Era di pietra la sua bellezza

Capri, mitografia di un luogo

Eugenio Zito

Dipartimento di Scienze Sociali – Università di Napoli Federico II

Table of Contents

Un luogo di bellezza
L’isola delle sirene
Dall’isola capitale alle tenebre della storia
L’isola azzurra tra letteratura e scienza
Un luogo di differenze
Capri: da teatro della “dolce vita” a “location da favola”
Riferimenti bibliografici

Abstract. In the article I present, according to a cultural studies approach that includes the use of literary sources and images, a mythographical profile, although necessarily brief and not exhaustive, about the island of Capri in the bay of Naples, prodigy of natural beauty out of time, as a result of a singular combination of stone, sky, sea and light. This profile, giving back some features of its historical and cultural identity and the complex relationships that have crossed its land over time, by producing diverse and unique representations and narrations, lets discuss this Mediterranean island as anthropological place in the meaning that Marc Augé gives it. Finally, it is highlighted its recent transformation, coinciding with pervasive processes of globalization of the economy and culture of the past three decades, towards a possible nonplace.

Keywords. Anthropology, cultural studies, anthropological place, myth, Capri.

Capri, regina di rocce,

nella tua veste

color giglio e amaranto

vissi sviluppando

la fortuna e il dolore […].

Sbarcai d’inverno.

La sua veste di zaffiro

l’isola conservava ai suoi piedi,

e nuda sorgeva nel suo vapore

di cattedrale marina.

Era di pietra la sua bellezza […].

(Pablo Neruda, Chioma di Capri in L’uva e il vento, 1954)

Ho lasciato dietro di me l’ultimo santuario azzurro del Mediterraneo,

le grotte e le insenature marine e sottomarine dell’isola di Capri,

dove le sirene uscivano a pettinare sulle rocce i loro azzurri capelli,

perché il movimento del mare aveva tinto ed inzuppato le loro folte capigliature.

(Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto, 1998)

Un luogo di bellezza

I versi di Pablo Neruda citati nella prima epigrafe, in parte scolpiti in spagnolo nella pietra all’inizio del sentiero che da Punta Tragara conduce giù ai Faraglioni, restituiscono subito al viaggiatore qui giunto un’immagine sintetica e intensa dell’isola di Capri nel golfo di Napoli, della sua fantastica bellezza naturale. Neruda vi approdò nel 1952, in fuga dal Cile per il suo attivismo politico di comunista e per la sua opposizione al governo del paese, in compagnia della cantante Matilde Urrutia. In Confesso che ho vissuto, sua autobiografia, Neruda riferisce a proposito di Capri: «In quel posto dalla bellezza inebriante, il nostro amore crebbe. Non potemmo mai più separarci» [Neruda 1998, 283]. Proprio a Capri compose I versi del Capitano del 1952 e L’uva e il vento del 1954, in cui rime dedicate all’isola si intrecciano con quelle per la sua amata. Edwin Cerio nel dargli il benvenuto sull’isola, ospitandolo nella “Casa di Arturo” presso la suggestiva via Tragara, scrisse: «A Pablo Neruda si può fare l’augurio che egli, varcati i limiti delle nostre acque territoriali, approdi in una terra dalla quale non si scorge alcuna cortina di alcun metallo, e che ha per frontiere solo gli orizzonti della poesia e della bellezza» [Cirillo 2001, 12]. Neruda amò Capri e il suo straordinario incanto, i colori mozzafiato del mare che la lambisce, la sua pietra, le sue baie battute dal vento, i suoi dirupi scoscesi, e da quest’isola unica si lasciò ispirare profondamente [Cerio 1999]. Il poeta cileno ne cantò l’insuperabile fascino naturale - «Era di pietra la sua bellezza» - come nei versi citati nel titolo di questo articolo. Conobbe certo la Capri più vistosa, ma si perse pure in «una Capri recondita, dove si entra soltanto dopo un lungo pellegrinaggio e quando ormai l’etichetta del turista ti si è staccata di dosso […]. Uno si sente ormai consustanziato con le cose e la gente; ti conoscono i cocchieri e le pescatrici; fai parte della Capri nascosta e povera […]» [Neruda 1998, 283]. L’isola di Capri diventa così, sempre nelle parole di Neruda, riportate a questo punto nella seconda epigrafe, con le sue grotte e insenature marine, da “regina di rocce” a “ultimo santuario azzurro del Mediterraneo”, luogo mitico delle sirene.

La storia del mito di quest’isola e delle sue sirene è comunque ben più antica di quella espressa poeticamente da Neruda. Capri è bellezza, anomalia e mito in un intreccio circolare che l’ha resa, particolarmente a partire dall’Ottocento, emblema di fascino assoluto. La sua bellezza naturale è innegabile e antica quanto l’isola stessa. È un’anomalia non perché è irregolare rispetto a un canone prefissato, ma come l’opposto della somiglianza e quindi causa ed effetto di diversità che si evidenzia confrontando cose rapportabili per criteri altri. Capri è mito non tanto come un precostituito luogo evocativo di misteri e di bellezza astrattamente oggettiva o come una moda rincorsa dall’immaginario collettivo, ma come l’intersecarsi, il comporsi e anche lo scomporsi e il successivo ricomporsi di narrazioni o rappresentazioni della sua complessa realtà. In questo modo Capri è un mito i cui elementi costitutivi sono altri miti, fattori reali ed eventi restituiti poeticamente trasfigurati da ciò che lo sguardo dell’osservatore vi ha proiettato, in quanto dinamica espressione e produzione di cultura[1]. Quindi bellezza, anomalia e mito, pur attenendo a piani diversi dell’essere, delle qualità estetiche la prima, del reale oggettivo la seconda, della rappresentazione soggettiva il terzo, possono correlarsi, non solo per implicito legame che pure può mancare, ma perché nel rappresentare la prima e la seconda si può alimentare il terzo, e il mito, avvertito come elemento qualificante di differenza, può, attraverso l’esercizio ermeneutico[2], esso stesso essere riconosciuto fonte di bellezza simbolica e oggettivato come anomalia distintiva.

