sue radici nella struttura sociale locale, nella quale giocano un ruolo importante le reti di parentela e comparatico, usate strumentalmente per ottenere lealtà [Ruiz 2015]. La penetrazione criminale delle reti familiari acuisce le fratture ed i conflitti tra famiglie diverse, trasformando le relazioni di vicinato in diffidenza e frammentando il tessuto sociale comunitario [CIAS 2016; Martínez 2015].
La paura e l’impotenza sono emozioni che compaiono in tutti i racconti relativi al periodo più violento (2008-2012). La paura provocava reazioni difensive: «tra vicini non ci parlavamo più»,[12] ed era accompagnata da una forte umiliazione: «[i criminali] circolavano come in casa, con i fucili, e poi ci salutavano con le bottiglie di birra, per strada chinavamo la testa quando passavano perché le armi ci facevano paura».[13] Secondo un’altra testimonianza, «arrivavano e saccheggiavano i negozi, noi non potevamo neanche guardarli, né camminare per la strada. Era impotenza, non era paura».[14]
I bambini e i giovani soffrirono in modo particolare la situazione di insicurezza, poiché affrontarono una situazione di violenza generalizzata senza risorse difensive, e furono privati dell’uso dello spazio pubblico, centrale nelle attività ludiche e ricreative: «non potevi uscire alle nove di sera. Molti ragazzi furono picchiati da sconosciuti, perché andavano per strada di notte».[15] Secondo Trinidad, docente di scuola media, «si perse la convivenza, ai giovani fu limitata la libertà della vita, o l’avere una vita di libertà. I giovani non potevano più andare in piazza, o a ballare, era una privazione che li soffocava».
Manuel, un giovane psicologo cheranense, afferma che la situazione di insicurezza e violenza e le sue conseguenze di isolamento individuale e collettivo ebbero un forte impatto sulla salute pubblica. Oltre ai problemi psicologici, Manuel e altri medici denunciano l’incidenza di malattie del sistema nervoso, cardiocircolatorio e digestivo legate alla somatizzazione dello stress. Le persone anziane furono le più colpite, poiché all’insicurezza si univa il dolore di assistere alla devastazione del territorio, che per loro aveva un valore produttivo, simbolico e identitario ancora importante. La testimonianza di Gloria, maestra e membro del Consejo de Barrios,[16] è emblematica di altri fatti simili registrati durante la ricerca:
Mio nonno aveva una fattoria sui monti, con un campo coltivato a grano o avena, e più in alto un appezzamento di bosco, che era così fitto che quando entravi era buio, non passava la luce. Alcuni alberi erano così grandi che tra tutti e quattro i nipotini non riuscivamo a prenderci le mani. Quando il nonno passava, diceva “tagliamo questo e questo”, sapeva che alberi si potevano tagliare: i più vecchi o quelli che erano ammalati. Un giorno arrivarono a deforestare il bosco dove c’era la fattoria del nonno, incendiarono tutto e rubarono il raccolto nel granaio. Non rimase nulla. I nipoti cercarono di evitare che il nonno vedesse quello che era successo alla sua terra, ma lui ci andò comunque e in quel momento gli venne un’embolia. Dopo quattro mesi morì.
La paura provocata dalla violenza visibile si alimentava di «rumori e dicerie, non si sapeva se era vero, ma era come un fantasma che stava lì, invisibile ma presente e non sapevi quando sarebbe arrivato».[17] Questa situazione rimanda alla nozione di ‘cultura del terrore’ coniata da Taussig [1984], che esprime il potere delle narrative della violenza come strumento di dominazione, per mezzo della sottomissione (chinare la testa, nascondersi, non uscire) e l’immobilità (impotenza).
Il secondo aspetto del conflitto è relativo al controllo e allo sfruttamento delle risorse forestali. Il territorio riconosciuto come proprietà collettiva (Bienes Comunales) di Cherán corrisponde a 21.170 ettari, di cui più del 75% sono terreni ad uso forestale, coperti da boschi di pini e querce. L’agricoltura e lo sfruttamento del bosco per l’estrazione del legname ed altre attività (estrazione di resina, raccolta di piante e funghi, pascolo) sono state storicamente le attività principali della popolazione. La testimonianza di Josefina ne è un esempio:
Io sono nata qui e qui mi sto facendo vecchia. Ricordo che quando ero piccola vivevamo sul monte, mio padre allevava bestiame, i miei nonni avevano la terra, andavamo a falciare il fieno, ci portavano a controllare che i vitelli non si bevessero tutto il latte perché il giorno dopo dovevamo mungere. Vedevamo che nel periodo delle piogge crescevano i funghi, le erbe commestibili, seminavamo e crescevano le pannocchie. Nel periodo secco soffrivamo perché non c’era niente, solo le ghiande. Poi mi sono sposata, mio marito era resinero, raccoglievamo la resina, il bosco era grandissimo.[18]
Il controllo territoriale è un elemento chiave nel conflitto di Cherán. Pertanto è necessario precisare che, dal punto di vista politico-amministrativo, il territorio nazionale del Messico si suddivide a livello locale in Municipi (equivalenti ai Comuni italiani). Sono riconosciuti due regimi di proprietà della terra: privata e collettiva. Nelle zone rurali e indigene, dove prevale la proprietà agraria collettiva, alla suddivisione territoriale politico-amministrativa si sovrappone quella agraria, ed alle autorità municipali si affiancano quelle agrarie (rappresentanti o Comisariado Ejidal e dei Bienes Comunales), incaricate del controllo territoriale, dell’amministrazione delle risorse comunali e di dirimere i conflitti agrari.
Lo sfruttamento intensivo del bosco, che negli anni recenti è stato denunciato come esempio di spoliazione delle risorse del territorio indigeno p’urhépecha non è una novità, poiché l’estrazione della resina (di cui lo stato di Michoacán, per l’enorme copertura boscosa, è il principale produttore in Messico) risale al principio del XX secolo.[19] La deforestazione della Meseta risale alla fine del XIX secolo, quando grandi imprese iniziarono lo sfruttamento intensivo del legname per la costruzione della ferrovia [Pérez 2016)].
D’altro canto gli abitanti del luogo (comuneros con diritti sulla terra collettiva) da decenni partecipano attivamente al processo di disboscamento clandestino, attività che non fu mai soggetta a regolamentazione. Negli anni settanta sorsero un po’ ovunque grandi e piccole segherie, alcune comunali ma per la maggior parte private, favorite dalla corruzione dei rappresentanti dei Bienes Comunales [Espín 1986].
Il disboscamento aumentò negli anni Ottanta, quando arrivarono sul mercato nazionale motoseghe e furgoncini[20] che molti acquistarono investendo i propri risparmi ed il denaro inviato dal crescente numero di familiari emigrati negli USA. Iniziò così il boom delle segherie familiari, quasi tutte illegali [Velázquez 2013]. La vendita privata del legname tagliato di frodo nei boschi comunali rappresentò per almeno un ventennio (1980-2000) una fonte di guadagni ‘facili’ per molte famiglie -almeno più facili che la vendita del mais, l’avena o il grano prodotti nella regione-.
