Immagini migranti, immagini in-discriminanti

Latenze e valenze nell’uso di foto e filmati in ambito migratorio

Alberto Baldi

Dipartimento di Scienze Sociali – Università di Napoli Federico II

Table of Contents

Incipit
Le meccaniche di uno sguardo assoggettate alle necessità di una rivalsa
L’emigrato trionfante e il suo doppio sconfitto
Epifanie tridimensionali e magici riscatti
Pareva un cinematografo
Feticci vistosi e tattiche dell’apparire
Riferimenti bibliografici

Abstract. Pictures, stereoscopies and films were some of the tools that the emigrants used, when they could afford them, as a form of support or an alternative to the exchange of letters. They were a mean to better define their new status of citizens of the world, who freed themselves from the poverty of the rural and southern contexts they left. The fixed, stentorian lapidary and three-dimensional image depicted in these portraits, seemed to provide the illusion to cross the threshold of overseas metropolis or of any other place on earth. It was a cinematographic image, therefore one in motion, in the end a more realistic picture which gave to the emigrants the opportunity to show off the success of their migratory project, had it actually been realized or not. They gathered from the urban contexts where they settled down, all the necessary and technological know-how to convey, sometimes autonomously, as an amateur photographer or film maker, the winning image they wanted to send back home and project on the village walls on occasion of one of their “well planned” trips back. On these occasions, once again, the picture was necessary to strengthen their image of successful people. If on one side they meant to mark the distance from their fellow coutrymen, who had remained back at the village, at the same time they considered them as the recipients of their visual messages; denoting hence, the continuing of a relationship with them. Through the study of some cases dating back to the first half of the twentieth century, in several parts of the Italian region of Basilicata, we try to make an analysis of the specific visual and audiovisual languages adopted by some emigrants whose aim was to portray an image of themselves described with an extreme care and meant to fuel a dynamic of both parting and approaching their place of origin.

Keywords. Portrait, stereoscopy, movie camera 16mm, class discrimination, visual fetish, photography and credibility.

Incipit

Nelle procedure di avvicinamento ma pure di distanziamento che i processi migratori mettono in atto la fotografia ha sempre avuto un posto di rilievo nel tentativo di stigmatizzarle. Un profluvio di immagini, nella gran parte ritratti, sin dalla seconda metà dell’Ottocento ha consentito di mantenere un contatto de visu tra chi rimaneva e chi partiva, rassicurando sulla buona salute e su un’esistenza vissuta anche con pochi mezzi ma dignitosamente e decorosamente, raccontando di nuove nascite e dipartite, di comunioni e matrimoni, ma al contempo aprendo su nuovi orizzonti destinati a sottolineare il benessere raggiunto ed un tempo da dedicare al loisir, alla ricreazione e al divertimento.

Chi dalle “Americhe” intendeva continuare a tessere un rapporto con i congiunti in Italia, affidava dunque alla foto il compito di definire un’immagine attentamente dettagliata di sé, che da un lato rinfocolava la sacralità dei legami familiari e dei loro tradizionali istituti, ma dall’altro doveva attestare la bontà della scelta effettuata, quella di emigrare, illustrandone ed evidenziandone gli esiti positivi.

Foto della “casa” come valore basilare, agognato e conquistato, immagini degli interni, soprattutto di salotti e tinelli[1], ritratti accanto ai benefit del progresso e ai simboli della modernità, radio, televisori e altri elettrodomestici, ma pure foto scattate all’esterno che variamente declinavano la possibilità di avere a disposizione e di spendere del tempo in attività di puro e semplice svago, in ristoranti, grandi magazzini, scampagnate, parchi naturalistici e di ludico intrattenimento, in spostamenti meglio se a bordo di una voluminosa auto americana[2], raccontavano, dunque, di un successo raggiunto o comunque lambito, sempre messo in scena.

Se per la realizzazione del racconto della propria vicenda migratoria l’emigrante si metteva soprattutto nelle mani di un fotografo professionista confidando nelle opportunità garantitegli dal suo atelier, ben più raramente e a partire dagli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento sarà invece lo stesso emigrato, nei panni, ora, del foto dilettante munito di Kodak, a documentare e a enfatizzare gli esiti del proprio progetto migratorio. Con l’avvento della foto amatoriale si moltiplicano e si declinano maggiormente le occasioni da immortalare inerenti soprattutto la vita familiare di cui si documentano i riti festivi e la quotidianità, prime comunioni, nozze d’argento e d’oro, compleanni, diplomi, pranzi e barbecue nel giardinetto, gite, ferie, riunioni e cenoni in occasione del Natale e del capodanno, giri per i negozi, consumazioni al bar. Se gli eventi che si chiede alla folding, alla compatta a telemetro, in qualche caso alla biottica e alla reflex di immortalare si infittiscono, il fine è in buona sostanza quello di sempre, ovvero l’oggettivazione, ora minuziosamente reiterata e didascalica, di una buona qualità dell’esistenza di un radicamento soddisfacente nei luoghi di emigrazione, di un’assuefazione a stili di vita “moderni”, emancipati, vincenti.

Siamo a tutti gli effetti al cospetto di immagini che al pari di certe parole tagliano, affilate come una lametta. Foto ma pure, come vedremo, riprese filmate e quindi registrazioni video destinate a far male nel momento stesso in cui assolvono parallelamente all’esigenza opposta, quella di celebrare un perdurante sodalizio affettivo, parentale e amicale che l’icona stigmatizza e celebra superando le oggettive distanze. Immagini, dunque, che aprono una ferita mentre la suturano.

L’emigrato ad esse si affida per imbastire un teatrino più o meno suntuoso, più o meno veritiero riverbero di una vita nuova ricalibrata su economie e standard “urbani” ed “abbienti”, moderni e tecnologici, con cui sconfiggere, cancellare un passato mortificante dal quale affrancarsi con decisione.

Immagini che celebrano uno strappo con la vita cenciosa di prima e con coloro i quali, i paesani a casa, in quella vita sono rimasti inviluppati.

Non si tratta, però, solamente di uno strappo.

L’emigrato si produce in un racconto di sé, puramente iconografico perché meglio e più immediatamente “evidente”, indirizzato, per apparente paradosso, a chi non identifica più come un proprio interlocutore, a chi, dal suo punto di vista, non ha avuto il coraggio di saltare la staccionata. Sa che la vis talora caustica delle sue foto, delle sue “filmine”, della sua comunicazione visuale ed audiovisuale intinta in uno spirito di rivalsa, ora smaccato, ora più subdolo, surrettizio, è destinata a una platea ben definita, quella di congiunti ed amici lasciati in Italia. Lasciati ma non abbandonati perché in essi siffatta comunicazione deve e vuole specchiarsi, perché solo mediante essi acquista senso e valore. L’immagine celebra allora, come dicevamo, uno strappo che per essere considerato tale ha però ancora bisogno del tessuto da cui, slabbrandosi, lacerandosi, si è scisso. Mostrando in pretenziosi album rilegati in pelle, talora impreziositi da incisioni in oro zecchino, i personali photoreportage della “sua” America, proiettando, anche letteralmente, mediante un proiettore 8 o 16mm, le immagini della sua nuova esistenza dinnanzi agli occhi di chi non fa più parte della sua vita, l’emigrato acquisisce e sente di poter sancire il suo nuovo status di uomo moderno, svincolato dalla sua precedente condizione di cafone, di bifolco, di morto di fame.

In ciò invece disvela un’identità spesso ineluttabilmente transeunte, che, appunto, si manifesta tale proprio nella misura in cui confida nella natura ambigua, fortemente declaratoria e oggettiva, quanto pure più o meno artificiosa delle immagini. Sono esse il mezzo mediante il quale vorrebbe sancire questa sua rinnovata e autonoma identità, urlarla a gran voce: sono invece, in diversi casi, incerto puntello con cui soltanto inscenarla, disegnarla, apparecchiarla, ancora auspicarla, sognarla e metastoricamente costruirla e rappresentarla dinnanzi all’obiettivo.

La dinamica pencolante e pendolante che lo porta a voler condividere questa “proiezione” di sé in un nuovo mondo con la gente, invece, del suo vecchio mondo, segnala e tradisce un processo incompiuto, in itinere, in cui si ha ancora bisogno di una sorta di approvazione indiretta da parte dei propri parenti, degli amici di una volta, capace di estrinsecarsi, per iperbole, anche attraverso una patente disapprovazione che implicitamente sancisce però una riconosciuta diversità. Sono ancora loro gli spettatori che, obtorto collo, volenti e nolenti, dovranno giudicare e ratificare il successo del congiunto emigrato. È attraverso loro che chi espatria intende misurare il successo della propria iniziativa. Sono loro la sua cartina di tornasole. È in essi che egli si riflette, è in lui che egli vuole che essi si debbano specchiare.

Le meccaniche di uno sguardo assoggettate alle necessità di una rivalsa

Cerchiamo ora di individuare più dappresso l’articolarsi e il definirsi delle procedure che soprintendono alla produzione di una ritrattistica fotografica che l’emigrante intende riconfigurare e rifunzionalizzare per farne veicolo fortemente assertivo della piena riuscita del disegno migratorio[3].

La comunicazione che egli attiva non è scevra da cortocircuiti che possano appannarne l’efficacia.

Con il contributo saliente del fotografo a cui si è rivolto, l’emigrante innesca, pur non essendone pienamente consapevole, un reticolo di dinamiche e relazioni che è già proprio della foto di famiglia e soprattutto della ritrattistica. Tale reticolo si traduce però nel nostro caso in un vero e proprio campo di forze [Barthes 1980: 15]. Autore del ritratto, soggetto dell’immagine e “destinatario” della foto, generano e alimentano ognuno, un ambito di aspettative di duplice natura, ove ogni attore di questo singolare processo interviene da un lato con il proprio punto di vista ma dall’altro in relazione al punto di vista dal quale suppone partano gli altri attori.

Tale intersecata procedura che sottostà alla ritrattistica familiare e dunque anche a quella prodotta dall’esperienza migratoria dissimula nodosi, involuti filamenti culturali ed identitari, affettivi e di sangue, che continuano, perciò, a correre, sotterranei, nel rapporto, tutt’altro che definitivamente resecato, ma anzi alimentato, anche inconsapevolmente, da chi è partito nei confronti di chi è rimasto. Non è così detto che le intenzioni di chi si è fatto fotografare collimino con la valutazione di chi si vedrà recapitare il ritratto. Non è altresì detto che l’interpretazione dell’immagine si fissi, inossidabile, nel tempo, dando invece luogo negli anni al sovrapporsi di ulteriori letture parzialmente o del tutto dissonanti. Più volte, nell’ambito delle procedure da noi utilizzate per ricostruire la storia di una fotografia sul piano denotativo e connotativo, abbiamo riscontrato questo slittamento di accezioni, la presenza di una stratificazione di significati più o meno dissonanti, segno del mutare nel tempo e nei luoghi dei metri di giudizio e dei valori attribuiti alla ritrattistica di ambito migratorio. Un ritratto “americano” ove gli emigrati ripresi ostentano posture guascone, sguardi e sorrisi ammiccanti, una tattile e morbida prossimità tra uomini e donne attorno a un tavolo su cui si brinda e mangia a quattro palmenti può essere giudicato sconveniente se non scandaloso in un consesso meridionale ove notoriamente il sorriso è bandito dai volti in una foto a cui ci si rivolge quasi esclusivamente per conservare l’immagine di un rito di passaggio, il battesimo, la prima comunione, il matrimonio, la morte. In diversi frangenti la foto “licenziosa”, perché licenzia modalità relazionali innanzitutto tra i sessi disapprovate, finisce sul fondo di un cassetto, salvo poi ad essere riesumata e debitamente esposta in cornice dai nipoti e pronipoti dei soggetti ritratti che in quegli atteggiamenti scorgono invece i precoci ed ammirabili segni di una moderna disinvoltura dei propri avi. Più avanti avremo modo di fornire un significativo esempio di quanto abbiamo appena detto.

Ci preme qui sottolineare la presenza e l’azione di questo campo discrasico di significazioni che interviene a distorcere la comunicazione tra emigranti e loro familiari rimasti a casa, comunicazione che invece alla foto si affida nel tentativo opposto di veicolare messaggi chiari e diretti, adamantini e inconfutabili. In questa prospettiva ci pare quindi opportuno, come il titolo di questo nostro contributo ricorda, parlare di fotografie in-discriminanti.

Se la ricordata intersecata procedura di sguardi può pigliare strade diverse da quelle preventivate ab ovo dai soggetti, se il ricevente decodifica il messaggio che gli giunge dal mittente non sempre nell’accezione e nella direzione da questi auspicate conviene allora tentare di mettere in evidenza le possibili cause di cotale intermittenza comunicativa.