Rispetto allo scenario geografico locale Capri presenta differenze geologiche e naturalistiche. È diversa non soltanto da Ischia e Procida [Douglas 1988], le altre due isole del golfo di Napoli, ma anche dal territorio napoletano, tutti plasmati dal fuoco vulcanico dei Campi Flegrei e del Vesuvio. Rupi suggestive e misteriose come quella del salto di Tiberio, rocce calcaree possenti e luminose come quelle del monte Solaro, paesaggio scabro e vegetazione ridente ma non abbondante, totale mancanza di acqua, al confronto conservano ed evidenziano di Capri una più remota origine tettonica, quando fu espulsa dall’interno della terra da quei grandi movimenti tellurici che hanno prodotto anche l’ossatura dell’Appennino. «Capri in principio non era Capri ma un tutt’uno con la terraferma» [Maiuri 1988, 106], forse era il vero lembo estremo della penisola sorrentina, forse parte di una più estesa zona terrestre denominata “Tirrenide”[3]. Biologicamente vanta un’esclusività, quella della lucertola[4] dei Faraglioni, una sottospecie endemica presente solo su due dei tre Faraglioni e completamente azzurra, insieme ad altre particolarità locali della flora e della fauna marina [Bellini 1901]. L’isola presenta un’anomalia anche rispetto al culto mariano che nella religiosità campana risale alle origini stesse del Cristianesimo. Per quanto si possa cercare nelle tradizioni religiose di Capri non si ritrovano manifestazioni di culto mariano che siano originarie, che vadano al di là di una doverosa espressione di devozione personale circoscritta a una dimensione locale[5] e che abbiano quelle radici e quella intensità corale particolarmente presenti a Napoli e sulle altre due isole partenopee, dove il culto mariano si è sempre vissuto come una realtà collettiva, fortemente connotata sul piano culturale e di grande richiamo per le popolazioni circostanti [Ranisio e Borriello 2014]. La nascita e la crescita di tanti santuari mariani altrove, a partire dai primi secoli di fede, su preesistenti templi dedicati a divinità femminili pagane, testimoniano ciò. Intorno a essi si sono sviluppati simbolismi, forme rituali peculiari e iconografie che hanno coagulato elementi antropologici risalenti a un principio femminile archetipico e passati nel mondo mediterraneo classico, secondo varie congetture più o meno plausibili, da antichissimi culti della Grande Madre [Neumann 1981] e da culti e pratiche rituali ctonie di popolazioni italiche pre-elleniche [Zito e Valerio 2010, 2013]. In merito un esempio particolare è quello di Santa Maria della Lobra (da delubrum, tempio) di Massalubrense (Napoli), chiesa sorta in epoca imprecisata, ma sicuramente nell’Alto Medioevo, su un preesistente tempio pagano [Acampora 2001; Maldacea 1840]. Tutto ciò può far congetturare che nella stratificazione culturale di Capri manchi il “femminile” inteso come simbolica capacità generatrice. Capri non è “femminile” come Napoli [Niola 2003; Ranisio 2003], la città “mestruata” di San Gennaro e di Santa Patrizia [Boggio e Lombardi Satriani 2014], che periodicamente “sanguina” [Lombardi Satriani 2000]. Non possiede un territorio fertile e umido come Ischia che richiami l’idea della terra fonte di vita e non ha il profilo basso e regolare di Procida che evochi dolcezza e accoglienza.

Allo sguardo del mondo intero l’isola si presenta piuttosto come l’oggetto di un mito assoluto che conserva un’arcaicità pagana, per effetto di un raccontare plurimillenario che è stato fatto intorno a essa. La rappresentazione così prodotta ne ha ordinato senso e significati e trasfigurato simbolicamente la realtà. L’ha proiettata in un remoto spazio sacrale, ovvero separato e antico, e in un tempo inattuale, ovvero non presente e intangibile, che ne costituiscono i fondamentali elementi strutturali entro i quali si sono sedimentati la diacronia culturale e la sincronia di tutti gli elementi concreti e realistici dell’effettiva e oggettiva bellezza dell’isola. Quello di Capri è perciò un mito di uno spazio remoto e di un tempo inattuale che paradossalmente ha continuato a interagire con gli spazi storici e si è ritramato nella contemporaneità culturale, poiché, nato dallo sguardo del visitatore e dalla parola di chi racconta [Sonnentag 2005], continua ad alimentarsi per essere restituito sempre nuovo. Infatti il suo isolamento, le sue caratteristiche fisiche, le sue rupi, le sue atmosfere [Cerio 1991], i suoi ruderi [Borà 2002; Maiuri 1988], le tracce della sua mediterranea grecità [Douglas 1985], costanti nel tempo, il suo genius loci, hanno acquisito quella variabilità di significato in grado di offrire allo sguardo dei suoi visitatori quanto essi cercavano e di cui sentivano il bisogno, le conferme ai propri sentimenti, le ragioni del proprio vivere, uno spazio appartato di bellezza assoluta. In ciò consiste il suo potere di seduzione culturale, nonché la sua valenza antropologica di luogo [Augè 1993], che da tanto tempo si manifestano, al di là di quello che anche rappresenta, a partire da qualche decennio, in termini di turismo, mondanità e glamour internazionali. In merito La Capria così si esprime: «E così sono qui a Capri e non-più-Capri, il malessere continuo che mi prende è dovuto proprio a questa sensazione che tutto è non più, ed è perduto giorno dopo giorno inesorabilmente» [La Capria 1991, 147]. La “Capri e non-più-Capri” di cui parla La Capria sembra, in particolare, mostrare qualche significativo richiamo proprio ai concetti di luogo e nonluogo di Marc Augè. L’analisi antropologica si è spesso occupata del concetto di luogo e non è infrequente imbattersi in espressioni specifiche quali luogo antropologico, inteso come uno spazio connotato da specifiche tradizioni locali in grado di conferire una precisa identità alle persone che lo abitano e tramite esso entrano in rapporto tra loro e ovviamente con il luogo stesso cui appartengono. L’analisi di un luogo antropologico consente di afferrare quel complesso e pervasivo processo culturale attraverso cui tutte le società segnano, marcano e così ordinano lo spazio che occupano o stanno per occupare per mezzo di un’intensa attività di simbolizzazione squisitamente umana, sottesa a un bisogno continuo e diffuso di significazione e senso. Come dice Augè [2007] si tratta di un’attività che costruisce un’identità relativa in opposizione a un’alterità esterna e in funzione di un’alterità interna. Per Capri questo processo sembra essere avvenuto con una modalità molto originale, caratterizzata da un marcato cosmopolitismo in costante dialettica con un’anima culturale più autoctona e stratificata nella sua lunga storia per effetto di un grande interesse per questo spazio naturale mediterraneo dalla sorprendente bellezza. Ma che cosa sono in particolare luoghi e nonluoghi? Augè interpreta il luogo antropologico come «costruzione concreta e simbolica dello spazio […] principio di senso per coloro che lo abitano e principio di intellegibilità per colui che lo osserva» [Augè 1993, 59]. Nella sua visione i luoghi antropologici sono «identitari, relazionali e storici» [ivi, 60]. Sono identitari perché gli individui che li abitano possono riconoscersi e definirsi in essi, relazionali perché le persone possono leggervi le relazioni che le uniscono agli altri, infine sono storici perché i soggetti possono riconoscere una storia comune a cui richiamarsi, come vero e proprio segno di una filiazione. Il luogo diventa, in questa prospettiva, una complessa realtà spaziale in cui l’identità, le relazioni e la storia di chi lo abita si inscrivono. Rispetto a Capri potremmo aggiungervi un’ulteriore caratteristica legata alla sua capacità di tenere insieme differenti dimensioni identitarie, come mostra bene la sua storia e il suo marcato cosmopolitismo, tali da renderla un luogo multidimensionale, in cui il locale coesiste con l’estraneo/esterno che diventa poi, per effetto di un processo di dialettica culturale, squisitamente “caprese”. Il nonluogo invece «è uno spazio privo delle espressioni simboliche di identità, relazioni e storia: esempi tali di nonluoghi sono gli aeroporti, le autostrade, le anonime stanze d’albergo, i mezzi pubblici di trasporto […]. Mai prima d’oggi nella storia del mondo i nonluoghi hanno occupato tanto spazio» [Bauman 2002, 113]. Il nonluogo ha dunque caratteristiche opposte al luogo, come si è visto riguarda gli spazi di transito, di attraversamento, che sono pensati a prescindere dall’identità, dalle relazioni e dalla storia. Nella contemporaneità proliferano questi spazi che sono pensati attorno a dei fini specifici, configurandosi piuttosto come degli incroci di mobilità, dove il rapporto principale si svolge tra il luogo e l’individuo, non tra gli individui all’interno di esso. Lungo questa direttrice sembrerebbe che “Capri”, a dispetto di una millenaria vicenda e di una complessa identità culturale, prodotto delle articolate e numerosi relazioni che l’hanno attraversata, rischi di diventare sempre più, in concomitanza con un pervasivo e incessante processo di globalizzazione dell’economia e quindi della cultura, “non-più-Capri”, cioè un nonluogo, incrocio di mobilità piuttosto che spazio identitario con una sua storia e una dinamica rete di relazioni in movimento e trasformazione.