Negli ultimi cinquant’anni la Meseta ha perso il 50% del manto forestale.[21] Fonti ufficiali calcolavano 2500 segherie clandestine attive nel 2006, che producevano tra i 10 ed i 15.000 m3 di legname al mese.[22]
Il disboscamento criminale (diverso da quello clandestino o illegale) crebbe esponenzialmente dall’anno 2008, fino ad arrivare a 200 camion al giorno che lasciavano il territorio di Cherán carichi di tronchi. Tutto ciò fu possibile grazie all’assenso delle autorità municipali e comunali, complici o vittime della violenza insita nell’estrattivismo in versione criminale.
Una ricerca basata sull’analisi comparata di immagini satellitari mostra che nel municipio di Cherán, solo tra il 2006 e il 2012, furono disboscati 9,069 ettari, «equivalenti al 71% della superficie vegetale esistente nel 2006 [e che] molte zone deforestate vennero poi incendiate» [España e Champo 2016: 141].
Il disboscamento è legato anche alla coltivazione dell’avocado, la cui commercializzazione in Michoacán, per l’elevato valore sui mercati internazionali, è controllata in gran parte dall’economia criminale.[23] Nei terreni colpiti dagli incendi frequentemente viene richiesto il cambio di categoria nell’utilizzo del territorio (da forestale a agricolo/commerciale) per introdurre le coltivazioni di avocado, che nella Meseta sono decuplicate negli ultimi 40 anni (passando da 13.000 ettari nel 1970 a 153.000 nel 2011).[24]
A Cherán, come in tutta la Meseta, le fonti d’acqua scarseggiano. Uno dei detonatori della reazione popolare al disboscamento criminale fu che questo aveva raggiunto La Cofradía, luogo in cui si trova la principale sorgente che approvvigiona il paese.
L’economia estrattivista implica sia lo sfruttamento del legname che l’imposizione di estese monoculture (i cosiddetti ‘deserti verdi’), sia lo sfruttamento smisurato delle risorse idriche che quello della manodopera contadina. Il conflitto si configura come una tensione tra il modo d’uso tradizionale della terra, come bosco e terreno agricolo, e lo sfruttamento estrattivista e eterodiretto, e incluso criminale. Anche se i conflitti legati all’uso della terra e delle risorse comunitarie sono di vecchia data, la connessione tra gli interessi estrattivi e la violenza diretta della criminalità organizzata determinarono la reazione organizzata contro la spoliazione.
Il terzo aspetto del conflitto è legato al controllo della rappresentanza politica locale e all’amministrazione dei fondi pubblici. Dal 1988, anno in cui il movimento cardenista ruppe l’egemonia mantenuta per quasi settant’anni di governo del partito unico conservatore (Partido Revolucionario Institucional, PRI), fino al 2008, il progressista Partido de la Revolución Democrática (PRD) ha sempre governato il municipio di Cherán. «Poi le cose iniziano ad andare male nuovamente, il potere corrompeva quelli che venivano eletti, e nel momento in cui la gente non era più d’accordo vince il PRI con Roberto Bautista [2008]». [25]
Il fattore della corruzione è fondamentale per la comprensione del conflitto legato al controllo del potere politico locale; l’arricchimento che deriva dall’esercizio corrotto del governo (sia per l’appropriazione dei fondi pubblici, sia per la cooptazione nelle reti criminali) è motivo di scontri anche all’interno dello stesso partito, come nel caso del PRD quando perse il governo.
Pertanto, secondo Ulrike (cheranense di origine tedesca), «c’è una tradizione di ‘cattivi’ che non necessariamente sono vincolati alla criminalità, ma alla corruzione sì»; e la corruzione nell’amministrazione municipale e nella rappresentanza dei Bienes Comunales ha permesso, storicamente, l’esistenza di segherie clandestine, che risorgevano nonostante le saltuarie retate della polizia”.[26] Successivamente, l’endemica corruzione delle autorità facilitò la rapida espansione dei gruppi criminali negli spazi della politica, che finirono sotto il controllo dei cartelli attraverso mazzette e minacce. Si creò così una situazione di simbiosi e di continuità tra gli ambiti legali ed illegali dell’economia e della politica, evidente in molte zone del Messico [Gil 2015; Maldonado 2014].
A Cherán questa situazione aumentò la distanza tra i cittadini ed il governo locale, già dal 2000 definito come «corrotto da interessi personali» [Nelsen 2000, 218]. Secondo Ruiz [2015], la frammentazione delle relazioni sociali -a causa dei conflitti elettorali e delle lealtà politiche guadagnate con promesse e regalie- fu un ostacolo nella formazione immediata di un fronte comune contra la deforestazione.
Nel 2008, durante i primi mesi dell’amministrazione di Roberto Bautista, la Polizia Municipale si macchiò di due omicidi, creando così un clima di scontento che una fazione del PRD, guidata da Leopoldo Juárez Urbina, usò per posizionarsi politicamente. Le testimonianze raccolte denunciano la collusione tra il governo di Bautista e la criminalità organizzata, che nel 2008 inizia a controllare il territorio di Cherán. L’omicidio di Juárez, che aveva denunciato la connivenza, accrebbe il conflitto politico, ma aprì anche le porte alla paura e all’intimidazione.
La corruzione, reale o possibile, insita nel sistema di governo dei partiti che permette il fazionalismo e la ‘commercializzazione’ dei voti e delle lealtà e il rischio di violenza che implica la gestione della politica da parte di gruppi in aperto scontro, sono i fattori che determinarono la volontà popolare di cambiamento e la creazione di un sistema di governo consiliare rappresentato dal Consiglio Maggiore (Concejo Mayor, i cui rappresentanti sono chiamati K’eri ).
Le tre dimensioni del conflitto manifesto sono determinate, come suggerisce Lederach, dall’epicentro e dalla storia del conflitto stesso. La narrativa riferita al conflitto-radice, che ho denominato ‘conflitto di identificazione collettiva’, emerse per la prima volta durante la conversazione con Rosalío, muratore, ex migrante ed ex segretario del Cosiglio de Bienes Comunales. «Quello che succede a Cherán», affermava Chalino, «è che ci siamo fermati a metà strada». Il riferimento è alla transizione incompiuta della società che non è più indigena nel modo ‘tradizionale’, ma che non ha nemmeno adottato tutti i codici ed i valori della modernità globale, e si trova immersa in un processo di cambio e adattamento particolarmente conflittuale che mostra diverse tensioni, come confermarono altre testimonianze.
La prima tensione del conflitto-radice si sviluppa attorno ai poli identitari della cultura indigena e della pratica migratoria, che non sono tra di loro opposti ma creano una relazione conflittuale e dialettica. Come l’identità indigena, anche l’emigrazione è un fenomeno che ha costruito un’identità individuale e collettiva basata sull’esperienza migratoria, un processo iniziato negli anni venti e che ha raggiunto attualmente una dimensione tale che, secondo le autorità locali, quasi un terzo degli abitanti di Cherán vive nel norte (USA).