Ci pare opportuno prendere in specifica considerazione il codice mediante il quale emigrati e loro parenti almeno fino alla metà del Novecento producevano e leggevano il ritratto fotografico di cui erano i soggetti. Parrebbe un codice condiviso, con la sola mediazione, come si diceva, del fotografo di studio che a sua volta era però figura socialmente e culturalmente del tutto interna al consesso in cui operava.

In un’epoca e nell’ambito di un’Italia meridionale dove l’analfabetismo era ancora relativamente endemico la foto, apparentemente controllabile de visu, rispetto alla parola soprattutto scritta, alla “carta” quale minaccioso veicolo di una lingua oscura e minacciosa, veniva generalmente accolta come veicolo di comunicazione a cui, in virtù del suo presunto alto grado di referenzialità e di “indiscutibile” obiettività, poteva essere accordata piena fiducia.

Il ritratto fotografico assumeva dunque una funzione declaratoria, raccontando di nascite, di battesimi, di matrimoni, di lutti ed ancora di luoghi e circostanze in cui i soggetti desideravano far sapere di essere stati presenti, ad esempio, processioni, feste patronali, adunate, inaugurazioni, visite di autorità politiche ed ecclesiastiche. Da tale funzione declaratoria discendevano gli stilemi che presiedevano alla composizione del quadro e alla determinazione di pose ed espressioni. Se il fine era quello di rendersi ben intellegibili, subito distinguibili, i volti dovevano essere diretti verso l’obiettivo con sguardi seri e compunti, le pose prevalenti erano statiche e quasi statuarie, l’abbigliamento assolutamente decoroso ma sobrio.

Si trattava di ritratti che in prima battuta dichiaravano un conformismo alla comunità di appartenenza.

Rimaneva certamente uno spazio per la connotazione di genere, ceto, professione in cui il compito dichiaratorio del ritratto poteva arricchirsi di contenute nuance “promozionali”. Ecco allora che la foto di un gruppo familiare doveva stigmatizzare parimenti la leadership e il valore della discendenza maschile: padre al centro con il primogenito accolto tra le gambe del genitore, moglie e figlie in quinta, ai due lati dell’immagine. Ecco, ancora, che le nozze o le esequie se celebrate da una famiglia di rilievo non potevano prescindere da un servizio fotografico che dettagliasse tutte le fasi del rito indugiando sul corteo, sulla quantità di persone presenti, sulle decorazioni floreali[4]. Anche soltanto in un semplice ritratto a mezzo busto erano previste delle licenze tali da ingentilire e aggarbare il soggetto: il contadino si nettava le unghie per dissimulare la sua origine esibendo, appoggiate sulle gambe, le mani finalmente pulite; se sprovvisto di un abito dignitoso il fotografo aveva spesso con sé una giacca e una camicia da far indossare al cliente di umili origini. Nello studio non mancava una vecchia coda di volpe che consentiva alla donna di esibirsi in pelliccia. Orecchini, catenine al panciotto, anelli potevano essere dipinti in oro sulla stampa in bianco nero con un ovvio sovrapprezzo.

Siffatti criteri sono in linea di principio anche quelli adottati per la realizzazione dei ritratti che gli emigranti si fanno fare per rispedirli a casa. Pure in questo caso si intende dichiarare l’adesione ai valori della comunità originaria: avremo dunque altrettante foto di matrimonio, di prime comunioni, di festività che in prima istanza rassicurano chi è rimasto al paese denotando la conformità del congiunto stabilitosi oltreoceano agli istituti culturali tradizionali.

È però la dimensione connotativa a crescere e ad articolarsi in modo, oseremmo dire, esponenziale, è l’ampio corredo di varianti sul tema che provengono dai territori di arrivo a riformulare profondamente i canoni d’origine della ritrattistica fotografica. Le multiformi, vistosissime concrezioni promozionali della foto d’emigrazione annichiliscono assai spesso quello che un tempo era il riconoscibile, evidente pilone, il granitico basamento della foto familiare, ovvero, per dirla con una battuta, “dio, patria e famiglia”.

La foto d’emigrazione perde la sacralità con cui sottolineava l’adesione all’universo culturale consegnato dal passato, facendosi laica, o, se si preferisce, rivestendo tale passato, ricoprendolo, mascherandolo con i mille lustrini, con le scintillanti falene di un mondo nuovo che finiscono per attribuire inediti e inusitati significati ai vecchi istituti. Quell’«apparire» che, come abbiamo visto, serpeggiava contrito tra le foto familiari prodotte in patria, costantemente rintuzzato da un cattolico «essere» che esigeva sempre il proscenio, ora esonda e dilaga, fortemente risemantizzando la scena e riconvertendone gli assunti ispiratori.

Agisce ora, dietro le quinte, l’ansia ossessiva dell’emigrante, partito, anche quando può avvalersi di preesistenti catene migratorie, di dover dimostrare a sé stesso e agli altri il successo di un progetto migratorio mai scontato. La foto lo aiuta a raccontarsi e a raccontare agli altri un sogno, lo sostiene nella rappresentazione di una nuova e felice condizione esistenziale da opporre a quella preesistente e meschina vissuta in qualche depresso borgo meridionale. Se, come ricordato, i valori di fondo sono i medesimi, di qua e di là dall’oceano, lo scarto si gioca tutto su una loro assai differente e decisamente roboante raffigurazione.

Per allestire codesta raffigurazione debbono essere stravolti quei codici che presiedevano alla messa in forma del ritratto fotografico così come declinato al paese ed a cui più sopra abbiamo accennato.

Entra qui nuovamente in scena il fotografo, un fotografo autenticamente professionista[5] che ha i mezzi tecnici e creativi per far lievitare oltremisura lo spessore ora fortemente laico e secolare del ritratto, per enfatizzare non più o non solo il matrimonio ma la ricca, pingue, suntuosa quantunque prosaica cornice in cui è stato celebrato[6]. Affermazione e ricchezza, tali o presunte, ridipingono interamente la scena. È un must da cui non si può e non si vuole prescindere.

A scendere in campo è pure l’emigrante medesimo che attraverso certune sorprendenti strategie contribuisce non poco a esaltare, dilatare e fortemente teatralizzare ciò che il ritratto fotografico “americano” già gli consente di mettere in scena. Ci aggiunge del suo a piene mani inserendo la fotografia e in taluni rari ma assai significativi casi la cinematografia in una “performance” di più ampio respiro di cui egli è e deve essere senza possibili equivoci l’assoluto protagonista, il regista e pure un suadente storyteller che racconta innanzitutto a sé stesso e quindi ai paesani sbigottiti, increduli, ammirati, invidiosi il suo successo robustamente sorretto da fotografie e riprese cinematografiche del mondo nuovo, del suo nuovo e sfavillante cosmo. In tal senso può egli sostituirsi, si direbbe oggi, ai “professionisti dell’immagine” prendendo in mano le redini dell’intero processo foto-video narrativo. Lo può fare in virtù di un know-how che gli è messo a disposizione dai contesti statunitensi nei quali si è insediato e dove le affermazioni di una tecnologia professionale hanno velocemente una loro ricaduta sull’immenso mondo dei consumer, nel nostro caso di fotografi e cineasti in pectore ai quali l’industria propone gli strumenti più idonei per cimentarsi nella produzione amatoriale di immagini.

Qui di seguito presentiamo una selezione di casi a nostro giudizio variamente e significativamente eloquenti del modo in cui l’emigrante ricorre ad una comunicazione squisitamente visiva mediante la quale dare concretezza non tanto e non solo al suo inserimento fattivo nel tessuto socioeconomico del paese di accoglienza quanto, almeno, a un’immagine efficace e plausibile di un inserimento nei fatti ancora di là dal concretizzarsi e perciò da lasciare in ombra. Si tratta di casi emblematici e sintomatici delle differenti strategie elaborate per congegnare e propagare una sembianza di sé vincente e convincente, simili dunque negli intenti e nei fini che si prefiggono ma assai differenti nelle modalità con cui intendono raggiungerli. Casi che prendono tutti le mosse da un’apparenza luminosa e persuasiva, ponendola al centro dell’articolato progetto che su di essa si impernia per “proiettare” su chi è emigrato l’aura incontestabile e irriducibile del vincitore, di colui che ce l’ha fatta. Casi che in tempi non sospetti mettono in evidenza come pure in ambito popolare si intuisca e si persegua deliberatamente, benché talora ingenuamente, un impiego controllato del mezzo visivo per confezionare “verità” utili a chi le produce.

L’emigrato trionfante e il suo doppio sconfitto

In principio furono dunque le foto a imbastire questo testardo dialogo a distanza che soprattutto l’emigrato esigeva di tenere aperto con i parenti al paese. Come preannunciato, erano, tali immagini, in fin dei conti replica, dei generi già praticati in patria, ma reinterpretati, evidenziati ed enfatizzati secondo stilemi ampollosi, ridondanti e roboanti che facevano di esse delle “icone” letteralmente sbalorditive. A cornici spesse e vistose, impreziosite da filetti d’oro, da fioriture liberty, il compito di mandare in scena la fotografia prefigurandone e nobilitandone anticipatamente i contenuti. Passepartout, dunque, in guisa di quinte teatrali con il compito di indirizzare lo sguardo verso la foto, conducendo l’osservatore attraverso un "imbotto" che per sua eleganza già preannuncia la ricchezza iconica dell’immagine. E poi, alfine, lei, la foto, che per raccontarsi esige innanzitutto un formato generoso, talora inusitato proscenio necessariamente ampio per accogliere degnamente i soggetti, per appaesarli in un sapiente tourbillon di arredi e suppellettili che “nobilitano” il set.

Foto esplosive in grado di scardinare fragorosamente, a livello connotativo, generi fotografici che, quando praticati al paese d’origine, erano poveramente apparecchiati, costretti entro formati ridotti e ambientazioni dimesse.

La foto americana che li reinventa in profondità con amplissime “licenze poetiche” stupisce mortificando, mortifica stupendo.

Lo fa, come visto sin qui, riutilizzando e risemantizzando una comune e condivisa funzione attribuita alla ritrattistica che declina sé stessa in una serie di generi fotografici canonici che pertengono innanzitutto la vita familiare, della quale scandiscono riti di passaggio, ricorrenze e festività, e la famiglia, di cui ribadiscono ruoli ed aspettative. L’emigrante confida dunque sullo slittamento di senso di tali canoni che tradizionalmente condivide con i paesani. Lo scarto chiama decisamente in causa le significazioni sociografiche, iconografiche e socioculturali [Mattioli 1991: 157-161] del ritratto, su di esse lavorando e su di esse costruendo il messaggio ultimo da associare all’immagine.

In tal senso la foto d’emigrazione imbelletta, incipria più o meno marcatamente i generi prevalenti attraverso i quali si esprime, riconfigurandoli.

Può darsi però anche il caso in cui la reinvenzione si faccia totale e spiazzante, in qualche modo travalicando i medesimi generi e creandone di nuovi dove la teatralità della messa in scena si tramuta in un vero e proprio coup de théâtre, in una favolistica glorificazione degli esiti fausti della scelta di migrare che non ammette repliche. È questo il caso di un ritratto sbalorditivo, impietoso, tranciante, ma al contempo ironico e, per certi versi, in qualche modo, compassionevole firmato da un emigrante e fotografo lucano che fece la scelta di stabilirsi negli Stati Uniti fermamente intenzionato a continuare nel suo mestiere di ritrattista. Stiamo parlando di Nicola De Carlo[7], che, assieme al fratello Vincenzo, decise di lasciare Ruoti, ove comunque viveva dignitosamente, anche grazie a certune proprietà di famiglia. Partì, come da prassi, criticato dai paesani, che data la sua condizione economica decente, ancor di meno compresero la sua scelta. Nicola, sull’eco delle esperienze positive fatte da altri migranti, a conoscenza dei loro successi d’oltreoceano, se ne va con l’idea di dare nuovo impulso alla propria professione, intenzionato ad aprire uno studio come si deve, moderno, elegante, tecnologicamente avanzato, diremmo oggi. Al pari, ad esempio, di certi borghesi benestanti della ricca e agiata lucchesia che dettero vita nei primi tre decenni del Novecento ad un flusso migratorio innescato dall’esigenza di incrementare i loro affari e il loro patrimonio, nel suo piccolo, anche De Carlo si muove in questo solco, adotta questa prospettiva. Si imbarca a Napoli con la famiglia e il fratello portando con sé un gruzzolo con cui avviare su diversa e più ambiziosa scala la professione di fotografo. Siamo alla fine degli Anni Dieci del secolo scorso. Passa qualche tempo ed ecco che i congiunti rimasti in Basilicata ricevono notizie dei loro parenti espatriati. Le cose stanno andando bene e a provarlo non sono solo le lettere ma alcune foto. I De Carlo si sono stabiliti a Filadelfia ove hanno aperto un negozio di fotografia in cui si vendono pure cornici e si effettuano riparazioni di strumenti ottici, apparecchi fotografici, occhiali. Dello studio che conoscerà più di un’ubicazione giunge alfine una foto, prova materiale inequivocabile di un lavoro felicemente avviato in una sede di tutto rispetto per dimensioni e decoro. Siamo ben lontani dagli studi lucani ricavati in sottani, in sottoscale, in stalle, comunque in locali angusti, senza vetrine ma, tutt’al più con bacheche appese alla parete esterna del negozio o ai due battenti dell’unico portoncino di ingresso. La foto del proprio atelier che Nicola condivide con il fratello intestatario della ragione sociale non è che un antipasto di un pranzo decisamente ben più indigesto, assai difficile da mandare giù che il fotografo sta preparando per i parenti in Lucania.