Figura 1. Isola di Capri [2017] - Ph. © Sonia Ritondale,

per gentile concessione dell’autrice.

Nell’articolo si tenterà, con un approccio cultural studies, che includono nella loro metodologia il ricorso a fonti e rappresentazione letterarie [Zito 2015a, 2015b, 2017] e a immagini [Baldi 2015; Baldi e Mykhaylyak 2017], un profilo mitografico, cronologicamente orientato anche se necessariamente sommario e incompleto, dell’isola prodigio, vero miracolo fuori del tempo la sua combinazione di pietra, cielo, mare e luce (figura n. 1). Tale profilo non può essere eluso laddove si voglia fare un discorso che la riguardi in quanto luogo antropologico [Augè 1993], a maggiore ragione se ha per tema un’elaborazione culturale della sua identità e del suo rapporto con le differenze e se si tiene conto dei recenti cambiamenti nella sua storia culturale verso una probabile condizione di nonluogo [Augè 1993]. Come verrà mostrato nei paragrafi che seguono dal mito delle sirene in Omero e poi in Virgilio, passando per i primi colonizzatori greci e per gli imperatori romani Augusto e Tiberio, il racconto di questo luogo si perde nelle tenebre della storia fino alla sua parziale riscoperta tra Seicento e Settecento con il Grand Tour, per poi esplodere compiutamente nel mito contemporaneo dell’isola con la “scoperta” della Grotta Azzurra nel 1826. Infatti, dagli anni Venti dell’Ottocento in poi, l’isola attrasse una folta schiera di scrittori, artisti, scienziati, semplici viaggiatori, industriali, intellettuali interpreti della vita culturale europea che spesso la scelsero come dimora, contribuendo a plasmarla per renderla un luogo antropologico unico, centro di cosmopolitismo coniugato con il colore locale [Gargano 2007; Money 1986]. Viene successivamente analizzata rapidamente la relazione tra letteratura e scienza nella rappresentazione dell’isola tra Ottocento e Novecento, con riferimento alle temperie positivista e decadentista, per concludere con i cambiamenti culturali e sociali che la investono e ne modificano profondamente la rappresentazione tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e gli anni Cinquanta della “dolce vita” sino alla globalizzazione della cultura degli ultimi decenni a cavallo tra Novecento e nuovo millennio.

L’isola delle sirene

Come per molti miti della cultura occidentale la storia di Capri e della sua bellezza si può far risalire ad Omero [VIII sec. a.C.]. Per il suo valore archetipico l’episodio dell’incontro con Ulisse è certamente il più antico tra quanti coinvolgono le sirene, tanto nella letteratura quanto nelle arti visive [Moro 2008]. Nell’Odissea i lineamenti primitivi del mito denotano le incantate bellezze di spiagge marine lontanissime, di un’isola abitata dalle sirene. Espressione figurata di questa malia è un canto dolcissimo, che fatalmente attira il navigante, benché questi sia avvisato da un gran mucchio di ossa insepolte sparse sul lido che chi vi approda rischia di morire senza più rivedere la propria casa (figura n. 2). Il richiamo delle sirene è così attraente perché nei processi di seduzione la voce esercita una fascinazione immediata, forse per la funzione strutturante che la comunicazione verbale riveste all’interno del legame primario [Bowlby 1989]. Il suono trasmette dunque significati collegati a esperienze sensoriali remote: si viene inspiegabilmente attratti da una certa inflessione di voce che riesce a catalizzare il nostro mondo interiore sottraendoci a noi stessi. Nell’episodio delle sirene ciò che incatena, dell’azione seduttiva, è il fatto di suscitare il desiderio senza soddisfarlo. Questa sospensione, tempo dilatato dell’attesa e insieme promessa di appagamento infinito, conferisce alla seduzione un’aura di numinosità e la inscrive nel registro dell’erotismo [Carotenuto 1994], come espressione di desiderio, prescindendo dall’oggetto. Nell’incontro con le sirene Ulisse sperimenta la modalità abissale del desiderio. Accettando il rischio di rimanere in ascolto, egli approda a una regione irreale popolata di potenze remote, dove il canto, mediato, diventa narrazione. Omero[6] prospetta a chi l’ascolta un’isola di un mare favoleggiato, mezzo di contatto e di conoscenza, ma infido e mortale, cioè come realtà che esprime le due fondamentali caratteristiche della vita umana, intelligenza e precarietà, e che acquisisce il suo carattere mitico con l’associazione a un altro mito, quello delle sirene.

Figura 2. Ulisse e le Sirene di Pietro Aquila, tavola quinta tratta da un insieme di tredici incisioni riproducenti gli affreschi di Annibale Carracci per il Camerino di Palazzo Farnese a Roma [1595-1597 circa],

contenute nel volume stampato a Roma e intitolato Imagines Farnesiani Cubiculi Cum Ipsarum Monocromatibus Et Ornamentis Romae in Aedibus Sereniss. Ducis Parmensis Ab Annibale Carraccio Aernitati Pictae a Petro Aquila delineatae incisae [1675-1680 circa].