L’esperienza migratoria ha trasformato i modi di vivere ed ha introdotto pratiche culturali diverse, come il modo di vestire, i gusti alimentari ed estetici, i modelli delle case, oltre alla diseguaglianza di capitale economico ed educativo tra le persone. Questa trasformazione è percepita come un rischio da adulti come Trinidad, che afferma: «los paisanos ritornarono dagli Stati Uniti con un’altra mentalità e iniziarono a cambiare la cultura. Ad esempio nella convivenza tra i giovani arrivavano con grandi stereo a tutto volume e si mettevano a bere per strada».[27] Secondo Felipe «la gente veniva dagli USA con macchine grandi e cose appariscenti per attirare l’attenzione delle ragazzine, perché avevano fatto i soldi».[28]
Si stima che più del 20% delle entrate della popolazione di Cherán proviene dai risparmi inviati dagli emigranti (remesas), il che ha cambiato le abitudini lavorative dei beneficiari, soprattutto donne e anziani, che possono prescindere dal pesante e poco redditizio lavoro agricolo.
D’altro canto, la cultura p’urhépecha è stata fin dagli anni Quaranta sottomessa ad aggressive politiche di assimilazione. Attualmente, molte delle manifestazioni culturali e politiche indigene, come la forma di governo, la lingua, l’abbigliamento o le pratiche religiose, a Cherán non sono evidenti. Solo una piccola parte degli intervistati si dichiara indigeno o riconosce l’identità indigena come centrale nella propria esperienza di vita. Nonostante ciò, l’identità indigena è una risorsa a cui, negli ultimi due decenni, è stata riconosciuta una grande forza politica, e pertanto è stata utilizzata a Cherán come uno strumento efficace, ad esempio, nella recente lotta legale per cambiare la struttura di governo; allo stesso tempo è servita a mobilitare a livello nazionale ampie reti solidali con i processi di autonomia indigena.
Per rafforzare l’unità interna alla comunità come elemento difensivo a fronte delle violenze, il nuovo Governo Comunale sta propiziando la ricostruzione di un’identità indigena condivisa come emblema della ‘comunità di Cherán’, figura che racchiude l’aspetto agrario (la proprietà collettiva, o comunal, della terra) e l’aspetto sociale (l’organizzazione politica collegiale attraverso assemblee e Consigli ). In tale contesto il riferimento alle tradizioni, ai valori e agli elementi sostanziali della cultura p’urhépecha compare nei discorsi degli intervistati come la nostalgia del tempo che fu e che si vuole recuperare, ricostruire e, in fin dei conti, reinventare. Esempio ne è l’incipiente progetto di riscatto della lingua p’huré promosso dal Consiglio dei Temi Civili o la produzione di una narrativa sui luoghi sacri come la Piedra del Toro da parte del Consiglio de Bienes Comunales.
Una seconda tensione insita nel conflitto di identificazione collettiva si crea tra i poli ‘urbano’ e ‘rurale’, a causa del processo di rapida urbanizzazione. Il capoluogo municipale, San Francisco Cherán, è il quarto centro abitato della Meseta per numero di abitanti (14.245 nel 2010).[29] Le attività del settore primario (agricoltura e sfruttamento del bosco) occupano appena il 35% della popolazione, seguite dal commercio e dalla migrazione (remesas).[30] L’ingente introito proveniente dalla migrazione è evidente nel centro del paese, dove operano molti negozi e servizi. A Cherán esiste un’ampia offerta educativa che, a livello superiore, convoca studenti anche dei municipi vicini.
Centro abitato in rapida trasformazione, Cherán vive i problemi di una città: la gestione dell’ordine pubblico, il traffico, i rifiuti, la distribuzione idrica, ecc. Le tensioni generate dal processo di urbanizzazione sono frequentemente vissute come conflitti, ad esempio le misure di salute pubblica che vietano stalle e porcili nel centro del paese, ed il transito del bestiame per le strade: l’ordinanza oppone commercianti ed automobilisti con coloro che mantengono la tradizionale abitazione indigena con un ampio terreno per gli animali.
La città è cresciuta con la stessa intensità del desiderio, comune a molti dei suoi abitanti, di essere ‘altri’, né indigeni né contadini; immersa nei conflitti politici, la società si dimenticò di coloro che sono rimasti ‘gli stessi’, che non migrarono e non si arricchirono. Questo ha approfondito la breccia di diseguaglianza già menzionata a proposito del fenomeno migratorio, poiché il processo di urbanizzazione ha creato una evidente disparità tra il centro e la periferia. In contrasto con i prosperi negozi del centro, nei sobborghi le case continuano ad essere di legno o fango, e in molti casi sono prive dei servizi essenziali. In queste zone si concentra quel 28% della popolazione catalogata dal Ministero dello Sviluppo Sociale come in situazione di povertà estrema.[31]
La povertà è evidente nel ‘covo dei cattivi’, il Rancho Casmiro Leco o Ceresito che, con 600 abitanti, è la località più isolata dal capoluogo. Secondo Vázquez, «la popolazione del Ceresito si stabilì con l’estrazione di resina e la mancanza di opportunità lavorative li ha spinti a dedicarsi clandestinamente al legname» [cit. in Román 2015: 66-67]. Nella tensione tra la dimensione ‘urbana’ e quella ‘rurale’ compare la sacca dell’emarginazione, occupata da coloro che non sono riusciti ad essere cittadini, ma che non vogliono più rimanere contadini e non sono sensibili al discorso che sostiene la ricostruzione dell’identità collettiva indigena. L’analisi delle cause civili risolte dal Consiglio di Mediazione e Procura di Giustizia di Cherán mostra che un’elevata percentuale, soprattutto nei casi di violenza domestica, corrisponde al Ceresito. A questo riguardo, Arzate et al. [2010, 3] affermano che la povertà (situazione di carenza economica) e la diseguaglianza-violenza (situazioni sociali determinate da posizioni di esclusione e discriminazione) sono due fenomeni differenziati ma allo stesso tempo intrecciati nella stessa dinamica di precarietà sociale. Nel contesto studiato, è dunque preponderante la dimensione strutturale della violenza, un tipo di violenza indiretta che affonda le sue radici nella diseguale distribuzione del potere di decidere sulle risorse e che si rende evidente nella marcata diseguaglianza, nello sfruttamento, la discriminazione e l’emarginazione (Galtung, 1998: 16).
Questi elementi mostrano un processo simile a quello vissuto dalle comunità indigene della zona Altos, in Chiapas, dove negli anni Novanta proliferarono gruppi paramilitari responsabili di violenti eccidi. Secono Aubry e Inda,
l’inerzia agraria combinata alla crescita demografica non dà né terra né lavoro, nemmeno agricolo, ai giovani in età di avere diritti agrari. […] Obbligati a vivere come delinquenti, non solo non avevano mezzi di sussistenza ma, inoltre, non avevano motivi di partecipare nelle assemblee e, pertanto, erano esclusi dalle decisioni collettive. Prima conclusione, questi criminali sono prodotti dal sistema e dalle sue opzioni economiche, agrarie e lavorative. Improvvisamente, la ‘paramilitarizzazione’ offre a questi contadini soluzione (economica) e prestigio (grazie alle armi che portano).[32]
A differenza della situazione osservata in altre regioni indigene, come la Montaña del Guerrero, nella Meseta l’agricoltura non è più prioritaria per gran parte della popolazione, specialmente per i giovani. «Dagli anni Settanta si è perso il lavoro nei campi, la gioventù si è dedicata a studiare e altri sono emigrati negli USA», commenta Luis.[33]
Come il discorso relativo alla condizione indigena, anche quello che riguarda il bosco e i campi emerge nelle testimonianze con toni nostalgici, probabilmente a causa della devastazione, ma è evidente che sempre meno gente è legata alla terra come risorsa primaria di produzione e riproduzione materiale. Si presenta come risorsa simbolica, ma il suo valore nella società cambia poiché diventa prescindibile.