Anni Dieci, Venti, dicevamo: epoca di rapidi cambiamenti economici e culturali, anche di suffragette che ventilano con coraggio un’emancipazione sociale della donna. Nicola ha una giovane figlia che respira questo clima, che vive la sua giovinezza in una grande città americana, che ambisce a far propri e ad esibire i segni di un’esistenza improntata alla modernità e a una certa mondanità. Tale ambizione viene risolutamente, inequivocabilmente stigmatizzata ancora una volta ricorrendo al segno indelebile, incontrovertibile di una fotografia.

Non si prende più a prestito una ricorrenza familiare, non si ricorre più ad un genere della foto familiare da ricomporre e risemantizzare in filigrana. Qui si concepisce invece e si realizza un’immagine ad hoc che non lascia scampo, che lascia senza fiato chi la osserva, a nostro modo di vedere ieri come oggi. Se le foto con cui solitamente l’emigrato intendeva illustrare ai paesani il successo raggiunto puntavano tutto sul “come si era diventati”, lasciando a chi era rimasto in Italia, di misurare, attraverso queste immagini, la propria condizione di indigenza, di diseredato senza prospettive di riscatto, qui invece il “come sono diventato” vittoriosamente sottolineato dall’emigrato viene da lui medesimo esplicitamente, direttamente ed impietosamente messo a confronto al “come e dove sono rimasti”, impantanati, inani, indigenti, i propri compaesani che ne criticarono la scelta migratoria. Tutto in una medesima foto.

De Carlo, dimostrando peraltro un’abilità nel fotomontaggio assolutamente impareggiabile, degna di competere in tutto e per tutto con i moderni programmi di grafica e fotoritocco digitale, realizza due ritratti della figlia che poi accosta l’uno all’altro dinnanzi ad un fondale pittorico con tanto di colonnina e piante ornamentali. Le due figure, frontali rispetto all’obiettivo, sono divise da un tavolinetto in primo piano, unico elemento di arredo di una foto eminentemente pulita, scenograficamente alquanto essenziale, sgombra. Evidente in ciò l’intento di Nicola di concentrare l’attenzione di chi avrebbe osservato la foto sui soli soggetti. Soggetti che recitano una scenetta, che assumono due ruoli e due status antitetici e in tal senso del tutto eloquenti attraverso sguardi, pose e vestiti differenti. A sinistra la figlia del fotografo, su una gonna scura e di taglio semplice, indossa soltanto una camicetta chiara con colletto plissettato dalle ondulazioni irregolari: una vistosa rosa, incorniciata dalle sue foglie, è appuntata sul petto. La ragazza ostenta dunque una mise che oggi forse definiremmo “casual”, o giù di lì, un tantino scanzonata, sbarazzina, che sottolinea una femminilità, compatibilmente con i tempi, garbatamente e consapevolmente esplicitata, fresca, moderna, urbana. La ragazza, altresì a capo scoperto e vezzosamente piegato da un lato, mentre fissa in macchina, si apre ad un sorriso: le labbra appaiono socchiuse, gli occhi sono ammiccanti e sembrano accompagnare il gesto inscenato dalla giovane. Sta ella indicando con l’indice del braccio destro piegato a squadra la persona che le sta a fianco, il suo doppio, ma in abito tradizionale lucano. La vivacità ed il movimento della figura di sinistra scompaiono bruscamente in quella di destra, muoiono affogate in una posa statica, chiusa in sé stessa, inerte, o meglio, definita tale da una faccia che si è fatta, nel frattempo, seria, impenetrabile, anche imbronciata, quasi grave, nonché dalle mani nelle mani. Gli occhi appaiono opachi, inespressivi mentre il volto è occluso, vignettato, parzialmente negato allo sguardo altrui dalla “tuvaglia”, da un copricapo scuro che, per così dire, “inscatola”, anche sui lati, il viso. Il busto della giovane è stretto in un corpetto che lo rende tozzo. Un collare in stoffa a cui è appeso un prezioso e le maniche scure finemente e riccamente ricamate definiscono un abito festivo appannaggio di un ceto abbiente ma comunque “paesano”.

La giovane “americana”, disinvolta e canzonatoria, prende dunque in giro la precedente versione di sé: quale crisalide che esce alfine dal suo goffo bozzolo in cui si è svolta la sua precedente vita di bruco, si è fatta leggiadra farfalla dispiegando alfine le sue ali per spiccare il volo in una società supposta nuova, migliore, moderna. Pare di essere di fronte all’ultima illustrazione del libro di Pinocchio in cui il protagonista, ora in carne ed ossa, osserva e commisera la sua precedente condizione di marionetta appesa ai suoi fili, ai ceppi di un’esistenza grama, condotta con scarsa consapevolezza di sé, preda di un destino avverso. Ci piace supporre che Nicola De Carlo, consciamente o meno, abbia trasposto in questo ritratto sui generis della figlia, gli stilemi di un’iconografia collodiana.

Sta di fatto che questa foto, già stupefacente e incredibile per l’esecuzione tecnica sbalorditiva del fotomontaggio, ed in ciò, anche solo così, manufatto alieno agli occhi di coloro a cui viene recapitato in Basilicata, crea un esplicito, voluto baratro tra un prima ed un dopo, sancisce, con un’ironia agrodolce che raggela e si fa perentoria, il successo del progetto migratorio che feconde prospettive apre anche e soprattutto alle nuove generazioni affrancandole dalla precedente condizione di arcaico, improduttivo immobilismo.

La storia non finisce qui: dopo anni in cui questa foto rimane celata e riposta in un cassetto, fastidioso e mortificante memento per chi la propria esistenza ha continuato a spendere nei conchiusi perimetri del paese, alfine viene però recuperata ed esposta, valorizzata da spessa e vistosa cornice. Mutati i tempi, fattisi strada anche in Basilicata modelli che ammiccano a stili di vita cittadini non più temuti e demonizzati, il fotomontaggio della figlia di Nicola, per traslato, diviene ora eloquente e promozionale manifesto del saper fare di una famiglia lucana che sul suo ramo “americano”, più intraprendente, fonda, a buon mercato, un distinguo tutto interno alla comunità di origine, in ciò ricomponendo uno strappo, o, se si preferisce, riusando su scala locale questo ritratto, per ribadire una qualche supremazia se non economica, comunque culturale e sociale.

Epifanie tridimensionali e magici riscatti

Le immagini tridimensionali che in questi ultimi anni tanto successo stanno riscontrando come ulteriore, avveniristica frontiera del cinema, delle play station e dei visori stereoscopici digitali utilizzabili con gli smartphone, di avveniristico non hanno molto: se si esclude il valore aggiunto, sicuramente indubbio, garantito dalle possibilità offerte dal digitale, il principio della tridimensionalità era ben conosciuto e sfruttato commercialmente già nell’Ottocento. All’epoca la foto 3D, o più correttamente la stereoscopia, aveva generato la produzione di apparecchi di ripresa e di visione tridimensionale di svariate fogge, a colonna, da tavolo e portatili, realizzati in piccole serie artigianalmente o industrialmente su ben più larga scala, che utilizzavano lastre in vetro e stampe stereografiche in bianco e nero o colorate a mano, fabbricati soprattutto da ditte inglesi, francesi e americane a partire dalla seconda metà dell’Ottocento[8]. «The stereoscopomania, sparked by the introduction of the stereoscope, the first true domestic media machine, would explode only after the Crystal Palace Exhibition»[9] [Huhtamo 2013: 190], dunque già a partire dagli anni cinquanta del 1800. Successivamente, in pieno Novecento, la View-Master, ad esempio, ancora oggi esistente, in partnership con la Kodak per la pellicola positiva a colori da essa impiegata, la Kodachrome, fece della visione tridimensionale il suo cavallo di battaglia e, soprattutto, un vero e proprio affare[10] conquistando i mercati più diversi e lontani con un piccolo visore in cui si inseriva un disco rotante di cartone su cui erano ricavate delle finestrelle equidistanti contenenti le stereodiapositive.

Potevano i nostri emigranti in cerca di oggetti esemplari della loro rinnovata condizione di uomini moderni, in cerca di simboli di status vistosi con cui marcare una distanza dai paesani lasciarsi sfuggire l’occasione loro offerta dalla foto stereoscopica? Certamente no.

In due circostanze, nel corso delle nostre ricerche in Basilicata, a Lavello, e sulle Dolomiti lucane, a Castelmezzano, abbiamo rinvenuto due visori stereoscopici accompagnati da un cospicuo corredo di stampe realizzate per la visione tridimensionale che emigranti tornati, solo momentaneamente, al proprio paese per celebrare nella comunità di origine il successo ottenuto in America, usarono per fare scena, per sbalordire parenti e amici con gli ultimi ritrovati di una scienza e di una tecnica del tutto sconosciute nelle contrade rurali del Mezzogiorno[11].

Ci soffermiamo qui sul signor D’Alessandro al cui nome di battesimo non è stato purtroppo possibile risalire, che agli inizi del Novecento lascia Castelmezzano per raggiungere l’America. Dopo qualche anno di assenza, nel 1906 torna al paese, pare con la moglie, per sistemare alcune pendenze, in realtà per “chiudere” definitivamente casa e riconsegnarsi agli Stati Uniti da cui non farà più ritorno. Coglie però questa occasione che sa, in cuor suo, essere unica per attribuire al rientro i connotati fortemente espliciti di una festa di cui deve essere il protagonista, il solo indiscutibile artefice, l’assoluto demiurgo, una festa che suggelli un netto e patente distinguo tra lui, nella sua rinnovata identità americana, e i paesani prigionieri inerti dello stigma contadino.

Entra dunque in scena uno stereoscopio che egli ha condotto con sé dall’America. Nei pomeriggi del suo estivo soggiorno tra le guglie delle Dolomiti lucane lo porta all’esterno della sua abitazione, sistemandolo su una sedia, in un piccolo slargo. I vicini, i parenti, gli amici sono invitati ad avvicinarsi a quello strano binocolo, a guardare attraverso le sue lenti.

D’Alessandro conta su un duplice scombussolante effetto, su uno scarto costruito su due piani. Innanzitutto la sensazione di spiazzamento sta certamente nella singolarità dello strumento: accostando gli occhi al visore stereoscopico l’immagine che in esso si compone assume nello spazio di alcuni secondi una tridimensionalità progressiva che fa letteralmente sobbalzare e gridare di meraviglia chi a tale prodigio mai aveva sino ad allora assistito.

In seconda battuta va pure adeguatamente valutato ciò che, in piena consapevolezza, il nostro emigrante decide di far vedere in modalità “3D”. Sono foto scelte con oculatezza, con calcolo quasi cinico. Raccontano innanzitutto l’America, le grandi città statunitensi, le vie affollate di traffico, i palazzi di centinaia di piani svettanti arditamente verso l’alto, il cosmopolitismo, Broadway, Wall Street, la Fifth Avenue, la Madison Square, Brooklyn e poi le bellezze paesaggistiche del nuovo continente, le Niagara Falls, i picchi della Yosemite Valley, le Montagne Rocciose, ma pure molteplici altri luoghi del mondo, Roma con Palazzo Colonna e il Colosseo, il Vaticano e l’interno di San Pietro, Venezia e Milano, l’Inghilterra con Oxford, l’Irlanda, la Francia con Parigi, Monte Carlo con il suo Casinò, la Svezia con Göteborg, la Svizzera con la valle del Grindelwald e il passo del San Gottardo, la Spagna con Granada, Algeri, la Palestina, il Cile e Valparaiso, il Giappone con Tokio, la Corea, l’Egitto e la valle delle piramidi, Honolulu e le Hawaii, l’India e Singapore, la Russia con il Cremlino e San Pietroburgo, la Cina e Shanghai. Seguono quindi immagini di leziosi interni borghesi di stampo anglosassone, di lussuose abitazioni, di giardini ben pettinati con bimbetti e cagnolini che vi sostano, di feste di Natale celebrate con sfarzo inaudito tra alberi riccamente addobbati e bambini ben vestiti attorniati da una pletora di giocattoli.