Molti commentatori antichi dell’Odissea, identificando l’isola delle sirene con Capri [Gottfried Stallbaum 1825; Pelliccia 1782], le associano quindi tutto il carico mitografico omerico, in particolare l’idea di fascino irresistibile e di pericolo mortale e quello di un luogo dove ogni lettore potrà immaginare e ogni visitatore potrà incontrare le tracce di un mitico cosmo mediterraneo e quelle di straordinari esseri, le sirene dalla doppia natura, ibridazione morfologica di elementi umani e animali, di sorprendente bellezza - «Un dolce canto cominciaro a sciorre» [Odissea XII, 240] - e di straordinaria conoscenza - «Noi conosciam, ma non avvien su tutta/ La delle vite serbatrice terra/ Nulla, che ignoto, o scuro a noi rimanga» [ivi, 251-253] -, l’isola remota del desiderio inesauribile e sempre soddisfatto. La Capri delle sirene, fantastica ibridazione metamorfica, capace di significare incontro di diversità, superamento di dualità di pensiero, ma anche incarnazione di uno oscuro fascino ambivalente, incantatore e pericoloso, è il canone mitico della doppiezza. A Capri verrà sempre rivolto uno sguardo teso a cogliervi tale doppiezza, una duplicità costitutiva, l’ambiguità come fusione di opposti. Virgilio [I sec. a.C.] dicendo «Era delle Sirene omai solcando giunta agli scogli perigliosi un tempo a’ naviganti; onde di teschi e d’ossa d’umana gente si vedean da lunge biancheggiar tutti» [Eneide V, 1231-1235], richiama l’antica leggenda omerica, ma ne rende remoto il significato di pericolo. Presenta Capri nell’attualità di Enea, facendone geograficamente un territorio abitato da antichi greci, i mitici Teleboi - «non contento del paterno regno, Capri al vecchio lasciando e i Teleboi, fe’ d’esterni paesi ampio conquisto» [Eneide VII, 1124-1126] -, che si sono mischiati con l’elemento italico. Ponendo in connessione l’ibridazione etnica e l’antichissima ibridazione morfologica della sirena, opera agli occhi della sua contemporaneità un’ulteriore incorporazione di significati all’antico mito. Su questa linea anche lo storico Tacito [I-II sec. d.C.], quando riferisce della presenza a Capri di Augusto e Tiberio, parla dei leggendari Teleboi, come primi greci che sbarcano sull’isola, «[…] aperta sul più suggestivo dei golfi, prima che l’eruzione del Vesuvio mutasse la configurazione del luogo. Vuole la fama che i Greci abbiano occupato quelle località e che Capri sia stata abitata dai Teleboi» [Annali IV, 67]. Però ne inquadra la vicenda in un contesto che vede altri coloni greci, già dall’VIII sec. a.C., percorrere in lungo e in largo il golfo di Napoli, fondando progressivamente Pithecusa (Ischia), Cuma, Parthenope (Napoli). La rappresenta non tanto in sé e quindi percepibile come isolata più o meno in un mare remoto, ma riferita a un contesto geografico più determinato, quello del golfo di Napoli, sovrastato dal Vesuvio e trafficato dai colonizzatori greci, immagine di un microcosmo antropizzato. Al contempo è tuttavia descritta con una distinzione dalla terraferma, perché questa è possesso dei greci in genere, mentre essa è abitata dai Teleboi [ibidem]. La Capri dell’ibridazione etnica acquisisce una dimensione di distinzione anche antropologica che la espone allo sguardo come l’isola più occidentale del mondo greco, suggerendo un legame simbolico più diretto con il territorio della Grecia che con quello italico. Capri è ancora doppia: topograficamente attiene al territorio italico come la terraferma, perciò è più a occidente della Grecia, ma è ascritta a una specificità etnica greca, quella dei Teleboi, quindi è di tipica cultura greca. Capri acquisisce così il canone mitico della grecità e del paradosso apertura-chiusura, apertura al mondo di fuori del golfo, chiusura a quello interno del golfo.

Dall’isola capitale alle tenebre della storia

Con la vicenda della presenza a Capri dei due imperatori Augusto e Tiberio, riportata anche dallo scrittore Svetonio [I-II sec. d.C.], la minuscola isola sassosa, a cui è difficile approdare e in cui non esiste nemmeno una sorgente d’acqua, si presenta come capitale dell’impero romano, anomala, separata e remota, ma non per questo meno visibile e presente, proiettata com’era in una dimensione politica concorrenziale con Roma sul piano generale e localmente con Napoli. Fu la grecità, oltre alle sue bellezze naturali, a indurre nel 29 a.C. Ottaviano, non ancora Augusto, a togliere Capri dalle dipendenze di Napoli scambiandola con Ischia e a farne un dominio privato [Svetonio 2004].

L’imperatore frequentò l’isola per brevi soggiorni estivi durante i quali lo stesso Svetonio racconta come Augusto amava invitare i greci e i romani che abitavano l’isola a scambiarsi le vesti e a parlare gli uni nella lingua degli altri; come assisteva ai giochi degli efebi e al banchetto dei giovinetti capresi che a gara si abbandonavano al lancio di frutta; come egli avesse immaginato una città di “Apragopoli”, cioè del dolce far niente. A lui si devono le prime fabbriche di Palazzo a Mare, originario nucleo di ulteriori costruzioni fatte dal successore Tiberio. Questi, dall’età di sessantasette anni, tra il 27 ed il 37 d.C., stanco e amareggiato dagli intrighi romani, si rifugiò a Capri in cerca di quella pace e solitudine che solo l’inaccessibilità dell’isola dalle alte rupi e dal profondissimo mare gli poteva offrire. Esilio e isolamento hanno contribuito a creare il mito di Tiberio, la leggenda delle sue segrete dissolutezze e crudeltà che avrebbe consumato negli anfratti delle grotte di Matermania, dell’Arsenale e Azzurra trasformate in sontuosi ninfei o nei boschetti delle dodici ville fatte da lui costruire e dedicate ognuna a una divinità. La più grande era “Villa Jovis”, sua residenza abituale, eretta su uno strapiombo di circa trecento metri sul mare da dove avrebbe fatto precipitare le sue vittime (figura n. 3). Così sempre Svetonio commenta che con il favore della solitudine e lontano dalla città emersero tutti i suoi vizi, in precedenza nascosti.

Sulla scia della sua grecità Capri, attraverso i due imperatori, stratifica nel suo patrimonio dell’immaginario il carattere di uno spazio di esclusione e inclusione, ovvero di allontanamento e incorporazione, in cui si opera l’inversione qualitativa tra l’essere e il ruolo: una doppiezza nella quale la capitale diventa separata e remota e l’isola più visibile e presente.