Pertanto secondo varie testimonianze il disboscamento clandestino è l’unica alternativa all’emigrazione. Già nel 1986 Espín affermava che il fenomeno del contrabbando di legname «è innervato nel circolo della povertà» [1986, 199]. ‘I cattivi’, dunque, sono lo specchio di quella parte della società che si è trasformata nel solco del processo di esclusione, fazionalismo e corruzione ‘legale’. I talamontes mostrano la contraddizione strutturale tra il sistema di riproduzione contadino e la proprietà collettiva della terra, ed il mercato globale che esige lo sfruttamento ambientale e della forza-lavoro. Lungi dall’intenzione di criminalizzare la povertà, la necessità di esporre le radici strutturali della violenza e dell’esclusione come la causa principale di cooptazione nelle reti criminali è collegata all’urgenza di individuare le responsabilità istituzionali situate principalmente nella corruzione multidimensionale e nei vari livelli di governo -locale, statale, nazionale- [Gil 2015].
L’avvenimento che nei racconti dei cheranensi è definito ‘el levantamiento’ (sollevazione), iniziato all’alba del 15 aprile 2011, fu il momento in cui la collettività sconfisse l’impotenza e riuscì a ‘ergersi’ contro ‘i cattivi’, sicari e talamontes, mentre prima «non potevamo neanche girarci a guardarli».[34] Racconta quel giorno Josefina, sessantenne casalinga ed ex resinera, che fu tra i promotori del ‘movimento’ (termine che si riferisce al processo iniziato con il ‘levantamiento’):
Iniziarono a suonare le campane della chiesa del Calvario alle 5:30 del mattino, e poco dopo i petardi. Noi eravamo già pronti con pietre e bastoni in attesa di quella gente. Alle 8 del mattino fermammo il primo camion [carico di legname] e cinque talamontes. Fermammo un secondo camion. Più tardi venne la polizia municipale per cercare di liberare quelli che avevamo arrestato. E poi tirarono fuori delle armi grandi, che sparavano fino a lì in fondo... Ne è valsa la pena, la comunità stava aspettando che succedesse qualcosa, che qualcosa si facesse per allontanare ‘i cattivi’.
Il levantamiento ed i mesi che lo seguirono furono segnati da un’elevata violenza diretta: in questo momento si verificano le espulsioni o addirittura le esecuzioni di alcuni criminali che vivevano nel paese e la rappresaglia del gruppo armato costò la vita a varie persone. Per mesi il centro abitato fu ‘assediato’, chiuso al commercio con l’esterno; non arrivavano approvvigionamenti alimentari e le attività a Cherán erano sospese, il che generò un forte squilibrio economico. Ma fu proprio in questo contesto di violenza aperta e incertezza che si svilupparono i vincoli di solidarietà tra i vicini della stessa strada o quartiere, un fatto che per molti degli intervistati rappresenta il primo grande risultato del movimento: «non c’erano più partiti, eravamo come un’unica famiglia, tutti partecipavano, maestri, dottori, contadini o studenti»[35] ; «la convivenza nei falò (parhankua)[36] avvicinò chi viveva nella stessa via e non ci conoscevamo quasi»,[37] raccontano le donne. Secondo Isabel,
durante le settimane in cui non c’era da mangiare nel paese, ognuno tirava fuori quello che aveva a casa sua per poterlo condividere, si cucinava nel falò e così si riusciva a mettere insieme un pasto. E lì si raccontavano storie del luogo, noi giovani scoprimmo molto che non sapevamo.
Ulrike apporta alla riflessione l’elemento dell’identità: «c’è una nuova identità collettiva, continua ad unirci ciò che abbiamo vissuto, so che io e la mia vicina abbiamo vissuto le stesse cose. Emerge nelle chiacchiere e continuiamo a ricordarlo. Ci unisce aver vissuto questo pericolo, averlo superato e aver costruito qualcosa che ci permette di vivere meglio».
Risalta che siano le donne, che nella zona sono sottomesse storicamente ad una forte oppressione di genere [Márquez 2016], ad enfatizzare quest’aspetto, poiché l’eccezionalità del momento ha permesso la loro partecipazione attiva e ha rappresentato per molte un’opportunità di emancipazione e sovversione -almeno temporanea- degli ordinamenti sociali più oppressivi.
Nel contesto del levantamiento la paura e l’impotenza si trasformarono in ‘violenza creatrice’ [Benjamin 1921] e gli abitanti iniziarono a praticare, in modo spontaneo o pianificato, un ampio ventaglio di risposte alla violenza e, successivamente, azioni volte alla trasformazione del conflitto e alla formazione della pace
Se pensiamo il conflitto come crisi e opportunità, e la violenza come la sua degenerazione negativa, studiare gli avvenimenti successivi al levantamiento del 2011 implica conoscere le azioni intraprese dagli abitanti di Cherán per far fronte alle violenze vissute. Ho definito tali azioni come ‘risposte comunitarie alla violenza’ poiché mobilitano discorsivamente, politicamente e concretamente i legami di fiducia e solidarietà relativi alla condivisione di esperienze e di territorio, elementi fondanti nel concetto di comunità; queste risposte hanno un carattere marcatamente positivo che enfatizza l’organizzazione e la difesa.
Le risposte comunitarie alle violenze includono quelle azioni individuali e collettive definite da Mac Ginty [2014] come ‘pace quotidiana’ (everyday peace): pratiche e norme che cercano di evitare e minimizzare i conflitti, costruendo elementi di coesione sociale che evitano la degenerazione delle tensioni. Considero le risposte comunitarie una parte del più ampio processo di ‘formazione di pace’ [Richmond 2013]. Quest’espressione, che si differenzia dai processi istituzionalizzati di peacebuilding, definisce quei processi che nascono dai saperi locali, che muovono le reti comunitarie e di parentela, e articolano le azioni nazionali e internazionali partendo dal contesto sociale e storico specifico.
Il termine pace, che definisce un orizzonte di giustizia sociale e soddisfazione delle necessità basiche -sopravvivenza, benessere sociale, identità e rappresentanza, libertà e equilibrio sociale- [Galtung 2003, 20] prende consistenza se viene coniugato in processo di pace. Comprendere la pace come un processo in continua formazione permette un’approssimazione positiva non solamente alle conquiste ma anche ai limiti ed agli ostacoli affrontati dal processo stesso, che modificano il suo sviluppo ma non ne mettono in discussione l’obiettivo. Pertanto la formazione di pace si rende evidente proprio nel processo e nelle attività realizzate per la sua costruzione, indipendentemente dai momenti di inflessione o dai fallimenti, poiché a volte non si riesce a consolidare ciò che si è costruito o non si arriva alla formazione di spazi di pace integrale.