Questo nostro emigrante nel corso di tale sua rentrée organizzata ad arte, attraverso il visore stereoscopico che poi, munificamente, lascerà in dono ai parenti - dono così particolare da impedire qualunque tentativo di ricambio di pari livello, con buona pace del meccanismo della reciprocità disinnescato sul nascere - mediante tale apparecchio, dicevamo, offre un affaccio su quei mondi lontani che lui sì ha avuto il coraggio di raggiungere, insediandovisi convenientemente o facendo comunque credere di esservisi insediato felicemente. La foto tridimensionale trascina per un attimo con un effetto di realismo impressionante il paesano in quei convulsi contesti urbani scintillanti di luci ed insegne, pullulanti di gente, di auto, di omnibus, di grattacieli e strade sopraelevate dandogli l’illusione di poterli toccare con mano, di entrarvi, di aggirarvisi concretamente. Si pensi all’effetto che tali affacci sulle località più disparate del globo terracqueo abbiano avuto su chi da un paese all’epoca di qualche centinaio di anime, abbarbicato e nascosto tra cuspidi di roccia a 750 metri sul livello del mare, contraddistinto dalla presenze di dimore talora trogloditiche non si era mai allontanato.

L’emigrante porta dunque la “sua” America e con essa la sua rinnovata condizione di uomo moderno e al passo con i tempi, nelle nostre arretrate campagne. Con l’escamotage della tridimensionalità elargita a piene mani, a cui i paesani, addirittura in fila dinnanzi all’abitazione dell’emigrante, attendono di essere introdotti, autentici iniziati di una pratica magica e magante e tale perché ne ignorano il funzionamento apprezzandone però gli effetti, il nostro emigrante sancisce la sua nuova incommensurabile, inarrivabile identità. Un’identità che egli vuole capace di alludere a una condizione economica e sociale prestigiosa, nei fatti forse assai meno solida e rimarchevole, dunque con probabilità millantata, in definitiva solo apparente e virtuale, esattamente come l’effetto ottico prodotto dal suo stereoscopio, ma ad ogni buon conto spettacolare, altisonante, grandiosa e assai immaginifica.

Non si ferma qui il buon D’Alessandro. L’obiettivo di un rientro solo momentaneo in Basilicata concepito quale show per sancire la sua avvenuta emancipazione, il passaggio da un pascolo di capre a un universo metropolitano, industrializzato e tecnologico, lo induce ad accrescere, distinguere e variare i supporti tecnologici a cui scientemente ha deciso di ricorrere. Mentre i paesani sobbalzano incuriositi e impauriti di fronte a una visione di mondi inusitati ai quali poco alla volta lo stereoscopio restituisce un’impressionante profondità, l’emigrante “affonda il colpo” associando a tale visione una colonna sonora. Tira fuori dal suo bagaglio, dal suo baule, un altro oggetto misterioso, un grosso grammofono a tromba che diffonde le canzoni di Enrico Caruso e gli swing americani. In tal modo anticiperà di decenni lo stereoscopio parlante presentato nel 1970 dalla GAF, il Talking View-Master che consente di associare alla visione delle immagini tridimensionali un breve commento parlato e musicale inciso su un microsolco trasparente abbinato al dischetto. In tal modo renderà ancor più allettante e “probante” codesto “evento”, assolutamente sui generis, collocabile sì tra gli archeomedia ma già con i crismi della multimedialità.

Non sarà tanto la qualità e la tipologia delle musiche e delle arie prescelte a irretire e sbalordire nuovamente familiari e conoscenti ma il giradischi in quanto tale. La povera gente di Castelmezzano, disorientata, si guarderà intorno per cercare di capire dove si stiano nascondendo coloro che suonano e cantano. D’Alessandro, prendendosi gioco di quel contado a cui non sente più di appartenere, racconterà che in America esistono dei popoli lillipuziani; alcuni di questi microscopici omini sono dunque chiusi all’interno del grammofono da cui diffondono la loro musica. Nessuno, pare, si sentì di contraddirlo.

Stereoscopio e grammofono dei quali solo dogmaticamente si può accettare l’inspiegabile funzionamento fanno dunque slittare la prodigiosa performance su di un piano ineluttabilmente metastorico e metaspaziale attribuendole i connotati di una autentica magia.

Terminato lo “spettacolo”, pago degli effetti sortiti da codesta sua fantasmagorica messa in scena, D’Alessandro farà le valigie tornando definitivamente negli Stati Uniti e risolutivamente resecando i contatti con il paese d’origine. Negli anni a venire, a suggellare e rinverdire periodicamente la sua improvvisa, momentanea e fascinosa apparizione, rimarranno gli strumenti di codesta sua epifanica apparizione, lo stereoscopio della Underwood & Underwood fabbricato a New York nel 1901 assieme a buona parte del suo corredo di foto ancora oggi custodito con gran cura da alcune parenti, le sorelle Arcangela e Rosaria Passarella. Dell’apparizione del loro parente, dell’episodio della sua breve permanenza a Castelmezzano rimarrà nel tempo il sapore di un evento in ogni caso speciale per via della sua allure tecnologica e parimenti misterica. La latenza se non sprezzante certamente canzonatoria insita nell’atteggiamento dell’avo sublimerà, risemantizzandosi, nel ricordo di una eccezionale kermesse ante litteram “audio-visiva” a cui ricondursi piacevolmente proprio grazie al visore e alle sue figurine tridimensionali gelosamente conservate.

Pareva un cinematografo

“Pareva un cinematografo”: forse ancora c’è chi si ricorda come questa espressione, dalla connotazione comunque sfrangiata, dipingesse una situazione movimentata, talora un’allegra baraonda, evocando agitazione, fermento, eccitazione. Letteralmente un cinematografo, Rocco Calace, altro lucano emigrato negli Stati Uniti, decide di organizzare per il suo unico ritorno in Italia, che ha quale meta finale il suo paese, Brindisi Montagna, in cui fa il suo” trionfale” ingresso intorno alla metà degli anni Trenta del Novecento. Non sarà il solo a cullare e mettere in pratica un simile piano vuoi con la cinepresa, vuoi, successivamente, con le prime telecamere. Altre storie potremmo in tal senso raccontare, altri casi che coinvolsero famiglie lucane toccate dall’emorragica vicenda di congiunti emigrati varrebbe qui la pena rievocare, ma scegliamo Rocco per la precocità e la complessità del “progetto filmico” che elaborò e realizzò su più set e in più circostanze, usando peraltro delle apparecchiature nel formato professionale 16mm.

Non le usuali lettere, non i ritratti, non le maggiormente anticonformiste foto stereoscopiche, ma addirittura una cinepresa e un proiettore saranno i calcolati e raffinati strumenti nei quali confiderà per un rientro con cui lasciare letteralmente a bocca aperta i compaesani. Si tratta di un progetto probabilmente cullato negli anni precedenti, studiato nei particolari e basato sulla convinzione che niente di più moderno come il cinema avrebbe potuto garantirgli la possibilità di “infantasiare”, stordire, ammaliare, rapire i propri paesani in virtù della carica assolutamente innovativa e al contempo coinvolgente di una proiezione cinematografica, o meglio, come vedremo, di molteplici e reiterate proiezioni effettuate a Brindisi. Insomma, Rocco si gioca la carta del filmaker perché presume, a ragione, che non esista ruolo più sideralmente lontano da quelli usuali nella sua polverosa realtà di origine tutti legati a una dimensione soltanto rurale. Vuole assicurarsi che non ci sia partita. Vuole “proiettare” su parenti, amici e semplici conoscenti una luminosissima immagine di sé che renda fastoso, spettacolare e indimenticabile il suo rientro da autentico uomo nuovo e vincente.

Il nostro intraprendente emigrante riprende e proietta. Cinepresa e proiettore da lui manovrati con calcolata, esibita familiarità, divengono, ancor prima di ciò che concorreranno a far scorrere sullo schermo, il suo biglietto da visita, strumenti e pratiche di un mondo assolutamente altro di cui Rocco vuol però dimostrare di essere attivo compartecipe.

Mentre alcuni parenti e conoscenti, tra Italia e Stati Uniti, ci stanno consentendo di rischiarare poco alla volta la vita di questo intraprendente lucano, sulla base di ricordi talora concordanti, talaltra inevitabilmente più incerti e che in tal caso dobbiamo quindi mettere a confronto, la più vivida testimonianza di questo accadimento è comunque assicurata dai filmati 16 mm miracolosamente sopravvissuti allo scorrere del tempo, gentilmente concessici da Nicola De Stefano di Brindisi Montagna a cui giunsero da Chicago dopo la morte di Rocco. Grazie al supporto del Centro di Produzione RAI di Napoli e al MAM, Museo Antropologico Multimediale dell’Università di Napoli Federico II è stato possibile travasare su due diversi tipi di supporto le pellicole e si sta ora valutando un loro restauro.

Parte prevalente e significativa di quanto diremo circa il progetto a cui Rocco dette corso di effettuare riprese negli Stati Uniti, In Italia e quindi a Brindisi in Basilicata si basa in primis sulla sua documentazione cinematografica. Le fonti orali, come detto, non sempre particolarmente attendibili, sono state comunque chiamate in causa nel tentativo di identificare luoghi e avvenimenti, di dare nomi e gradi di parentela ai soggetti ripresi[12].

Andiamo comunque con ordine.

Siffatta vicenda che stiamo quindi ancora ricostruendo, ci racconta di un giovane irrequieto, Rocco, appunto, sbarcato nel 1924 ad Ellis Island, ove nei fatti il suo nominativo appare registrato dalle autorità portuali in entrata a cui dichiara un’età di 21 anni. Pare che la sua scelta di liberarsi dai ceppi di un’esistenza da consumare tra i campi e di partire per far fortuna fosse stata criticata dai familiari a causa della presunta e rischiosa aleatorietà del progetto del loro congiunto. Con molta probabilità il ragazzo è ben cosciente di non aver nulla da perdere, lasciando un paese senza prospettive. A tal proposito Maria De Stefano, nipote dell’emigrante da noi intervistata, ricorda che «la casa dello zio non era molto grande; il piano terra era costituito dalla stalla e il primo piano era un unico ambiente: qui si dormiva e si mangiava e si faceva tutto ma non si campava» [intervista a Maria De Stefano, Reggio Emilia, dicembre 2010].

Se perciò a indurre Rocco alla partenza è la constatazione che al paese «non si campava», non appare però così sprovveduto perché riesce a sfruttare una catena migratoria che lo conduce nell’Illinois andando ad abitare a Chicago.

Personaggio eclettico, tanto fa fortuna quanto dilapida con facilità ciò che guadagna; si sposa e si separa, ama la bella vita, fin che dura, irretito dalle lucenti, irresistibili attrazioni del consumismo d’oltreoceano. Della modernità apprezza la tecnologia che ne costituisce espressione vistosamente caratterizzante. Si avvicina, dunque, alla cinematografia al punto da acquistare una cinepresa e farsi “member of amateur Cinema League”, un’associazione di cineasti amatoriali statunitense. A trasmettergli questa passione è nel 1934 una giovane amica a sua volta dotata di macchina fotografica e cinepresa[13].

Rocco inizia con il filmare l’America che evidentemente più gli piace, parchi naturali, parchi a tema e di divertimento, uscite in barca, gare nautiche, scene di traffico cittadino nelle ore di punta, ma pure la tranquilla vita di altri lucani emigrati come lui che hanno raggiunto un certo benessere. Li filma e si fa filmare assieme a loro nel corso di un brindisi, di una partita a bocce, di una passeggiata per le vie della città a piedi e in bicicletta. Tutti stanno al gioco e iniziano a muoversi quando il nostro cineasta comanda il ciak. Il sorriso è l’espressione prevalente sui volti delle sue “comparse”.