Circa due millenni dopo lo scrittore Norman Douglas (1868-1952), noto frequentatore dell’isola, definisce questo spazio, avvertendone la sensazione che provava tutte le volte che sbarcava a Capri, “remoteness”, termine in realtà intraducibile perché connota queste tre sfumature di senso tra loro strettamente intersecate: “antichità”, “lontananza” di spazio, di tempo e di concetto, “distacco” come separazione e indifferenza [Money 1986; Palombi Cataldi 1996]. È il canone mitico dell’isola di Tiberio: il remoto, il potere e la trasgressione.

Figura 3. Ricostruzione di Villa Jovis a Capri tratta dal volume Das Schloß des Tiberius und andere Römerbauten auf Capri [1900] dell’architetto tedesco Carl Weichardt (1846-1906).

Non risulta che altri imperatori l’abbiano frequentata. Dopo Tiberio, perdendo la funzione di residenza imperiale, nonostante la sua posizione nel golfo di Napoli, l’isola scivola progressivamente nell’oscurità. Capri “si stacca” più di quanto già non lo fosse per la sua natura di roccia nel mare, dal suo contesto continentale, integrandosi in uno spazio di separatezza che l’ha tenuta lontana dalle grandi rotte e dagli itinerari culturali del Mediterraneo per più di dieci secoli, come in un buco nero della storia, una specie di inattualità reale, riducendosi a poco meno che un’isola difficile e povera ai margini della capitale Napoli [Galasso 2004], considerata anche moralisticamente «la sciaurata rupe delle peggio che animalesche mostruosità di Tiberio» [Bartoli 1684, 483].

Capri resta così nel canone mitico dell’isola assente e inattuale fino a quando non la riscopre la cultura europea moderna attraverso il Grand Tour [7], concepito come viaggio di formazione e di conferma alla nuova razionalità. Il Seicento e il Settecento furono secoli in cui la notorietà di Capri aumentò e si diffuse lentamente, ma in maniera importante, negli ambienti culturali. Capri, l’isola delle sirene, l’isola greca, l’isola di Tiberio, l’isola remota e difficile, ebbe da subito legato a sé quel fascino che non l’abbandonerà mai più e che ha contribuito nei secoli ad aumentare l’interesse dei visitatori. Tuttavia il Grand Tour, pur riversando nella nostra penisola fino all’epoca napoleonica moltissimi viaggiatori d’oltralpe, condusse però sull’isola, nel Seicento, solo sporadici viaggiatori.

In questo periodo si affacciarono sulle sue coste sicuramente George Sandys nel 1610 e Jean-Jacques Bouchard nel 1632. L’inglese Sandys, autore di A relation of a journey begun. An. Dom. 1610 [8] del 1621, manifestò verso Capri la cura del geografo e l’attenzione dell’etnografo. Il francese Bouchard, avventuriero colto e libertino, nel suo diario Voyage dans le Royaume de Naples del 1632, con spirito libero vede e annota tutto, descrive con cura i caratteri paesaggistici e culturali capresi.

Nel Settecento non mancarono viaggiatori sempre più numerosi, ma più richiamati oramai da una forma di esotismo. L’idea di Grand Tour si era progressivamente modificata. I “turisti” non erano più così giovani e spesso non erano nobili, il Tour stesso non veniva più considerato esclusivamente come conclusione di un percorso di studio, conferma di uno status sociale, esperienza di memorie apprese sui libri, ma piuttosto viaggio di piacere.

Si trattava di viaggiatori che manifestavano prevalentemente un approccio di superiorità per il quale l’immagine dell’isola era quella di un luogo arcaico cristallizzato e abitato da isolani con usi e costumi folkloristici e nel quale aleggiava ancora l’eco degli antichi fasti di Tiberio, ma anche l’ombra della sua vita dissoluta e crudele così come l’avevano tramandata Svetonio e Tacito. Oggettivamente era rimasta ancora isolata, ritenuta ammasso di rocce, piuttosto arida e con una popolazione considerata avara.

Padre Daniello Bartoli nel 1646 la raggiunge a nuoto dopo il naufragio della galea maltese con cui stava andando a Palermo. Ne riporta ovviamente un’impressione non positiva, definendola così: «Uno scoglio entro mare […] ch’ella potrebbe dirsi la Rupe de’ Disperati» [Bartoli 1825, 83]. È innegabile che fosse difficoltoso raggiungerla e magari soggiornarvi. Pur essendo relativamente breve il percorso che la separava dalla terra ferma, ma infido per correnti, moto ondoso e venti, dava spazio a pochissimi collegamenti. Inoltre muoversi per l’isola rocciosa era faticosissimo, con strutture per l’ospitalità non confortevoli. Goethe evitò “la pericolosa isola di scogli” nel suo Viaggio in Italia del 1787. Ne riportò un sinistro ricordo: la sua nave rischiò un brutto naufragio sotto la rupe Tiberio mentre rientrava dalla Sicilia a Napoli. Perciò dell’isola delle sirene si limitò ad apprezzarne la bellezza solo passandovi con la nave durante il viaggio di andata in Sicilia. Capri diventa così l’isola esotica, duplice immagine di bellezza e pericolo.

L’isola azzurra tra letteratura e scienza

Il vero mito di Capri si configura con la contemporaneità[9] ed è nell’arco del novantennio che giunge fino alla Prima Guerra Mondiale che si svolge parallelamente, dal punto di vista culturale, al Romanticismo, al Positivismo e al Decadentismo. Infatti nel 1826 lo scrittore August Kopisch[10] riesce a penetrare avventurosamente in una grotta che, «[…] una timorosa superstizione per molti secoli impedì di visitare […] noi la chiamammo […] Azzurra» [Kopisch 1989, 10], assicurandosi la fama di scopritore di un luogo che certamente i pescatori del posto conoscevano benissimo. In realtà si trattava di una riscoperta. Già nella mappa seicentesca del geografo Coronelli [1696] era indicata come Grotta Gradola. Per l’archeologo Maiuri «I romani hanno conosciuto quell’antro e, grazie a loro, vi si accede con facilità» [1988, 203]. Kopisch annota l’evento sotto la data 17 febbraio 1826 sul registro degli ospiti stranieri della locanda Pagano a Capri e lo descrive in lettere inviate alla madre in Germania, ma solo nel 1838 ne pubblica il resoconto. È il primo viaggiatore contemporaneo che annuncia soprattutto nel Nord Europa l’esistenza del fatidico antro marino, gli dà il nome di Grotta Azzurra, richiama l’attenzione dell’Europa colta sul mito di Capri, diventando uno dei principali responsabili del rilancio dell’isola e della sua fortuna internazionale (figura n. 4). Il racconto di Kopisch inquadra la riscoperta nell’osservazione di una quotidianità popolaresca della vita locale, espressa con una certa sensibilità e resa con toni vivaci: «[…] al nostro arrivo la spiaggia s’affollò di gente dei due paesi, uomini e giovanetti, donne e fanciulli, ben propri a far rivivere la memoria della bella, antica popolazione greca […]» [Kopisch 1989, 18].