Secondo Galtung [1998], il processo di pace o di trasformazione positiva di un conflitto è composto da tre movimenti: ricostruzione (legata alla violenza diretta), riconciliazione(per ristabilire le relazioni tra le parti in conflitto) e risoluzione (diretta alle cause di fondo e strutturali). Le risposte comunitarie alla violenza osservate a Cherán mostrano progressi sostanziali nella dimensione della ricostruzione, termine chiave nello slogan del movimento: “Per la sicurezza, la giustizia e la ricostruzione del nostro territorio”. La ricostruzione include sia il territorio che il tessuto sociale ed i valori condivisi.
La ricostruzione delle relazioni personali nella strada, nel quartiere e nel paese ha propiziato a sua volta l’istituzione o ricostruzione di strutture comunitarie di deliberazione e governo (parhankua, assemblee), di controllo del territorio e di sicurezza. Da questo sostrato organizzativo si sviluppano le azioni dirette alla trasformazione del conflitto nei suoi tre aspetti.
La risposta in quest’ambito fu la trasformazione del sistema elettorale e la struttura di governo locale. Dopo un complesso iter legale, nel 2011 la Sala Superiore del Tribuinale Elettorale del Potere Giudiziario Federale[38] ha riconosciuto Cherán come ‘municipio indigeno’ e i suoi abitanti conquistarono il diritto, inedito in Michoacán, ad eleggere le autorità municipali secondo i propri ‘usi e costumi’, oltre a costituire una nuova autorità municipale che rispecchiasse le pratiche sociali e politiche del popolo p’urhépecha: scomparve così il sistema di candidature e liste per partito, e si instaurò una struttura consiliare.
I rappresentanti dei Consigli sono attualmente eletti nelle assemblee dei quartieri con una votazione pubblica. «I candidati si mettono in piedi uno a fianco all’altro e le persone che votano per te si mettono in fila di fronte a te o di fronte agli altri, e tu vedi che la gente inizia a cambiare fila, pensa chi lo convince di più e si allungano le file, poi si contano i voti», racconta Rosalío.
A Cherán esiste una complessa e capillare struttura decisionale e di discussione, che orienta e controlla il Governo Comunale. Prodotto originale del levantamiento sono i 170 falò o parhankua, punti di vigilanza, riunione e deliberazione. Gli abitanti di un isolato si riuniscono in una parhankua ed eleggono un rappresentante di parhankua. Ognuno dei quattro quartieri in cui si divide Cherán realizza la sua Assembleacon la partecipazione dei cittadini, spazio in cui si discutono, ratificano o bocciano le proposte di governo avanzate dal Consiglio Maggiore. L’Assemblea dei rappresentanti di parhankua è invece operativa e serve per informare i delegati del Consiglio Coordinatore dei Quartieri, parte del Governo Comunale. Questo è composto da otto Consigli Operativi e dal Consiglio Maggiore, le cui funzioni corrisponderebbero a quelle del Presidente Municipale nella struttura amministrativa ufficiale. Ogni Consiglio é composto da dodici persone (tre per quartiere).
Questa complessa struttura di governo disperde il potere e amplifica gli spazi di partecipazione comunitaria: dalla riunione nella parhankua fino all’assunzione di una carica, le persone hanno molte possibilità di inclusione nella sfera pubblica, e il meccanismo di discussione nelle assemblee riduce il rischio di arbitrarietà e corruzione da parte dei rappresentanti (Consiglio Maggiore). Nei Consigli risalta l’ingente partecipazione di donne e giovani: la metà degli eletti non ha più di 35 anni. Sono quei giovani che vissero l’adolescenza costretti dalla violenza, ed hanno ottenuto anche uno spazio specifico di rappresentanza nel Governo Comunale: il Consiglio dei Giovani.
Uso il termine ‘partecipazione’ con riserva, poiché è una parola che, con l’aggettivo ‘cittadina’, è stata introdotta nei meccanismi politici volti a compensare le mancanze del modello democratico neoliberale. In tal senso, la ‘partecipazione cittadina’ è un complemento della democrazia rappresentativa e permette ai cittadini di presentare proposte e obiezioni per influenzare le decisioni dei governanti [Henríquez 2013]. Nel contesto cheranense considero opportuno differenziare la forma di partecipazione e aggettivarla come ‘comunitaria’: in tal senso il termine rimette alla partecipazione insita nelle forme di governo indigene (sistema de cargos), dove esistono molteplici organi e strutture che presuppongono la partecipazione attiva degli abitanti e che sono necessarie per il funzionamento della comunità (a Cherán esistono i comitati dei genitori nelle scuole; le commissioni di quartiere per l’organizzazione delle festività; e le faenas, giornate di lavoro collettivo in beneficio della comunità). La partecipazione in tali attività è intesa come un servizio alla comunità; non presuppone conoscenze specializzate in politica o amministrazione, e attraverso la rotazione include tutti gli abitanti nelle responsabilità collettive. In una società in transizione, come quella di Cherán, la spinta alla partecipazione recupera il senso comunitario e lo combina con i meccanismi della rappresentanza e l’amministrazione pubblica, mettendo a valore le competenze dei giovani professionisti.
La trasformazione positiva del conflitto legato alla rappresentanza ha permesso la stabilità del governo. L’abolizione del sistema dei partiti non comporta l’esclusione dei militanti dalla politica locale, poiché il rafforzamento delle assemblee ridimensiona il potere disgregante delle fazioni. Secondo Josefina, che fu parte del primo Consiglio de Bienes Comunales (2012-2015): «dobbiamo lasciar entrare [nel Governo Comunale] la gente che era dei partiti, vediamo come reagiscono e riflettono all’interno, noi siamo qui per osservare come si comportano. Però devono rinunciare al partito in cui stavano. Non facciamo come si faceva prima, che solo alcuni entravano». Ciononostante, le reti clientelari dei partiti sopravvivono e sono tuttora utilizzate «per ottenere finanziamenti e appalti, come il servizio di taxi».[39]
Il Consiglio dei Bienes Comunales (CBC) «continua a lavorare secondo le disposizioni emanate dalla comunità: ‘la ricostruzione del nostro territorio’ che proteggiamo quotidianamente, realizzando le attività di ripristino e salvaguardia dei nostri boschi, come riforestazione, lavori sul suolo, apertura di brecce tagliafuoco, protezione delle sorgenti»,[40] attività finanziate dalla governativa Commissione Nazionale Forestale e dall’Unione Nazionale dei Resineros. Secondo il CBC fino al 2016 erano stati riforestati circa 3.000 ettari, equivalenti a un terzo del territorio devastato tra il 2006 e il 2012. Il Vivaio Comunale produce le piante destinate alla riforestazione anche per i municipi vicini.
Durante un lungo giro di ricognizione attraverso il territorio comunale, Luis, membro del CBC, mi indicò una vallata coltivata a mais e mi spiegò che «oggi le terre abbandonate per l’emigrazione verso gli USA [negli anni settanta] si iniziano di nuovo a seminare, si vedono già campi di mais e avena. Fu un’idea dei figli o dei familiari dei proprietari; prima della sollevazione popolare non si vedevano queste iniziative». Questa trasformazione è propiziata dalla maggiore sicurezza nei campi e nelle zone boschive (di cui si occupano i Guardaboschi e la Ronda Comunitaria); d’altro canto, il levantamiento ha favorito la riflessione collettiva sull’uso delle risorse naturali e l’apprezzamento dell’identità contadina e del lavoro nei campi.