La sua idea di ritornare in Italia nel frattempo si concretizza. È il 1937 e Rocco rimarrà in Italia da giugno a settembre. Il viaggio medesimo sarà occasione da riprendere nel dettaglio, tappa dopo tappa. Attento ai particolari e, chissà, a conoscenza pure delle regole della continuità filmica, ha comunque cura di sfoggiare la medesima mise, coppola bianca, impermeabile lungo e sportivo anch’esso chiaro, giacca e cravatta. Riteniamo che non si tratti soltanto di un accorgimento narrativo e meramente filmico. C’è probabilmente di più. Nel glauco nitore del suo abbigliamento agisce l’intento di prendere le distanze sia dal povero migrante che ritorna al paese con le pive nel sacco, sia da quell’umanità contadina e obtorto collo stracciona intabarrata nelle tradizionali e cineree mantelle di lana grezza e ispida, con una nera coppola calcata sulla testa, umanità a cui si “ricongiungerà” al paese al contempo distinguendosene. Sceglie quindi sin da subito un vestito di foggia urbana, foggia che la non comune lattea tonalità ha il preciso compito di evidenziare ulteriormente. Il suo non è d’altronde in nessun caso un frettoloso rientro in terza classe ma una lunga crociera sul Vulcania, transatlantico tra i più lussuosi della flotta italiana dell’epoca, a bordo del quale tocca Gibilterra, Tunisi e altri approdi del Mediterraneo in cui scende a terra filmando città e porti. Occorre perciò assumere i congruenti panni del distinto signore, dell’elegante crocierista, del turista à la page che tutto riprende, assai meglio se con una cinepresa. E proprio i suoi filmati ci raccontano di questo atteggiamento. A Napoli mentre la nave attracca alla Stazione marittima, accanto al Rex, sbarca per fare un giro in città nonché per visitare gli scavi di Pompei di fronte al cui ingresso si fa debitamente riprendere. Altre sequenze testimoniano di una sua gita a Capri dove chiede e ottiene di essere filmato in uno dei luoghi ove i turisti amano maggiormente disporsi, dinnanzi all’arrivo della funicolare, sul piazzale da cui si gode un’ampia vista del lato orientale dell’isola.

Il viaggio non si arresta nel capoluogo partenopeo ma si prolunga fino a Trieste e Gorizia. Da qui la ridiscesa dello scarpone, questa volta in ferrovia fermandosi a Venezia, Milano, Parma, Firenze e Roma in cui Rocco si trattiene filmando piazze, monumenti, chiese. In ogni città sfodera e sfoggia la sua cinepresa con l’aplomb scanzonato di un escursionista in viaggio di piacere. Come negli Stati Uniti la sua attenzione continua a essere catturata dai centri urbani e dal cuore pulsante dei citati capoluoghi e della capitale in cui si muove a suo agio, con ostentata disinvoltura. Passa alle volte la cinepresa a una sua compagna di viaggio per farsi immortalare nei luoghi visitati: in Piazza San Marco si fa allegramente avvolgere assieme ad altri turisti dal consueto nugolo di piccioni. Rocco sorride rivolto all’obbiettivo, si incammina attraversando la scena secondo un concordato percorso, e, sovente, a passo deciso e pure sciolto, va incontro alla macchina da presa. Gigioneggia, duetta con essa divertito, stabilendo al contempo una relazione volutamente fatua con i centri che visita e sui quali getta un’ occhiata rapida che non è tanto fine a sé stessa quanto significativa di una ostentata e consumata familiarità con i contesti urbani, espressione di un progresso e di una modernità che gli sono graditi e oramai da tempo familiari, contesti che gli offrono inoltre l’adeguato sfondo per consentirgli di recitare la parte che egli preferisce, quella di cittadino del mondo.

Con un pizzico di sicumera, tornato a Napoli, prosegue alfine per il paese natio, in Lucania. Qui l’uso della cinepresa si fa più frequente e ficcante adottando modalità d’impiego, in apparenza meno consone allo specifico comunicativo di questo mezzo di documentazione. Se, con evidenza assolutamente esplicita, Rocco usa la cinepresa per conferire al successo del suo progetto migratorio un realismo maggiore, per meglio restituire quella carica cinetica che l’America con le sue città da lui tanto amate gli trasmette, gli infonde, per celebrarne con adeguato, affine, speculare mezzo il movimento, il dinamismo, ora invece, tornato in Basilicata, pare costringere la sua apparecchiatura di ripresa entro limiti espressivi che la apparentano alla fotografia. Realizza sovente dei tableau vivant al centro dei quali con frequenza si colloca tra schiere di paesani che, ora sorridenti, ora impacciati, gli si stringono intorno. Spesso avvolto nell’immancabile completo bianco, in una giacca o in uno spolverino dello stesso colore, il nostro emigrante spicca sulle sue “comparse” inesorabilmente o prevalentemente vestite di scuro. Da “consumato” regista impartisce al suo operatore occasionale, i pochi movimenti di macchina che desidera vengano effettuati nell’ambito del campo che intende riprendere. I quadri viventi si animano secondo una retorica filmica da Rocco evidentemente privilegiata. Sempre rigorosamente al centro di un manipolo palpitante e più o meno festante di compaesani, egli, mentre ordina di premere il grilletto della cinepresa, inizia contestualmente a camminare: tutto il gruppo, come un sol uomo, compie così un piccolo tragitto definito, da un lato a un altro di una piazzetta o di uno slargo, più spesso procedendo frontalmente verso la cinepresa incontro alla quale pare quasi spingere il protagonista incontrastato di ognuna di queste riprese. Tali sequenze sembrano quasi attingere agli stilemi processionali di una sacra rappresentazione e in modo specifico alle sue definite stazioni. Inconsapevolmente Rocco, nei panni del santo intronato e condotto in corteo, e i paesani in quelli dei devoti, attivano un rito dalle consumate e conosciute procedure arcaiche e liturgiche, itineranti e attoriali, rito reso, però, in questo caso decisamente laico e ludico, tutto votato alla celebrazione del proprio figliol prodigo. A nostro modo di vedere riteniamo che nell’adozione di codesta logica posturale agiscano parallelamente le convenzione proprie del ritratto fotografico con il quale i paesani hanno certamente una qualche maggiore dimestichezza. Quell’incedere compatto e rigido del gruppo verso l’obiettivo, senza che quell’aggregato di corpi si sfrangi, si disaggreghi più di tanto, dia adito a scambi di posto, reitera la classica rigidità della posa e la fissità dello sguardo che il fotografo chiedeva ai suoi clienti. La mancanza di confidenza con il “cinema”, in questo caso per di più “fatto” e non visto, il non sapere esattamente come comportarsi, suggerisce con evidenza ai soggetti di “ripiegare” su retoriche affini e con le quali si ha una maggiore dimestichezza.

Non sarà però sempre così.

La permanenza dell’emigrante teatralizza e galvanizza il paese rendendo “cinematica” e frizzante l’atmosfera. Attraverso Rocco tutti beneficiano di una ventata di tecnologica emancipazione. Tanta letteratura anche antropologica che insiste sull’invasività dei mezzi di ripresa audiovisiva che renderebbe riottosi e timorosi i soggetti inquadrati, qui viene sconfessata da un intero paese che seguendo volentieri le indicazioni del suo “regista americano” ben volentieri, benché, come detto, mediante “cammei” ingenui e goffe “recitazioni”, ne sposa e ne interpreta giocosamente gli intenti. I set sono popolati di bimbetti, uomini e donne, e pure anziani, che sorridono, ridono, motteggiano, si spintonano pur di ficcarsi nell’inquadratura. Ciò avviene pure in occasione di feste patronali e pellegrinaggi e ancor più si manifesta in situazioni di evidente festosità con gente che balla, suona, beve, ride e sorride guardando in macchina[14].

Rocco non si ferma qui. Mentre riprende, proietta.

Ancora Maria De Stefano, ricorda come la gente corresse a stendere lenzuola nel proprio vicolo, nel proprio cortile supplicando l’emigrante di “fare il cinema” ora per questa, ora per quella famiglia che in tal modo, sentendosi privilegiata, acquisiva, agli occhi del paese, un rinnovato status basato non più sul censo, sul mestiere, ma sull’esibizione di un fattore assolutamente distonico rispetto ai modelli della cultura di appartenenza, quello di un “divismo” e di un conseguente “protagonismo” sociale inaspettato, inusitato, guadagnato prima ponendosi dinnanzi alla cinepresa e poi godendo nel rivedersi davanti alla platea dei compaesani. Rocco ha evidentemente il tempo di filmare Brindisi e la sua gente, di far sviluppare e stampare i positivi delle pellicole girate, probabilmente a Napoli, e quindi di riproporre al paese la raffigurazione che di esso egli ha inteso dare con la fattiva collaborazione di molti. Questo cinema che consente un po’ a tutti di far capolino nell’inquadratura, strappa momentaneamente dal quotidiano anonimato i suoi molti soggetti offrendo loro una ribalta: su quel telo srotolato e appeso in questo o quel vicolo, in questa o quella casa, si accendono i riflettori su una subalternità che affida ora il suo esserci nel mondo a una nuova pratica magica di diafana celluloide ma di vivide immagini in movimento in cui riflettersi, con cui emozionarsi e ribadirsi. La cinepresa e il proiettore del nostro emigrante si fanno dunque artefici di un riscatto “multimediale” perché rivedendosi i soggetti aggiungono alle immagini il “parlato”, i loro commenti, le canzonature, le risate, i fischi, le battute.

Esiste però il risvolto della medaglia.

Come D’Alessandro e De Carlo, come tutti quei poveri ma ben determinati emigranti che approdati oltreoceano intendono al più presto mettere al corrente i familiari della bontà della scelta effettuata raccontando loro e raccontando a sé stessi di un luminoso successo, in realtà tutto ancora da provare e consolidare, anche Rocco si muove in questa medesima direzione. Non si accontenta della corale acclamazione che si è guadagnato rendendo compartecipi i paesani al “film” che assieme a essi ha girato. La strategia del suo ritorno punta alla fin fine non ad agglutinare ma a separare, a ribadire un netto, impietoso distinguo di cui sempre cinepresa e proiettore sono gli unici artefici. Un’altra nipote di Rocco, Antonietta De Stefano ricorda come egli «nelle sue lettere parlava spesso del suo paese che amava ma disprezzava allo stesso momento» [intervista telefonica a Antonietta De Stefano, Chicago, luglio 2008].

Rocco mentre filma e proietta il suo paese non manca di proiettare anche quell’America di cui abbiamo detto con i suoi motoscafi fuoribordo da corsa, i suoi grossi bus, le comparse che nei parchi fanno gli indiani davanti ai tepee per quei turisti che assieme a loro desiderano ritrarsi, battute di pesca, gite sui laghi e sui fiumi del Wisconsin, file di “macchinone” americane parcheggiate a spina di pesce sui lati delle strade, un convoglio passeggeri del Santa Fe Express che arriva in stazione, fabbriche, ciminiere, navi e palazzoni svettanti. Lo stupore è assicurato: con esso si spengono però improvvisamente quei riflettori che prima si erano accesi sul paese e il sogno di essere qualcuno sbiadisce d’emblée.

È ora l’America a far sognare molti e soprattutto molte donne con la consapevolezza che di un altro sogno si tratta, un sogno che nonostante tutto può valere la pena tentare di rendere concreto.

Rocco rappresenta il successo, l’agio, un mondo che pare il paese dei balocchi, mondo che con sicuro compiacimento egli ha volentieri mostrato a tutti[15]. Rocco, insomma, rappresenta indiscutibilmente un buon partito a portata di mano. Sposatosi negli Stati Uniti con una ragazza calabrese ma separatosene dopo pochi mesi, diviene dunque oggetto di concupiscenza femminile. All’inizio la cosa probabilmente non gli dispiace. Ci è stato infatti riferito da più parti che il suo ritorno a Brindisi Montagna fosse motivato anche dal desiderio di trovare una nuova compagna da portare con sé a Chicago.

Tale voce nel corso della sua lunga permanenza estiva al paese si sparse sicuramente. Rocco fu letteralmente insidiato da diverse ragazze che, spinte dalle famiglie e dal paziente lavoro intessuto dalle comari, gli venivano presentate come possibili spose. Se le trovava addirittura in casa ma nessuna riuscì a far breccia nel suo cuore.

Nel mio paese c’era un branco di donne, tutte da sposare. Le ricordo tutte. Quando hanno capito che c’era un americano che dicevano che voleva trovarsi una donna, si sono messe tutte là. […] Quelle donne erano un branco di ragazze femmine e ognuna di loro cercava di tirarselo perché una volta andare in America era una fortuna, […] perché in America si stava bene, ma in Italia si moriva di fame [intervista a Maria De Stefano, Reggio Emilia, dicembre 2010].

Erano però ragazze troppo “paesane”, oseremmo dire, troppo “rétro” agli occhi di Rocco, esigente e smaliziato uomo, come dicevamo prima, di mondo.

E poi l’obiettivo di accasarsi non è quello che ha pesato maggiormente nella scelta di tornare in Basilicata; è venuto per fare scena, per dimostrare a tutti il suo status di uomo nuovo, diverso e vincente. Il suo viaggio è uno sfizio, un lusso costoso con cui creare un definitivo discrimine, mediante il suo cinema che apparentemente apparenta ma subito dopo spariglia e separa.

Rocco è indiscutibilmente regista e primo attore non solo e non tanto del suo film ma della sua vita rifondata su nuovi principi nell’Illinois, discutibili quanto si vuole ma decisamente altri e inconciliabili rispetto a quelli di braccianti e pastori del suo paese.