I luoghi e la natura sono descritti con interesse e attenzione, talvolta non senza effetti magici, con richiami suggestivi a tutto l’antico bagaglio mitico dell’isola, dalle sirene - «Un sasso appiattito […] si chiama la Sirena, ed è leggenda che lì Ulisse abbia inteso il pericoloso canto […]» [ivi, 21] - alle presunte efferatezze di Tiberio - «Mutò l’aspetto dell’isola […] con lussureggianti giardini, nei cui antri […] sgavazzavano […] i turpi servi dei suoi vizi» [ivi, 23] - senza tralasciare il ricordo spaventoso delle incursioni saracene - «[…] i guasti vengono imputati, più tardi, ai barbari e ai saraceni, che davvero imperversarono in questi luoghi» [ivi, 24] - o i più recenti fatti relativi alla conquista dell’isola da parte dei francesi[11]. L’effetto complessivo è che al lettore appare che la “nuova” meraviglia di Capri si allacci naturalmente e direttamente alle antiche leggende. In realtà già dal 1835 Hans Christian Andersen aveva contribuito a diffonderne la notizia e il nome e ad alimentarne la fama con il romanzo L’improvvisatore. In quest’opera lo scrittore trasgredisce la regola del diario di viaggio e si proietta in un personaggio d’invenzione incorporandolo con la memoria dei luoghi che visita. Il protagonista Antonio, incarnazione della sua vicenda personale, tra tante avventure e peripezie si sposta da Roma a Napoli, dove decide di calcare le scene da “improvvisatore”[12], come improvvisatore è l’autore, perché l’intero romanzo è alla fine improvvisazione fiabesca.

Figura 4. Die Blaue Grotte auf der Insel Capri [1835-1836 circa], acquerello del pittore austriaco Jakob Alt (1789-1872), dimensioni 41,1x51,6 cm, conservato presso il Museo Albertina di Vienna (Austria).

Infatti Andersen restituisce i luoghi, e tra questi la Grotta Azzurra, con una precisione incantatoria, con il fascino che sono a loro propri e spesso vi apre una visione fiabesca e magica. Valga ad esempio lo strano naufragio che salva il protagonista da un duello forse mortale, lo conduce a una morte apparente e a una resurrezione in un antro magico che altro non è che la Grotta Azzurra [Andersen 2013, 207-213]. Con il successo del libro, che anticipa quello delle Fiabe (pubblicate a partire dal 1835), e con i molteplici significati che trasmette, Capri ridiventa visibile, affacciandosi all’Ottocento con una nuova veste. La celebre Grotta Azzurra diventa l’oggetto di desiderio di numerosi viaggiatori romantici, peraltro con una sorta di richiamo-rimbalzo con le stesse Fiabe e con il libretto di Kopisch del 1838. È il canone dell’isola romantica e azzurra. Da questo momento in poi prende l’avvio il mito compiuto, ovvero di articolata ed estesa notorietà, tutto contemporaneo, di Capri che inaugura un periodo di grande fama e attirerà un numero straripante di visitatori. In questo senso Capri è un mito tutto ottocentesco, che nella dimensione della sua bellezza naturale, simboleggiata dalla Grotta Azzurra, riassorbe e assimila tutte le rappresentazioni anteriori, ma si apre anche a rappresentazioni, simboli e significati nuovi. Sicuramente a quel certo esotismo ereditato dai viaggiatori del Grand Tour che erano mossi dal forte motore della curiosità intellettuale si aggiungerà poi una forma di cura per la malinconia o il sentimento del potere taumaturgico del viaggio, rispetto a una condizione esistenziale di incertezza in un momento di rivoluzione epocale dal punto di vista politico e sociale: l’età delle rivoluzioni borghesi si sta concludendo, la borghesia si avvia al suo trionfo e si profila la questione sociale [Hobsbawm 1999, 2006]. Questo esotismo trova, almeno all’origine, la sua rispondenza nel sentimento che muove soprattutto gli artisti romantici che visitano la piccola isola del golfo di Napoli. Essi rimangono affascinati dalla sua natura integra, dai panorami a picco sul mare, dal potere evocativo dei suoi antichi ruderi e dalla semplicità con cui i pochi abitanti vivono. Vi ritrovano anche un gran fervore di scavi e di ricerche archeologiche. I Borboni, recente dinastia regnante, hanno avviato a cavallo tra Settecento e Ottocento un programma di scavi e studi sulle rovine degli antichi palazzi romani, accendendo in tanti europei, anche su Capri, quell’interesse che già da un cinquantennio si era manifestato per l’area archeologica vesuviana. Sono intanto migliorati i trasporti navali e Napoli è all’avanguardia nella costruzione di battelli a vapore, i piroscafi. L’isola diventa così più accessibile e anche più accogliente, i capresi cominciano a organizzare locande e i primi rudimentali alberghi per rendere possibile l’ospitalità.

Figura 5. Cartolina da foto del porto di Marina Grande a Capri [1880-1900 circa], Centro documentale dell’isola di Capri, comune di Capri (Napoli).

Figura 6. Cartolina da foto della baia di Marina Grande a Capri [1880-1900 circa], Centro documentale dell’isola di Capri, comune di Capri (Napoli).

Figura 7. Cartolina da foto di Marina Piccola a Capri [1880-1900 circa], Centro documentale dell’isola di Capri, comune di Capri (Napoli).

La rinnovata rappresentazione di Capri, tuttavia, verso la metà dell’Ottocento vira verso nuovi orizzonti: essa va inquadrata in un fenomeno assai complesso nel quale arte, scienza e letteratura si intrecciano. La dimensione romantica si allaccia a un sorprendente fervore scientifico. Nell’età del Positivismo Capri rappresenta un vero e proprio centro di studi e di ricerche, un laboratorio a cielo aperto, soprattutto per le scienze naturali. Nel quarantennio fra il 1860 e il 1900 sono numericamente rilevanti i lavori scientifici prodotti.

Figura 8. Cartolina da foto dei Faraglioni a Capri [1880-1900 circa], Centro documentale dell’isola di Capri, comune di Capri (Napoli).