Come deterrente, la coltivazione dell’avocado è stata proibita in sede di Assemblea generale, ed è sanzionata con la multa e l’incarcerazione preventiva.
L’esigenza principale del movimento di Cherán fu quella di ottenere maggiore sicurezza; l’organizzazione popolare affrontò il problema valorizzando, ancora una volta, la struttura comunitaria, evitando così pericolose derive securitarie. Già pochi mesi dopo la mobilitazione dell’aprile 2011 venne istituita la Ronda Comunitaria, un corpo di sicurezza composto da sessanta uomini e donne del luogo, eletti nelle parhankuas. La Ronda sostituì immediatamente la Polizia Municipale; due anni più tardi (2013) venne chiuso anche l’ufficio della Procura Generale di Giustizia dello stato a Cherán, a fronte della mancanza di risultati nelle indagini sull’omicidio di sette abitanti e l’accusa di collusione del Pubblico Ministero e dei suoi collaboratori con le reti criminali. Attualmente, il Consiglio di Onore e Giustizia compie le funzioni di indagine e mediazione, mentre rimette i delitti gravi al Pubblico Ministero di Zamora.
La Ronda pattuglia il centro abitato, le strade ed i sentieri all’interno del territorio municipale, e mantiene i punti di vigilanza (barricadas) nei due principali accessi a Cherán, sulla strada Zamora-Uruapan. La sicurezza comunitaria permette un controllo costante della cittadinanza sulla Ronda, composta da persone conosciute in paese e riconosciute dalle Assemblee. È proprio il carattere locale e interno che, secondo molte testimonianze, segna la differenza rispetto alla polizia statale.
L’efficacia del sistema di sicurezza comunitaria ha provocato trasformazioni evidenti nella vita pubblica. Nella piazza e nelle strade i negozi e le bancarelle rimangono aperti fino alle undici di sera; la gente transita e fa uso dello spazio pubblico in orario notturno con molta libertà. Dopo le undici non è permesso circolare: «ti può trovare la Ronda e ti domanda cosa fai per strada, ti dice ritirati, altrimenti ti raccogliamo noi. Prima non si sapeva chi ti avrebbe tirato su e dove ti avrebbe portato, e se riapparivi come saresti apparso», spiega Juan.
La ricerca sul campo a Cherán si è orientata a visualizzare i cambiamenti nella qualità della vita verificatisi dopo il levantamiento e grazie all’organizzazione collettiva. Il lavoro etnografico ha svelato importanti ‘segnali di pace’, elementi condivisi e ricorrenti nel bilancio dei risultati e degli errori del movimento; si tratta di progressi nella tutela didirittianteriormente violati.
L’analisi del conflitto ha evidenziato la violazione di vari diritti umani universali,[41] tra cui il diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza; in secondo luogo, furono violati sistematicamente il diritto alla proprietà individuale e collettiva, al riposo e al tempo libero. L’efficacia della sicurezza comunitaria è, secondo tutti gli intervistati, il primo risultato evidente del movimento e rappresenta il principale strumento per la difesa dei diritti citati. I segnali di pace in quest’ambito sono la drastica diminuzione, dal 2013 in poi, dei delitti di alto impatto (omicidio, sequestro e desaparición forzada); la riforestazione e il recupero del lavoro nei campi; il risorgere delle attività festive e collettive; l’uso collettivo dello spazio pubblico e la presenza delle attività ludiche dei bambini; la realizzazione di attività commerciali e ricreative in piazze e strade in orario serale.
In quest’ambito si innesta un altro potente segnale di pace: il rafforzamento delle reti di fiducia e di solidarietà tra vicini, e l’impulso ad un rinnovato sentimento di identificazione collettiva. La sicurezza non è solo il prodotto della Ronda, ma è costruita collettivamente dalla vigilanza dei cittadini, dalla fiducia tra loro, dalla disposizione all’aiuto reciproco e dalla coordinazione tra i cittadini e le autorità.
Lo sviluppo dei servizi pubblici, delle infrastrutture e delle aziende comunali è un segnale di pace relativi al diritto a favorevoli condizioni di vita, violato principalmente dalla dimensione strutturale della violenza. La tutela di questo diritto è incipiente, poiché implica azioni di gran portata dirette a rafforzare la sostenibilità economica locale, aspetto chiave per rompere la connessione povertà/diseguaglianza-violenza. Nel 2016 la riforestazione ha dato un impiego temporaneo a circa 300 persone, mentre le aziende comunali (Vivaio, fabbrica di mattoni, azienda di potabilizzazione dell’acqua, azienda di produzione della resina) ne occupano altre 300. Il limite evidente di tali iniziative è che continuano a basarsi sullo sfruttamento del bosco come unica risorsa economica. Risulta innovativo, in tal senso, il progetto Basura Cero, iniziato nel 2016, che parte dalla raccolta differenziata dei rifiuti e mira alla formazione di una cooperativa dedicata al riciclaggio ed alla trasformazione di plastica, vetro e carta; già sei mesi dopo l’avvio, la produzione di compost aveva molti acquirenti locali.
Il diritto alla parità di genere ed il diritto delle donne ad una vita senza violenza sono invece ancora lungi dall’essere garantiti, poiché anche in questo caso il corpo delle donne e l’identità femminile sono il bersaglio più evidente delle violenze analizzate. Secondo studi recenti [Gembe 2016, Márquez 2016], la diseguaglianza e la violenza di genere sono profondamente radicate nelle strutture e nelle norme di parentela della società p’urhépecha, e nei ‘ruoli tradizionali’ attribuiti al sesso maschile e al femminile. Nonostante la maggiore partecipazione politica e sociale delle donne, le testimonianze denunciano la permanenza dell’ordine patriarcale nelle relazioni sociali.
Il lento rimarginarsi delle ferite prodotte nel tessuto sociale dalla violenza anteriore e immediatamente successiva al levantamiento è un tema centrale nella dimensione della riconciliazione, considerato che molti degli attori violenti sono parte della stessa comunità. Irineo, membro del Consiglio di Onore e Giustizia, istituzione preposta alla mediazione e soluzione dei conflitti, esprime la distinzione principale che il senso comune dei cheranensi applica ai ‘cattivi’: «alcuni lo hanno fatto di proposito, altri sono entrati nella criminalità perché ingannati ed altri per necessità economica».[42]
A seguito del levantamiento, «almeno quattro persone furono incarcerate»,[43] altre furono espulse o fuggirono. Secondo Juan, le famiglie di coloro che collaboravano con la rete criminale
non furono escluse, vivono qui, alcuni partecipano nelle attività, nelle assemblee. In un certo senso è come se fosse stato cancellato il passato, la gente sa chi sono e dove vivono, li controlliamo tutti... le nostre famiglie sono così estese che ci sono relazioni [di parentela] dappertutto e per questo non ci può essere una rottura completa.