Riavvolta la pellicola, spento il proiettore, l’emigrante torna tale, gira sui tacchi, e così com’era venuto se ne va, riconsegnandosi alla sua America ove riprenderà a dissipare con cinica lucidità la sua vita di celluloide, tra donne autenticamente “born in USA” e whisky a “go go”.

Feticci vistosi e tattiche dell’apparire

Le più antiche e abituali cose che l’uomo abbia da sempre avuto accanto o ugualmente abbia in sé fatto abitare […] sanno passare limpidamente nei fuochi della visione e lì ulteriormente bruciare; esse, più che testimoniare di se stesse o esprimere il senso del loro esserci, rendono immediatamente conto del processo in cui sono avvolte facendo dell’evento da cui sono coinvolte un atto, di cui non pongono in questione il fondamento, o il cominciamento, o l’origine: si tendono ora al suo mostrarsi [Donda 1983: 7].

Essere o apparire? Intanto apparire, quanto all’essere poi si vedrà. Tutto quindi transita per la rappresentazione, soggiace inesorabilmente e naturalmente al “fuoco della visione”, luogo ove non importa che la realtà sia ma che si mostri, che si rappresenti. Nei processi di rappresentazione occorre però che l’apparenza si consolidi e si faccia persuasivamente vistosa attraverso stereotipate riformulazioni identitarie.

La gente usa le foto per costruire identità, investendole di credibilità. […] La relazione tra fotografia e credibilità è ancora più complicata con immagini che hanno a che fare con l’identità, dove l’efficacia di una fotografia può essere un fattore decisivo. […] Il potere del silenzio e dell’immobilità che appartiene alla fotografia e la definisce […] permette inoltre l’emergenza del feticcio [Levi Strauss D. 2007 : 58, 78-79][16].

Codesto essenziale assunto trova una sua applicazione oseremmo dire paradigmatica nella produzione iconografica, in foto e film che l’emigrante costituisce per raccontare e rammentare a sé stesso chi vorrebbe essere ed in tal guisa manifestarsi, appunto, a chi, rimasto al paese di origine, non ebbe il suo medesimo coraggio di partire per l’ignoto, di svincolarsi dal morso della fame, per tentare la fortuna.

Nei casi sui quali ci siamo soffermati ci pare dunque che le immagini abbiano assolto a un compito sostanziale, quello di fornire all’emigrante gli elementi per costituire un nuovo universo simbolico di riferimento, un feticcio visivo e perfettamente visibile, anzi, vistoso intorno al quale acconciare la propria identità, dare ad essa nuove forme. Il ritratto “americano”, la documentazione dei luoghi, il “catalogo” fotografico e filmico di opportunità e beni materiali che quei luoghi mettono a disposizione costituisce lo specchio in cui chi è partito chiede di rivedersi nei suoi nuovi panni da angolazioni e rifrazioni via via più numerose e sfaccettate. Sa egli che sovente di semplice immagine riflessa si tratta ma già bastevole a dichiarargli, confortandolo, la strada da fare sulla scorta di quella già fatta. L’immagine è perciò un cuneo, una zeppa che tiene in piedi la narrazione, tanto più efficace quanto didascalica, di un progetto migratorio quale si sta realizzando o, almeno si vorrebbe realizzare nel segno di un’auspicabile, raggiungibile affermazione.

L’immagine del proprio acerbo sé americano l’emigrante, come dicevamo, produce innanzitutto a proprio uso e consumo quale “terapeutica” procedura di rifondazione esistenziale ben visibile, pur se sovente non tangibile. Si tratta in buona sostanza di un abito da cucirsi addosso con attenzione e cura per i dettagli, da mettere per rimirarvisi. È, subito dopo, mise [17] da condividere nella comunità di origine quale ratifica dei raggiunti obiettivi e di un avvenuto cambio di pelle.

L’emigrazione cessa di essere solo proiezione esistenziale della morte, e si offre anche come esperienza di rinascita dell’Io in una nuova realtà, con una rinnovata pelle psichica che gli consenta di filtrare gli scambi con il mondo esterno. E la conquista progressiva dell’immagine è ratifica e al tempo stesso affermazione di una propria pelle sociale. […] La macchina fotografica entra a far parte del corredo dell’emigrato come supporto simbolico di una sua nuova identità. Attributo irrinunciabile […] consente di restituire un’immagine più capillare del proprio mondo quotidiano e di illustrare tutti quegli elementi che lo caratterizzano nel segno del successo [Faranda, Lombardi Satriani 1988: 178-179].

La fotografia, costruita come detto con cura per il dettaglio, quale luminosa e illuminante sommatoria di distinguenti ed efficacemente distinguibili nuovi tratti affranca dalla deprecabile evenienza di farsi amorfo e indiscernibile «cumolo d’irreparabile miseria materiale e morale che il nuovo mondo rigurgitava su la vecchia Europa natìa» (Calvi 1899: 57) quando l’emigrante era costretto a un umiliante e triste ritorno quale ultimo esito di un franato sogno di riscatto. Se anche il viaggio di andata come «percorso materiale e simbolico» aveva assunto «dimensioni inquietanti lungo la linea di frattura tra stabilità e incertezza, tra padronanza di valori e perdita degli stessi» [Moricola 2008: 11] c’è da immaginarsi come dovesse essere vissuto un rimpatrio forzato, obtorto collo umiliante.

A ben vedere, anche in simili e deprecate evenienze, l’immagine, caparbiamente e disperatamente, interviene a negazione del fallimento nell’ultimo disperato tentativo di dissimularlo ad arte. Ci sovviene il ritratto che il 5 aprile 1906 un lucano originario di Trecchina si fece eseguire in Brasile ove era emigrato, poco prima di imbarcarsi per tornare in Italia. L’uomo si fa ritrarre seduto, a gambe accavallate con parte del busto e il braccio sinistro appoggiato su due vistosi bauli decorati di borchie. L’aria è spavalda e l’immedesimazione con il luogo di emigrazione egli intenzionalmente rimarca vestendo i panni di una sorta di gaucho con lucidi stivaloni che arrivano al ginocchio, giacca sbottonata e grosso cinturone con appariscente fibbia metallica in vista. L’uomo fa di tutto per apparire sicuro di sé, ben integrato in Sudamerica, ma al contempo l’inconcludenza e la pochezza della sua esperienza sono involontariamente ratificate da quelle due pur capienti casse che evidentemente bastano a contenere tutta la “robba” con cui lo sfortunato basilisco si appresta al ritorno, casse leziosamente ornate che dovevano invece ventilare la sua agiatezza [Cresci, Mazzacane 1983: 141].

Sin qui abbiamo dunque visto come l’immagine aiuti il medesimo emigrante a misurarsi nei panni dell’americano, come in tali panni egli voglia essere visto dai compaesani, come ancora di tali panni pertinacemente continui a vestirsi se costretto a un ritorno con un pugno di mosche in mano.

L’immagine è però altrettanto preparatoria e annunciatrice di un momentaneo ritorno a casa in cui gli emigrati avranno modo di mostrare “concretamente” la raggiunta agiatezza. Immagine profetica e modello a cui chi rientra deve scrupolosamente attenersi. L’abito cittadino ed elegante con il quale ci si è fatti ritrarre oltreoceano diviene il costume di scena, Rocco Calace docet, da ostentare obbligatoriamente nello struscio serale al paese.

Oggi tornando i contadini dalle Americhe, sembrano operai di opifizii o di ferrovia, e talora nei modi e nel vestito si danno anche aria di borghesi. Hanno ragione, perché ben possono dire: Col nostro lavoro abbiamo girato il mondo! Ed oggi il lavoro è titolo di vera aristocrazia sociale, perché non teme barriere di stati […]. Di ripigliare la zappa e li scarpone nemmeno per sogno passa loro per la mente, e se lo fanno, è per breve tempo, perché subito riprendono la via delle Americhe! E le donne? [...] Oh bisogna vederle, quando ritornano con la veste […] e come raccontano liete le meraviglie di quei luoghi a parenti ed a vicine … (Ah! sorella mia, piuttosto morti là che vivi qua,) le senti dire, accompagnando ogni parola con caldi sospiri. […] Non deve però meravigliare se uomini e donne, appena venuti, hanno la fregola di ritornarvi, attratti dall’ambiente della vita americana di New-York o di altra città, ove, se lavorano come cani, hanno poi l’ora di vera libertà, non soffrono torture di tasse e di miseria, e si vedono la moneta d’oro nella tasca. E poi, vanno a braccetto per le vie ricche e popolose senza soggezione alcuna, entrano nelle birrerie e nei ritrovi, serviti come signori, mentre da noi vengono disprezzati e negletti, quali schiavi o servi della gleba. […] La vita e la vista di grandi città e di altri popoli hanno allargato la mente dei nostri contadini [Riviello 1893: 77-78].

Dietro il successo effettivo, parziale, millantato aleggerebbe però, secondo Signorelli, una diffusa «tabuizzazione dell’esperienza migratoria» secondo cui non avviene che

la vicenda migratoria figuri come motivo di orgoglio o almeno come un’esperienza valorizzante e valorizzata. […] Gli emigranti rientrati in Italia, se hanno avuto successo, parlano tanto volentieri dei risultati che questo processo ha prodotto (casa in proprietà, attività economica in proprio, automobile, studi e ascesa sociale de figli e quant’altro), per quanto generalmente sono laconici ed elusivi a proposito del percorso che al successo li ha portati. In questo sono molto simili agli emigrati il cui rientro è viceversa la conseguenza di una mancata riuscita […]. Sia gli uni che gli altri si limitano a riassumere l’esperienza migratoria ricorrendo a due parole chiave che sono le stesse in caso di successo e di fallimento: fatica e sacrifici. È come se successo o insuccesso, comunque l’essere stati emigrati fosse una sorta di ‘vergogna’, qualcosa di cui non sta bene parlare, anche se tutti sanno e danno per scontato che esiste [Signorelli 2006: 30-31].

Ci si può allora chiedere in che relazione stiano la tabuizzazione, l’occultamento di quel faticoso lavorio, di quello struggle soggiacente al tentativo di affermazione dell’emigrante e, all’opposto, il reiterato, vivido palesamento dell’affermazione medesima, pertinacemente affidato all’immagine e alle sue messe in scena. A nostro modesto modo di vedere si può ipotizzare che exploit come quello di D’Alessandro, di De Carlo, di Calace non siano esempi del fatto che non sempre l’esperienza migratoria incespica nel tabù che ne suggerisce l’annichilimento. All’opposto l’accelerazione posta nel “parlare assai volentieri” dei traguardi raggiunti e, aggiungiamo noi visivamente ostentati, consente di meglio insabbiare, occultare la “vergogna” pur non disinnescandone la sotterranea presenza. Sipari e siparietti allestiti con il ricorso alle immagini sposterebbero il giudizio negativo pendente su chi ha lasciato paese e affetti per un incerto e lontano futuro, sul giudizio da formulare in merito ai successi vistosamente rappresentati da foto, stereoscopie, filmati.

L’immagine si carica dunque di una ben pesante responsabilità: ecco allora il perché della sua natura ingombrante, pingue, ridondante, affascinante, spiazzante.

Diviene a questo punto opportuno soffermarsi sui sistemi e sulle strategie con cui l’emigrante attribuisce alle immagini la capacità ma anche il potere di cantarne, di urlarne il successo.

Partiamo dalla constatazione che foto e filmati si inseriscono a pieno titolo in una modalità di osservazione ove nei fatti si sostituiscono a uno dei due attori del processo: il paesano non può scrutare direttamente negli occhi il parente emigrato, analizzarne le reazioni e le intenzioni de visu: può solo attenersi alle immagini che quest’ultimo gli invia dagli Stati Uniti. Il ritratto si fa apodittico e lapidario e non ammette eccezioni. Nella foto di emigrazione si replica dunque solo in parte quanto Geertz aveva supposto accadere nell’osservazione, dove si è tutti al contempo osservatori e osservati. Ci sembra possibile ipotizzare invece che il gap tecnologico tra chi progetta e produce l’immagine e chi ne sarà semplicemente ammesso alla visione, ignorando quest’ultimo retropensieri e retroscena che concorrono attivamente alla determinazione e alla sedimentazione dei significati che l’emigrante vuole attribuire al suo ritratto, tracci un profondo solco tra emittente e ricevente. La relazione torna a produrre un disequilibrio perché il compaesano non conosce, non possiede e non maneggia i mezzi che l’emigrato ha usato per confezionare le sue immagini e il novello ritratto di sé. E talvolta neppure assai bene li maneggia l’emigrato con una differenza però sostanziale: se tecnicamente non controlla compiutamente lo strumentario a cui si rivolge, ha invece ben chiaro perché ad esso si indirizza. Il tremebondo paesano delle Dolomiti lucane che di fronte al grammofono è disposto a credere che le canzoni provengano da tanti ometti piccini chiusi in esso è assolutamente assimilabile alla reazione di Nanook, l’inuit filmato da Flaherty mentre incuriosito ispeziona il fonografo del filmaker finendo per “assaggiarne” un disco. Dalla Basilicata all’estremo nord artico, in un periodo storicamente simile due popolazioni tradizionali estremamente distanti in merito alla relazione con i rispettivi ambienti e con i derivanti stili di vita, sono invece perfettamente omologabili nella loro incapacità di “difendersi” di fronte ai simulacri di una cultura tecnologica a loro sconosciuta.