È un’altra Capri, luogo di convergenza, tra gli altri, di studiosi e di ricercatori quali Julius Huethe, appassionato di botanica, gli zoologi Theodor Eimer e Anthon Dorhn, i geologi Paul Oppenheim e Johann Walther. Da tutto questo fervore di ricerche emerge una rappresentazione dell’isola in termini di reali conoscenze scientifiche che la fa risaltare anche come un luogo dalla geografia singolare e instabile. È la storicità del passato lontanissimo a determinare, per il tramite di ipotesi scientifiche, l’immagine di Capri nella sua “nuova” riconosciuta centralità geologica. Dunque ciò che la condiziona è la sua realtà di luogo isolano, ma la sua “isolanità” pare caratterizzarsi come originario distacco, quasi come un avvertimento di voler descrivere la sua condizione come fortemente e paradossalmente staccata dalla terra. Raffigurare Capri, dunque, significa entrare nel modello letterario di un altrove isolano/isolato, al tempo stesso prossimo e lontano. Proprio alla rappresentazione letteraria dell’isola da parte di un uomo di scienze, esponente della grande società cosmopolita di fin de siècle, il medico svedese Axel Munthe, con La Storia di San Michele[13], si deve una buona parte della successiva fama di cui Capri ha goduto nel mondo e il suo conseguente boom turistico. A testimonianza della sua prolungata permanenza sull’isola, conosciuta già dal 1876, resta, oltre al romanzo, la discussa “Villa San Michele” ad Anacapri che Munthe ha curato in ogni dettaglio e che fu per anni meta obbligatoria per ospiti importanti di Capri, nonostante la sua fama di scienziato scorbutico e difficile.

Più in generale attraverso l’approccio scientista l’isola è prima che reale un luogo della memoria percepito attingendo ai diversi livelli della realtà, della scienza e della storia: dunque un vero e proprio luogo che vive in uno spazio dinamico, aperto, suscettibile di trasformazioni, ma che presuppone la distanza, la separazione, il fatto di non essere in contatto. Ciò la rende esclusiva ed esclusa. Questa separazione può divenire, tuttavia, incontro attraverso anche un turismo d’élite che spinge a riproporne la bellezza sulle prime cartoline-fotografie che cominciano a circolare nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, riproducendone gli scorci più significativi come Marina Grande, Marina Piccola e i Faraglioni (figure n. 5-8). Per altri aspetti, poi, nel riplasmarsi, emerge anche una sua potenziale capacità eversiva che offre allo sguardo del visitatore un’isola, entro la quale e per la quale, ogni trasformazione diviene possibile, non solo sul piano naturalistico ma anche su quello di un più generale ordine simbolico. La scienza conferma quindi l’immagine di Capri come sede di un vitalismo naturalistico e rimanda allo sguardo della cultura europea, insieme alla dimensione esotica colta dallo spirito romantico, quella di un paradiso naturale che conserva un’arcaicità pagana, i cui segni emergono dagli scavi archeologici, come pure si può notare in alcune rappresentazioni ispirate all’isola dalla bellezza mitologica e grecizzante del pittore Lawrence Alma-Tadema (1836-1912)(figura n. 9). Capri viene colta come un paradiso naturalistico in cui la bellezza e la sensualità della natura e della popolazione possono inoltre presentare una valenza omoerotica. Ad essa può indurre anche il più generale stereotipo, presente nella cultura europea settentrionale continentale, di un mondo meridionale mediterraneo caratterizzato da un erotismo più disinibito e meno condizionato dalla rigida separazione binaria uomo-donna, malgrado le proibizioni della Chiesa. Era uno stereotipo esotizzante, ma aveva avuto un fondamento oggettivo nel fatto che i rapporti omosessuali erano effettivamente diffusi e spesso tacitamente tollerati, purché si rimanesse nell’ambito del modello dominante[14], contribuendo a generare così un certo entusiasmo nei visitatori stranieri.

Figura 9. Sappho and Alcaeus [1881], olio su tela del pittore olandese naturalizzato inglese Lawrence Alma-Tadema (1836-1912), dimensioni 66×122 cm, conservato presso il Walters Art Museum di Baltimora (Maryland-USA). L’autore illustra un passaggio dell’antico poeta greco Ermesianatte di Colofone (IV-III sec. a. C.). Sebbene ambientato in Grecia l’atmosfera complessiva richiama, anche per il profilo costiero sullo sfondo, le suggestioni capresi che il pittore ben conosceva per aver soggiornato sull’isola.

Un luogo di differenze

A questo punto acquisisce rilievo anche il mito di Capri come luogo in cui può essere giocata la dialettica tra clandestinità e visibilità in una cornice di bellezza, in un contesto di tacita accoglienza sociale e di relativa sicurezza sul piano normativo-legale, nel momento in cui emerge con prepotenza la questione omoerotica prevalentemente maschile, soprattutto nell’Europa continentale. Le famiglie aristocratiche o alto borghesi, che hanno in casa qualche “impresentabile”, tendono a favorirne i soggiorni all’estero; mete abituali, il Sud del continente europeo e l’altra sponda del Mediterraneo, il Nord Africa. È la copertura dei “paesi caldi”, con climi adatti a curare disturbi vari o malattie nervose, ma soprattutto, paesi simbolici e potenzialmente permissivi, luoghi[15] in cui si evidenziano particolari nessi tra il tema dello spazio e i problemi relativi al genere [Zito 2015a, 2017].

Capri, con alcune località della Sicilia tra cui Taormina [Bolognari 2012, 2017], diventa la meta “turistica” più significativa in cui naturalmente verranno a costituirsi delle vere e proprie comunità, usando una terminologia dell’epoca, di “uranisti” e “amazzoni”[16] [Gargano 2007]: non solo spazio emotivo o individuale, ma luogo di esperienza antropologica, entro il cui confine si manifesta e si vive la differenza che acquisisce senso in un sociale tollerante, che accoglie ma non confina, un confine di senso non un confino di allontanamento e isolamento sociale[17]. Molti vollero “mediterraneizzarsi” in una sorta di naturalismo pagano dalle molteplici espressioni anche sessuali, costituendo un contesto antropologico unico dove si intersecarono pure alcune espressioni della cultura e dell’arte otto-novecentesca. Così una variegata folla di “uranisti” e “amazzoni” trasformò Capri in un mito anche per la rappresentazione culturale dell’omosessualità soprattutto maschile [Zito 2015a, 2017]. Tra gli eccentrici e i dandy che vi approdano c’è Oscar Wilde, che, uscito dal carcere nel 1897, arriva a Napoli [Wilde 1981] e poi con l’amante Alfred Douglas a Capri. Pur scrivendo pochissimo di quest’isola, il suo semplice passaggio e la manifestazione di intolleranza di cui è vittima intrecciano il suo dramma personale e amoroso con il mito di Capri, riproponendola sulla scena del mondo come luogo trasgressivo.