L’oblio, che apparentemente copre i responsabili della violenza criminale, occulta anche le risposte violente messe in atto dalla popolazione contro i criminali nel momento più cruento del conflitto. La vendetta, comunque, non si estese a Cherán con regolamenti di conti personali e la violenza fu presto incanalatanei processi di mediazione giuridica e di riconciliazione comunitaria.
Secondo Manuel, psicologo, le risposte comunitarie ed il passare del tempo hanno permesso la guarigione, incompleta, del conflitto e del trauma ad esso legato: «poter godere una vita più tranquilla aiuta a cicatrizzare il dolore, cosicché le perdite e le violenze subite non sono ricordate con tanta forza».
Le scuole e i contesti legati a bambini e giovani si trovarono di fronte alla necessità impellente di avviare processi di riconciliazione, come spiega Trinidad, docente di scuola media:
quando arrivò il momento di ricominciare le lezioni, ci domandammo: come riprendiamo a lavorare con i bambini? Dobbiamo lavorare psicologicamente? Realizzammo un progetto per riorientare i giovani, pensare delle attività ricreative per canalizzare il trauma e spiegare che questa lotta è giusta, che dobbiamo avere cura del territorio ed essere coscienti. Non è facile: ancor oggi in alcuni rimangono i postumi ed il rancore. Alcuni bambini i cui familiari erano stati uccisi mi dicevano: “professore, voglio essere soldato e farli fuori tutti”, e altri invece dicevano: “io voglio fare parte degli Zetas, dei Caballeros Templarios”.[44]
Il Consiglio dei Giovani e quello dei Temi Civili organizzano un gran numero di attività ricreative e culturali che stimolano la partecipazione collettiva e l’identità comunitaria. Alcuni esempi sono Radio Fogata, emittente gestita da giovani e aperta a tutti gli abitanti; i lavori collettivi (faenas); l’Orchestra Infantile e quella Giovanile -composte da ottanta bambini-; le passeggiate a cavallo e in bici; i concorsi di ballo, di canto, di murales; il festival di rap e le presentazioni di libri;[45] e le attività sportive come i tornei delle Squadre Comunali di Basket o la Gara Atletica ‘Prevenzione del delitto attraverso lo sport’ (2016).
Si osserva un impulso alla cultura intesa come elemento che permette di “ricostruire la convivenza o il tessuto sociale; creare una zona di distensione in mezzo alla violenza; dare una direzione distinta alle abitudini di vendetta che portano alla persistenza infinita della guerra; permettere la presenza del lutto o trasformare il senso stesso della politica” (Ochoa 2004: 18).
Un aspetto importante nel processo di riconciliazione è quello legato alla risoluzione dei conflitti locali, di cui si occupa il Consiglio di Mediazione e Procura di Giustizia -conosciuto anche come Consiglio di Onore e Giustizia o CHJ per le iniziali in spagnolo-, responsabile della Ronda Comunitaria. Il CHJ è composto da otto persone, proposte dalle parhankuas ed elette nelle Assemblee di Quartiere, e si divide i quattro aree: penale, civile, familiare, protezione civile e viabilità. Secondo Rubén, responsabile dell’area penale, «la mediazione è dialogare con le persone, si invita chi ha commesso un errore che lo riconosca pubblicamente e non lo ripeta. Il nostro sistema non è punitivo, non abbiamo nemmeno un carcere formale». Il CHJ, inserito formalmente nel sistema giudiziario statale, agisce dando sempre la prioritá alla relazione con le strutture collettive della comunità:
Siamo qui per la volontà di servire. Per esercitare la mediazione non c’è molto da sapere, ci vuole criterio, essere aperti ai suggerimenti delle altre persone, degli altri Consigli e delle Assemblee. Le decisioni che noi prendiamo si muovono in una direzione indicata dall’Assemblea. [46]
Il Consiglio è competente nei casi di delitti minori, come «ubriachezza, aggressione, alterazione dell’ordine pubblico, aggressione alle autorità, possesso di droga leggera».[47] Le sanzioni vanno da 24 a 32 ore di fermo, ed al pagamento di uno o due giorni di lavoro comunitario o di piccole multe.[48] «Il lavoro comunitario consiste nella pulizia o riparazione di strade, parchi, dell’unità sportiva, ecc. Alla fine consegniamo un attestato», spiega Juanita, psicologa e responsabile dell’area familiare.
Nel caso del furto, alle sanzioni si aggiunge ‘l’esposizione’ pubblica del ladro, una pratica nuova che non era mai stata realizzata prima. Una mattina trovai un giovane, in piedi sotto il chiosco edificato nel centro della piazza principale, con un cartello appeso al collo che diceva «sono qui perché mi piace rubare nelle case». Alla mia domanda, riconobbe con un sorriso che, effettivamente, aveva commesso diversi furti. Mentre parlavo con lui si avvicinò una signora che si inserì nella conversazione domandando chi erano la madre e la moglie del ragazzo, dove vivevano e come stavano; poi si allontanò e ritornò pochi minuti dopo con due brioche che porse al giovane, dicendogli “devi aver fame”. Poco dopo arrivarono due bambini, incuriositi, che iniziarono a chiacchierare con “l’esposto”, poi raggiunti dal loro nonno; anche lui si informò sulle reti familiari del ragazzo, sulla sua situazione economica e lavorativa, e iniziò a dargli consigli di comportamento.
L’episodio è emblematico: come in altre esperienze di giustizia indigena (Gasparello 2007; 2017), si osservano pratiche di giustizia riparativa che privilegia la conciliazione rispetto al castigo, nella quale i legami comunitari giocano un ruolo preponderante tanto nella sanzione come nel reinserimento di coloro che riconoscono il proprio errore.
Il CHJ svolge l’importante funzione di generare norme di convivenza, dirette alla ricostruzione di un ‘ordine’ nella vita collettiva, come questa: «si invitano cordialmente i giovani a festeggiare il Carnevale con moderazione e rispetto. Le persone che siano sorprese lanciando uova o tirando farina direttamente al viso, saranno fermate per una notte e dovranno pagare una multa».[49]
L’alcolismo, secondo il Consiglio, è attualmente la principale causa delle condotte delittuose; pertanto sono state avviate misure di controllo come la proibizione alla vendita di alcolici nelle strade del centro, e la raccomandazione di non circolare dopo le undici di sera. Nel campo della prevenzione risalta il progetto di ricostruzione del tessuto sociale della famiglia, iniziato nel 2016 con la collaborazione del gruppo Gesuiti per la pace, che consiste nell’accompagnamento delle famiglie con problemi di droga e alcolismo.