«Photography as system of class discrimination» ci ricorda a tal proposito Geffroy.

The rapid ascent of photography has been on a par with the rising power of the middle classes, the development of modern urban culture, industrial technology, and business. […] Having a camera, talking photographs, and being photographed - having the time and money to spend doing so - was an important status symbol, a city dweller’s privilege [Geffroy 1990: 379].

Ecco allora che Rocco, con largo anticipo, può innescare e innestare in un ambito di grande depressione socio-economica quel medesimo processo che su scala incommensurabilmente più ampia ma in contesti inizialmente limitati alle città, alle aree urbane, il cinema delle grandi sale e quindi la televisione attiveranno rendendosi responsabili della costruzione di un’immagine degli Stati Uniti quale attraente paese della cuccagna.

In the twentieth century, widely distributed America movies, then television and satellite relay, spread across the globe the image of American economic success and abundant consumer goods, honing the dissatisfaction of upwardly mobile people everywhere, presenting them with images of an American candy store of opportunities [Ollman 1996: 27].

Al contempo il cinema di Rocco da lui declinato per così dire dall’alto e dal basso, proponendo orizzonti emancipati e consumistici ma registrando parimenti i più angusti confini della sua realtà d’ origine, mostrandosi capace di filmare ma non di montare[18], palesando le insufficienze di un linguaggio filmico che stilisticamente ed espressivamente si appoggia ancora alla fotografia, si fa antesignano di una temperie, all’epoca in fieri, che, secondo Canclini, sarebbe andata sempre più significativamente verso un «rimodellamento tecnologico delle pratiche sociali». Un rimodellamento non necessariamente verticistico, ma obliquo, trasversale, che conduce alla «perdita della relazione ʻnaturaleʼ della cultura con i territori geografici e sociali», e, nello stesso tempo, che attiva certune «rilocalizzazioni territoriali relative, parziali, delle vecchie e nuove produzioni simboliche» [Canclini 1998: 222 223]. In effetto la medesima condizione di filmaker amatoriale di Rocco mentre lo apparenta alle convenzioni linguistiche del cinema professionale, al tempo medesimo lo allontana. Il suo dilettantismo si traduce in un idioletto ove sincreticamente si rimescolano categorie espressive e tematiche e modalità documentaristiche tra le più diverse, cinetiche e statiche, relative a consessi storici, economici e culturali distantissimi, a sguardi che si fanno ora autoriali, direttivi, soggioganti e dominanti e ora compartecipi.

Sono questi gli intricati criteri sui quali si basano l’approccio filmico di Rocco, le foto di De Carlo, le stereoscopie di D’Alessandro capaci di attivare un processo di distanziamento solo tramite oblique contorsioni che necessitano di una dinamica opposta, quella di un avvicinamento a persone e luoghi di origine. Tali persone costituiscono la specifica platea a cui gli emigranti intendono rivolgersi mediante una narrazione visiva che a tale platea intende precipuamente rivolgersi, dove, come si diceva, Rocco e compagni “rilocalizzano” momentaneamente e parzialmente gli esiti audiovisuali della loro simbolica rappresentazione del passato e del futuro, del vecchio e del nuovo, del contadino e del cittadino, del vinto e del vincente.

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[1] Il salotto è notoriamente locale pressoché sconosciuto nelle dimore rurali, ambiente borghese e piccolo-borghese che risponde a quelle funzioni, di intrattenimento, riposo e ozio a cui la casa contadina non può assolvere essendo tali funzioni estranee a consessi socio-economici depressi. L’accoglienza di un ospite e la dimensione relazionale sono svolte invece dalla cucina, locale tradizionalmente polifunzionale e polisemico in cui si concentrano e si svolgono molte delle attività domestiche. Nel corso di una nostra ricerca sull’abitazione rurale in Campania e Basilicata quando, negli anni Settanta, freschi di laurea, iniziavamo a cimentarci in attività di terreno, qui, nello specifico, in un’indagine che muovendo dalle premesse geografiche degli studi di Fondi e altri studiosi [Fondi 1964, Franciosa 1942] cercava, in una prospettiva più squisitamente antropologica, una relazione tra dimensione funzionale e simbolica delle tipologie di codeste regioni, dalle masseriole, alle masserie fortificate, alle torri colombarie, ci capitò di imbatterci nella presenza, benché sporadica, di salottini. In Irpinia, nei comuni di Sant’Angelo dei Lombardi, Torella dei Lombardi e Calitri, nonché nel potentino a Trecchina e Santarcangelo, assieme a semplicissime dimore ove talora un unico ambiente ospitava la cucina economica, una madia, il letto e la stalla, altre case, ristrutturate di recente mediante la creazione di corpi aggiunti, “vantavano” il tinello. Ci colpì in particolar modo quello di un agricoltore che dopo anni di migrazione in Svizzera, tornato al paese aveva creato ex novo un ambiente in cui disporre divano, poltrone, una vetrina e il televisore: si trattava di una stanza assolutamente non vissuta, chiusa a chiave, e con tutto il mobilio amorevolmente coperto da teli di plastica da togliere solo nel caso di visite “importanti” e ricorrenze familiari. Il salotto suggella quindi il passaggio da una condizione di sostanziale indigenza ad una borghese divenendo peraltro “location” ricorrente della foto di emigrazione. Il gruppo familiare si dispone, ben vestito, sui sofà contornato da tavolinetti con vasi di fiori, da mobiletti con grammofoni e radio, più di recente con giradischi e televisori debitamente accesi per comprovarne il funzionamento. In alcuni casi la foto della stanza “buona”, per essere più “incisiva” e meglio apprezzabile, è realizzata senza la presenza umana. I parenti rimasti al paese avranno in tal modo pieno agio di valutare mobili ed arredi che sottolineano il successo del progetto migratorio dei loro congiunti.

[2] L’ostentazione dell’automobile è un altro topos irrinunciabile, a qualunque latitudine il migrante si trovi. La postura prevalente vede il soggetto di fianco al veicolo, appoggiato con un braccio al tettuccio, sempre appoggiato alla fiancata a braccia conserte, con una gamba posata sullo pneumatico o sul predellino, più raramente seduto all’interno e al posto di guida. Nei primi casi egli ventila solamente il possesso di un veicolo “scelto” nei parcheggi, in sosta sul lato di una strada per la sua appariscenza.

[3] Attraverso uno studio di casi riferentisi alla prima metà del Novecento e determinatisi in paesi diversi della Basilicata, si tenta un’analisi degli specifici linguaggi visivi e audiovisivi adottati da alcuni emigranti per produrre un’immagine di sé attentamente definita e controllata con cui alimentare nei confronti dei luoghi di origine una dinamica al contempo di congiungimento e straniamento. Tali casi sono stati estratti da un archivio che custodisce diverse decine di migliaia di foto e filmati 16 mm, 8 e Super8 mm provenienti dagli Stati Uniti e dal Canada, dal Brasile e dall’Argentina, dalla Svizzera e dalla Germania. Si tratta di una vasta produzione di immagini realizzata da emigrati di area campana, lucana e pugliese compresa tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e gli anni Settanta del Novecento. Un corredo di informazioni sugli autori e sulle loro vicende migratorie accompagna foto e filmati. Tale raccolta è sezione di un più vasto archivio sulla foto familiare che costituisce una delle teche del recentemente costituito MAM – Museo Antropologico Multimediale dell’Università Federico II di Napoli diretto dallo scrivente, affiancato nel Consiglio scientifico da Gianfranca Ranisio e Enzo Alliegro. A sua volta il MAM raccoglie l’eredità del Centro Interdipartimentale di ricerca audiovisiva fortemente voluto da Lello Mazzacane che per molti anni lo diresse e rimasto attivo dall’inizio degli anni Ottanta al 2016.

[4] Vale la pena di ricordare che in un numero rilevante di casi il “servizio” matrimoniale consisteva in una sola foto ricordo eseguita in genere al termine della funzione religiosa sul sagrato della chiesa con gli sposi al centro e familiari ed amici disposti a corona intorno alla coppia. In altre circostanze il fotografo proponeva sei scatti che potevano consentire ai nubendi di farsi foto distinte con i testimoni, con i genitori, con i parenti più stretti. Non era infrequente che le nozze fossero celebrate senza la possibilità economica di chiamare un fotografo o semplicemente perché nel paese e in quelli circostanti non esisteva uno studio fotografico. Si poteva allora sperare nel passaggio estivo di un fotografo ambulante in occasione della festa patronale. Questi si disponeva solitamente nella villa comunale o nella piazza principale del paese dove srotolava il suo sfondo di tela buono per tutte le occasioni. Gli sposi che non avevano potuto assicurarsi la presenza del fotografo nel giorno delle loro nozze rimediavano facendosi ritrarre in quello del santo patrono. Dagli ultimi due decenni dell’Ottocento fino ancora al secondo dopoguerra siffatte povere modalità di fotografare le nozze rimasero diffuse in diverse aree prevalentemente interne del Mezzogiorno, da noi rilevate in Campania e Puglia ma soprattutto in Basilicata.

[5] Va ricordato che nel nostro sud studi fotografici che potessero dirsi tali erano presenti soprattutto nelle città e in paesi particolarmente popolosi. Spesso chi si proponeva come fotografo, sapendo di non potersi mantenere soltanto con questo mestiere, ne esercitava di altri, facendo, ad esempio, il barbiere, l’imbianchino, il falegname, lavori che presentavano talora certune affinità espressive, tecniche e manipolatorie con la fotografia. Nel corso di una nostra ricerca sul teatro di animazione in Puglia di prossima pubblicazione, in due casi ci siamo imbattuti in pupari e marionettisti che tra gli anni Quaranta e Sessanta del Novecento alternavano alla scena teatrale quella di uno studio fotografico. Sfruttavano in questo caso il comune gusto per l’allestimento del quadro e, materialmente, “riciclavano” i fondali del teatrino come sfondi pittorici dei loro ritratti fotografici.

[6] Abbiamo avuto la possibilità di riscontrare la presenza di studi fotografici che si specializzano non solo in rapporto ai generi ma alla clientela. Le foto di matrimonio che soprattutto gli emigrati italiani nelle principali città statunitensi desideravano particolarmente fastose, festose e affollate inducono alcuni fotografi a dotarsi di set di grande estensione e profondità. Potranno così, tali set, accogliere degnamente gli invitati a matrimoni che prescrivono schiere di damigelle e paggetti, familiari ed amici degli sposi, quali partecipi comparse, che, al pari di una coreografia hollywoodiana in sedicesimo, di un numero di Fred Astaire ove tutti i danzatori, al termine del balletto, si arrestano in pose sorridenti intorno al protagonista, parimenti si dispongono a ventaglio, a raggiera, in piedi, assisi, da ambo i lati della foto stringendosi attorno ai coniugi, consentendo soprattutto alla sposa di risaltare al centro dell’inquadratura, sovente “galleggiante” su un velo ricco, vaporoso e vistosissimo che dipartendosi dalla donna corre in primo piano a irretire lo sguardo di chi la foto osserverà. Bouquet straripanti di fiori, fondali dipinti che nulla hanno da invidiare a quelli teatrali, stilisticamente sospesi tra esigenze di assoluto calligrafico realismo e necessità di connotare in chiave pittorica lo sfondo per conferire ad esso il valore aggiunto di una rappresentazione assolutamente “artistica”, contribuiscono ad attribuire ai soggetti lo statuto momentaneo di attori di sé stessi, presi e compresi nella parte che il fotografo, e analogamente la natura dell’evento familiare e sociale rappresentato suggerisce ma anche impone loro. [Baldi 2004: 42-43, 113-117]. Quando le comunità di migranti campane, lucane, calabresi si vanno organizzando e strutturando in associazioni che nei nomi rievocano il paese natio, associazioni con tanto di presidenti e collegi di soci nominati e deputati al buon funzionamento dei sodalizi, prende piede la consuetudine di prenotare sale da pranzo e da ballo di prestigiosi alberghi dove riunirsi per festeggiare genetliaci, visite di personaggi illustri, ricorrenze di vario genere. Ancora una volta certuni fotografi, fiutando il business, si armano di imponenti banchi ottici capaci di incredibile profondità di campo e dunque in grado di immortalare su lastre di grande formato per la doverosa foto ricordo i convenuti nel salone, spesso centinaia di individui, tutti rigorosamente e perfettamente a fuoco, da quelli in primissimo piano a breve distanza dall’obbiettivo a quelli sul fondo del locale. Da codeste lastre si ottenevano stampe di notevoli dimensioni, 30X40 e oltre, che realizzate per contatto rendevano superfluo l’ingrandimento a tutto vantaggio di una incredibile definizione. Arrotolate con cura in tubi di cartone venivano poi spedite in Italia. È facile immaginare lo stupore dei destinatari di siffatte “ingombranti” testimonianze, stupore alimentato certamente dallo sfarzo complessivo di codeste imponenti foto di gruppo ma pure dal loro nitore e dalla loro grandezza. Si rifletta peraltro sull’effetto sorpresa, sulla suspence innescata dal progressivo svolgimento della stampa, una volta estratta dal suo contenitore che poco alla volta, sipario di sé medesima, si disvelava in tutta la sua rutilante magnificenza [Cresci, Mazzacane 1983: 144-145, Baldi 2004: 42, 124-127, Baldi 2010: 59-62]. Qui, sommamente, il ritratto fotografico innesca un’attenzione specialmente “analitica” per penetrare il suo fitto “parenchima” informativo [Schwartz 1989:152] che passa anche attraverso procedure tattili come quella dell’accorto spiegamento manuale del rotolo, delle dita che sfiorano la carta, che si soffermano su questo o quel soggetto acuendo e indirizzando l’osservazione mediante il tocco. «The importance of touch» [Sandbye 2014] che iscrive la fotografia in una cornice “multisensoriale” per più feconde indagini su quello che oramai si configura come complesso artefatto e non semplice immagine.