Il conflitto legato al disboscamento criminale è gestito dal CHJ con particolare sensibilità. Nonostante la narrativa comune stabilisca una netta divisione tra ‘i cattivi’ e la comunità di Cherán, nelle conversazioni più approfondite quasi tutti gli intervistati abbandonano tale discorso e riconoscono che, in molti casi, le condotte criminali hanno origine nell’esclusione e nella diseguaglianza: «molta gente cercava dei mezzi economici per sopravvivere, e se stava con la banda era per una questione di lavoro».[50] Per questo «a quelli del Cerecito all’inizio li avevano ‘assunti’ per tagliare il legname; poi gli vendettero le armi e i camion e loro iniziarono a tagliare di più, ma a quel punto i capi esigevano il pagamento di quote proporzionali alla quantità di alberi che tagliavano».[51]
La comprensione del carattere strutturale della violenza orienta e dà senso al nuovo sistema di mediazione e giustizia che sta costruendo Cherán, pertanto il criterio usato per sanzionare il disboscamento è flessibile: «cerchiamo la conciliazione. Se sono recidivi è perché sono definitivamente contro la comunità, e vengono sanzionati. Nel processo di riconciliazione non si possono vedere le cose in bianco o nero. Si costruisce nella misura in cui si costruiscono gli accordi».[52]
Sono proprio i rappresentanti del CHJ che manifestano una visione chiara dell’epicentro e delle radici della violenza a Cherán, ed enfatizzano l’urgenza di includere gli abitanti del Ceresito, i più criminalizzati, nelle politiche pubbliche, così come la necessità di creare alternative economiche come una chiave per la trasformazione del conflitto. «Tutti conosciamo le condizioni in cui lì la gente vive o sopravvive. Li abbiamo emarginati, e per questo il processo di riconciliazione è molto lento».[53]
L’analisi del conflitto di Cherán mette a fuoco il carattere strutturale della violenza, e la radice del conflitto che risiede nella diseguaglianza sociale. Le tensioni legate ai processi di emigrazione, di urbanizzazione e allo sviluppo della criminalità organizzata costituiscono lo spazio culturale e simbolico in cui si rafforzano le pratiche violente. Il caso studiato è emblematico della situazione che vive il Messico a livello nazionale, dove la povertà e la violazione dei diritti umani convivono con giri d’affari miliardari legati allo sfruttamento -legale e illegale- dei territori e delle ricchezze naturali e culturali.
Il processo sviluppatosi a Cherán, che mostra un ampio ventaglio di risposte alla violenza fondate sull’organizzazione collettiva e sulla ricostituzione di una cultura propria, indigena e migrante, contadina e urbana, è un esempio inedito di ricostruzione sociale e ambientale in un contesto iper-violento. La ricerca mette in luce anche che la trasformazione del conflitto e la formazione di pace a Cherán, che in tal senso rappresenta uno specchio del problema nazionale, implica la riduzione della diseguaglianza e dell’esclusione con la costruzione di una sostenibilità economica locale che includa ‘i cattivi’, come base per un processo di pace plurale e interculturale centrato sulla giustizia sociale.
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[1] Del conservatore Partido de Acción Nacional.
[2] Internal Displacement Monitoring Centre Global Report 2017.
[3] Registro Nacional de Datos de Personas Extraviadas, 30 giugno 2017.
[4] Instituto Nacional de Geografía y Estadística (INEGI), Encuesta Nacional de Victimización y Percepción sobre Seguridad Pública, 2016.
[5] Una revisione sintetica ma esaustiva della produzione antropologica sulla violenza si trova in Nagengast, 1994. I volumi cooordinati da Nordstrom e Robben [1995], Scheper-Hughes e Bourgois [2004)], Schmidt e Schroeder [2005] sono compilazioni rappresentative della produzione antropologica relative a diverse prospettive e interpretazioni della violenza.
[6] Si tratta dei due principali cartelli attivi nello stato di Michoacán.
[7] Trinidad, professore de la Escuela Secundaria Técnica (scuola media), 60 anni..
[8] Anónimo, ex membro della Ronda Comunitaria, 25 anni.
[9] Organo responsabile del controllo del territorio che la comunità di Cherán occupa in qualità di proprietà collettiva.
[10] L'estrazione della resina dai pini è un’attività tradizionale nella Meseta.
[11] Vicente, Consiglio di Bienes Comunales, 30 anni.
[12] María, 60 anni.
[13] Josefina, casalinga e ex resinera, 60 anni.
[14] Enedino, Consiglio Maggiore, 60 anni.
[15] Cuauhtémoc, Consiglio dei Temi Civili, 30 anni.
[16] Organo del Governo Comunale costituito dai rappresentanti dei quattro quartieri di Cherán.
[17] Manuel, psicologo, 35 anni.
[18] Josefina.
[19] Anuario Estadístico de la Producción Forestal 2012 e 2013. La resina ha molteplici derivati, come trementina, acquaragia, colofonia, naftalina, canfora, etc.
[20] Rosalío, muratore, Consiglio dei Bienes Comunales 2012-2015, 55 anni.
[21] Ernesto Martínez, “La deforestación en Michoacán, grave; 3 mil aserraderos ilegales”, La Jornada, 27 novembre 2008.
[22] Jaime Márquez, “Devastan meseta p’urhépecha en Michoacán”, El Universal, 16 marzo 2006.
[23] Humberto Padgett, “Aguacate: oro verde de los templarios”, SinEmbrago.mx, 11 ottobre 2013.
[24] Greenpeace México, “Meseta p’urhépecha, Michoacán: bosques convertidos en aguacate”, in <http://www.greenpeace.org/mexico/es/Campanas/Bosques/Geografia-de-la-deforestacion/Michoacan/>, consultato il 15 gennaio 2018; Miguel García, “Aguacateros devoran bosques; se multiplica por 10 su cultivo”, Excelsior, 25 giugno 2016.
[25] Juan, professore, Escuela Secundaria Técnica, 60 anni.
[26] Ulrike, docente universitaria, 60 anni.
[27] Trinidad.
[28] Felipe, professore del Colegio de Bachilleres (scuola superiore), 55 anni.
[29] INEGI, Censo de Población y Vivienda, 2010.
[30] Secondo i dati del Piano di Sviluppo Municipale 2015.
[31] Secretaria de Desarrollo Social, Informe anual sobre la situación de pobreza y rezago social, 2010.
[32] Andrés Aubry e Angélica Inda, « ¿Quiénes son los ‘paramilitares’?», La Jornada, martes 23 de diciembre de 1997.
[33] Luis, campesino, ex migrante, membro del Consejo de Bienes Comunales, 60 años.
[34] Ex membro della Ronda Comunitaria, 25 anni.
[35] Josefina.
[36] Simbolo del focolare come nucleo della vita sociale domestica. Nel contesto del levantamiento, si istituirono parhankua in ogni incrocio delle strade del paese come punti di vigilanza e riunione.
[37] Erandi, avvocata, 40 anni.
[38] Sentenza SUP-JDC-9167/2011 (TEPJF).
[39] Pedro, Consiglio dei Quartieri.
[40] Governo Comunale di Cherán, Rapporto di Governo 2015-2016.
[41] Mi riferisco a quelli riconosciuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
[42] Irineo, avvocato, Consiglio di Onore e Giustizia, 45 anni.
[43] Idem.
[44] Nomi di due importanti cartelli del narcotraffico.
[45] 1° Informe de Gobierno Comunal, junio 2016.
[46] Rubén, Area Civile, Consiglio di Onore e Giustizia, 45 anni.
[47] Regolamento Interno del CHJ, 2012.
[48] Idem.
[49] CHJ, comunicato, 27/02/2017.
[50] Irineo.
[51] Rubén.
[52] Irineo.
[53] Irineo.