[7] Abbiamo potuto ricostruire la storia di Nicola, soprattutto per quanto attiene alla permanenza in America, grazie ad alcuni parenti oggi residenti a Potenza che gentilmente ci hanno anche messo a disposizione le foto dell’avo in loro possesso compresa quella che in questa sede descriviamo. Oltre a noi anche Francesco Marano ha dedicato la sua attenzione di antropologo visuale a questo fotografo del potentino [Marano 1994].

[8] Lo scienziato britannico Charles Wheatstone pubblica nel 1838 un trattato sulla visione binoculare realizzando quindi uno stereoscopio che utilizza in un primo momento coppie di disegni sostituiti più tardi da fotografie che lo studioso inglese richiede al padre della calotipia, Fox Talbot. Sarà invece David Brewster a realizzare nel 1849 uno stereoscopio particolarmente maneggevole; di due anni successivi è la nascita del primo apparecchio fotografico stereoscopico più compatto e maneggevole rispetto alla coppia di fotocamere appaiate usate fino a quel momento.

[9] Alla metà del diciannovesimo secolo si determinò una significativa congiuntura: alla diffusione della stereoscopia si associò la nascita del glass positive brevettato proprio nel 1850 da Frederick e William Langenheim, due fotografi di Filadelfia che esibirono la loro scoperta nell’esposizione universale londinese. La diapositiva su vetro acuiva notevolmente, rispetto alla stampa su carta fotografica, il realismo della visione stereoscopica. La fragilità e il peso del supporto su vetro fece però sì che ancora per molti decenni, fino ancora agli anni trenta del Novecento, la parte più cospicua delle stereografie, come vengono pure dette, fosse prodotta mediante l’incollaggio di una coppia di stampe fotografiche su un supporto in cartone. Anche il sistema di visione se ne avvantaggiò affidandosi a una mascherina in lamina di legno o alluminio dotata di due lenti, a un’asta con una guida per sostenere la stereoscopia dinnanzi alla maschera medesima e a una impugnatura. Tra le ditte che commercializzavano stereoscopi per lastre ricordiamo le ditte francesi S.G.D.G. e J. Gambs, mentre la Underwood & Underwood di New York, la H.C. White e la Keystone produssero apparecchi per le stereoscopie a stampa e ingenti quantità di immagini, vendute spesso in serie tematiche, custodite in contenitori di legno o cartone, talora a forma di libro. Fu poi la volta di macchine fotografiche che adottarono la più versatile pellicola avvolgibile; anche se non mandata in produzione la medesima e blasonata Leica vanta una versione stereo equipaggiata con due obiettivi e progettata dal medesimo ideatore di questo apparecchio di successo, Oskar Barnack. Produceva sulla pellicola 35mm un’inquadratura stereo di 22.5X24mm [Wade 1980: 97-98]. Il fatto che un colosso della fotografia coma Leitz avesse pensato nel 1935 alla fabbricazione di una fotocamera stereoscopica la dice lunga sul perdurante favore accordato da un’ampia clientela all’immagine tridimensionale.

[10] La View-Master nasce nel 1938 da un progetto di William Gruber, un eclettico inventore di origini bavaresi che trasferitosi nell’Oregon mette a punto un visore stereoscopico per sette coppie di diapositive montate in circolo in prossimità del bordo esterno di un dischetto di cartone che intelaia le immagini. Riesce a far produrre questo visore alla Sawyer's Photographic Service, ditta specializzata nella stampa di cartoline. Nel tempo il visore, che conoscerà molte ulteriori versioni, dal metallo alla bakelite alla plastica, verrà prodotto dalla GAF, dalla Tyco Toys, dalla Mattel, dalla Fisher Price ed infine, in tempi recentissimi da Google che lancia lo stereoscopico digitale View-Master Virtual Reality. Strumento ottico di intrattenimento ed al contempo giocattolo alla portata di tutte le tasche deve il suo successo, assieme alla sempre sorprendente visione stereoscopica, agli intenti didattici e pedagogici dei suoi dischetti che iniziano proponendo viaggi virtuali nelle località più diverse e affascinanti del mondo esaltandone aspetti paesaggistici, urbanistici, storico-artistici, etnografici e folkloristici. Scienza e tecnologia, teatro, cinema, cartoon, deliziose serie dedicate alle favole riassunte in sequenze visive ricostruite utilizzando la tecnica dei diorami che acuisce l’effetto tridimensionale e la profondità di campo sono ulteriori tematiche che entrano nel pingue catalogo del View-Master.

[11] Per quanto attiene al caso determinatosi a Castelmezzano ne fornimmo una prima e parziale ricostruzione nel corso di una ricerca su gioco e giocattolo in Basilicata. In visita alla locale scuola elementare le cui insegnanti, i cui alunni assieme ai loro familiari ci accolsero mostrandoci la loro personale raccolta di vecchi giocattoli sia di matrice agro-pastorale che in qualche più raro caso di manifattura seriale e industriale, ci colpì, del tutto distonica, la presenza di un visore stereoscopico con il suo fornito corredo di stereografie. Fu giocoforza interessarsi subito alla storia che vi stava dietro [Baldi A. 1999: 117-125].

[12] Centinaia di fotogrammi, o meglio frame dal momento che si è ovviamente deciso di lavorare su copie digitali delle pellicole 16mm per non comprometterne il già talora problematico stato di conservazione, sono stati enucleati in rappresentanza di tutte le sequenze che compongono i filmati di Rocco. Su tale base si è dato avvio a un laborioso processo di identificazione di persone, cose, luoghi ed eventi integralmente eseguito con pazienza certosina da una nostra giovane collaboratrice, Carmela D’Anzi alla quale si deve parimenti una prima ricostruzione della vita di Calace. [D’Anzi 2014-2015].

[13] A proposito di emancipazione è interessante notare come Rocco accetti di essere istruito da una donna e come una donna nella prima metà degli anni Trenta si potesse dilettare per puro passatempo con una pratica tecnicamente impegnativa nonché tradizionale appannaggio di una clientela soprattutto maschile.

[14] Che, letteralmente, il deus ex machina sia Rocco non ci sono dubbi: il paese però si adegua alle circostanze con disinvoltura e timidezza al contempo, cogliendo e godendo di una festosità a cui non intende rinunciare. Si rappresenta come può e come meglio crede assecondando l’operatore che a sua volta accoglie volentieri nella loupe tutti coloro che intendono entrare nell’inquadratura. Non si può non rilevare come questo “documentario” su Rocco, Brindisi e la sua gente, documentario squisitamente vernacolare, strida con successive rappresentazioni “colte” della Basilicata, fotografiche e cinematografiche, soprattutto della seconda metà del Novecento, spesso sull’onda lunga delle ricerche demartiniane, ove, secondo Mirizzi e Faeta, si poneva l’accento su «una diversità culturale, simbolicamente rappresentata da una regione che appariva […] fuori della storia e fortemente contrastante con l’immagine di una nazione aperta alla modernità» [Mirizzi 2010: 13 14], nonché come «una terra esotica, semplificata nella sua natura sociale […] poco italiana e, soprattutto poco moderna, arcaica, immota, atemporale. È una terra di ventosi silenzi, vecchi immobili, abitati e campi argillosi, bruciati dal sole, donne avvolte in scialli neri, bambini sudici e seminudi, interni con asini, maiali e cristiani, maghi e maciare miserabili, povere feste contadine, devozioni e pellegrinaggi, braccianti in cerca di terra e lavoro» [Faeta 2010: 29]. Tale varia umanità compare anche nel filmato del nostro emigrante e con essa terre assolate, cani e maiali, ma, per una volta, si mostra alquanto decisa a scrollarsi di dosso quella patina eternamente dolente che costituisce l’inossidabile depresso sfondo soprattutto di tanta documentaristica su feste, pratiche magiche e alluttamenti confezionati con nota disinvoltura etnografica da alcuni di quei nostrani documentaristi che si volsero a Lucania e Puglia in prevalenza.

[15] La capacità persuasiva delle immagini di Rocco è certamente notevole e la prospera America che manda in scena pare a portata di mano. In un continuo gioco di differenti e dissonanti rappresentazioni va notato come le riprese del nostrano cineamatore ma pure quelle stupenti foto di balli, cene, cerimonie, bei vestiti e belle ambientazioni che gli emigrati avevano cura di rispedire a casa sono lontanissime dai photoreportage che dagli anni Sessanta del Novecento indagano sulle condizioni di vita e lavoro degli emigrati, non solo italiani, sparsi per l’Europa. Tra questi lavori, spesso ospitati, in Italia, sulle pagine di riviste di settore e di concerned photography o pubblicati in volumi e cataloghi di mostre, ricordiamo quello di Uliano Lucas. Nuovamente dure, miserevoli, pericolose e insopportabili appaiono le condizioni di vita e lavoro di emigrati polacchi, turchi, indiani, portoghesi, jugoslavi, tunisini, algerini, giamaicani sparsi per l’Europa. [Lucas U. 1977]. Nel predetto gioco di dissonanti rappresentazioni Lucas pubblica, tra le altre, due immagini (n°45 e 46) che ritraggono, a Londra, uno studio fotografico specializzato nella ritrattistica per emigrati da rispedire a casa. Esempi dei ritratti possibili appaiono incorniciati in bella vista dietro il bancone. Accade così che un’asciutta foto a sfondo sociale metta in risalto la tenace resistenza di una ritrattistica ancora enfatica ed edulcorata ed evidentemente prediletta, nel caso specifico, da una clientela indiana.

[16] Foto come feticcio che nella ritrattistica di ambito anche migratorio si invera e si accredita mediante ulteriori retoriche come quella fortemente declaratoria del “front stage behavior”. «The photographs that were recorded and saved by the families illustrate "front stage" behavior. So one can speculate that the family members as actors will strive to leave impressions in a fixed fashion» che si traduce in una vera e propria performance ipostatizzata [Titus 1976: 525]. L’attendibilità di questo atto performativo, congelato e immobile, sta dunque nella sua fissità ammonitrice ed esemplare che concorre ad attribuirgli probatoria concretezza. «The analyzed family photos and the related narrative demonstrate that family photos affect the lives of individuals both as concrete representations and as values, ideologies, and ideas. The photographs exhibit the cultural norms and structures with which people justify meanings that are related to family» [Makiranta 2012 : 46].

[17] Più che di abbigliamento si dovrebbe parlare di “uniforme” nella misura in cui la codifica del fruttuoso inserimento nei contesti di arrivo prevede la dismissione dell’abito tradizionale, ricco, decorato e “bello” quanto si vuole ma emblema, comunque sia, di un consesso arcaico, contadino, cafone, a tutto vantaggio di giacca e cravatta, di tailleur e camicia sblusata con cui si esplicita il conformarsi a un abbigliamento decisamente urbano e moderno .

[18] Il fatto che Rocco si fermi a un “montaggio in camera” per intrinseci limiti tecnici se può essere visto come un condizionamento espressivo, per altri versi ci restituisce una rappresentazione dei suoi due opposti mondi per “prima intenzione”, senza ulteriori filtri e correttivi che sarebbero inesorabilmente intervenuti davanti a una moviola.