Un altro raffinato dandy, il giovane e ricco barone Jacques Fersen, viaggiatore e scrittore, sbarca a Capri nel 1904 in fuga da Parigi per disavventure giudiziarie a causa di relazioni “pederaste”. Qui dimorerà nella “Villa Lysis” da lui costruita non distante dai resti di “Villa Jovis”, fino alla morte nel 1923, salvo brevi periodi di viaggio altrove, soprattutto in Oriente dove acquisì l’abitudine agli stupefacenti [Fersen 1990]. Nel suo romanzo d’ambiente caprese E il fuoco si spense sul mare… del 1909 si ritrovano molti elementi del Decadentismo, intrecciati con una rappresentazione della Capri del momento. Il romanzo presenta sul frontespizio una citazione e contiene due dediche. La citazione è di Boecklin[18], autore del quadro L’isola dei Morti del 1883: «Capri, funebre e fiorita/Capri perla d’oriente […]» [Fersen 2005, 11]. Da essa Capri appare una replica del quadro che rappresenta un rematore e una figura vestita di bianco in una piccola barca che attraversa delle acque profonde diretta a un’isola sassosa (figura n. 10).

Figura 10. Island of the Dead, Third Version [1883], olio su tavola dell’artista svizzero Arnold Böcklin (1827-1901), dimensioni 80×150 cm, conservato presso l’Alte Nationalgalerie di Berlino (Germania).

Vi sono, nel quadro, elementi essenziali utilizzati dal pittore per alludere ad altro: mare, rocce, cipressi e una barca, elementi reali con cui Boecklin evoca il silenzio, l’immobilità del remoto, la sua bellezza. Il quadro induce al sogno come separazione dalla realtà, come luogo di morte simbolica a una condizione fatta di affanno per rivivere nell’incanto di un’isola dalla bellezza assoluta con un’iconografia sensuale ed estetizzante. Il canone dell’estetismo investe l’isola di Capri: ancora una volta essa è il luogo ove nella bellezza si risolve ogni contrarietà e differenza. Inoltre quello della morte, come anestesia al pari della bellezza, è un tema che trascorre in molti autori decadenti ed è un topos che accompagna l’immaginario omosessuale del tempo. Poi una delle due dediche è a Capri stessa di cui si sottolinea la miticità del paesaggio: «Tu sei l’isola della luce […]. Tu sei anche la sirena […]» [ivi, 15]. Ne evidenzia il carattere misterioso e ambiguo, traslato in un’immagine che vuole raccogliere l’interezza delle culture del Mediterraneo, nella bipolarità di una “sfinge androgina”, ma che è anche un modo per riprendere il tema del paganesimo, nel quale il protagonista, lo scultore Maleine, riconosce il paradiso perduto della felicità e della bellezza in opposizione al dolore e al peccato predicati dal Cristianesimo. Ancora Capri, isola delle vertigini, appare al protagonista come uno dei centri di questo paganesimo, dove è possibile con la sofferenza creare la bellezza. Ma l’arte che dovrebbe sublimare la realtà fallisce, il romanzo si conclude con il suicidio del protagonista, cui vi giunge in un crescendo dove l’autore concentra tutti i temi della delusione, compresa Capri, contro la quale lancia un’invettiva «O isola, tu scomparirai. Fuoco, tu ti spegnerai sul Mare!» [ivi, 171]. Maleine-Fersen individua in Capri che pure è Fuoco - è questo un altro appellativo mitico dell’isola - come una sorta di specchio dell’ipocrisia della società borghese che ha condannato la sua vita, la sua aspirazione alla bellezza assoluta, oltre le convenzioni sociali e al di là della morale corrente. Lo stile e i toni rendono l’evento tragico una mera rappresentazione letteraria, ma non per questo meno inquietante, considerando che quindici anni dopo Fersen si darà veramente la morte, con un rituale estetizzante, in una Capri che sta cambiando e si avvia a imbrigliarsi culturalmente nella gabbia del regime fascista. Non a caso in quegli anni e soprattutto poco dopo, durante il Fascismo, Capri diventa l’immagine della sirena sessualmente ambigua e culturalmente corrotta che bisogna recuperare al valore della romana virilità [Leone De Andreis 2002], pur restando luogo naturale di bellezza e sanità fisica[19].

Anche lo scrittore scozzese Norman Douglas si rifugia in Italia a causa di uno scandalo [Fussell 1988] all’epoca in cui scrive uno dei suoi libri più celebri La terra delle sirene del 1911. In quegli anni si divide tra Capri e altri posti e da allora l’amore per i ragazzi e la scrittura dei libri di viaggio sarà la doppia cifra della sua permanenza italiana e della sua vita [Palombi Cataldi 1996]. Nell’opera e nell’esistenza dell’autore la questione dell’orientamento sessuale si intreccia con nesso molteplice all’idea di spazialità e a quello di bellezza naturale [Money 1986]. Quando si rende conto delle sue inclinazioni erotiche sceglie come luogo d’elezione l’Italia e come posto preferito Capri [Sandomenico 1996]. Essendosi scoperto omosessuale con la preferenza per partner molto più giovani e avendo deciso di vivere compiutamente le sue inclinazioni, individua, per poterle esprimere, un luogo come il meridione d’Italia dove la tradizione dell’amore greco fra erastès ed eròmenon non si è mai del tutto spenta. Tuttavia le passioni di Douglas si sublimano in buona misura in testi che sono solo allusivi della sua personalissima etica erotica e spostano la loro attenzione nella descrizione e narrazione degli spazi e della loro bellezza. La sua scrittura è quella del viaggio colto e dell’esperienza esistenziale, che, intorno a un itinerario geografico, parla soprattutto dei luoghi, delle loro caratteristiche, delle idee che vi sono nate e vi rimangono simbolizzate nelle tracce del passato. Lo spazio della libertà, per Douglas, è quello del viaggiatore che si muove a piedi e a contatto con gli individui comuni e singolari che incontra nelle sue peregrinazioni lungo l’Italia, le coste mediterranee e a Capri, cogliendovi i molteplici aspetti della sua intrinseca bellezza [Douglas 1988]. Ma è anche il luogo segreto e vuoto dell’erudizione in cui cerca la verità attraverso le memorie di un tempo molto diverso da quello del presente, della modernità e dell’industrializzazione, una verità che, però, nell’attualità della vita a Capri, consente all’autore di vivere il suo paganesimo. L’isola azzurra offriva una colonia cosmopolita di ospiti stranieri e di personaggi per lui adorabili e stravaganti, l’opportunità di coltivare la sua passione per gli studi naturalistici, ma soprattutto corrispondeva alla sua filosofia di vita intrisa di epicureismo, al suo sentimento pagano dell’otium. In Vento del Sud del 1917 ambienta la storia a Nepente[20]: isola mediterranea di fantasia descritta con caratteristiche e dettagli di tutte le isole amate dall’autore, da Ponza a Ischia, da Lipari a Capri. Di Capri presenta qualche scorcio, la Piazzetta, le grotte, i precipizi e rappresenta quella sua dimensione mitica di evanescenza. Ciò basta, insieme al nome, a sollecitare nel lettore l’idea che Nepente sia Capri [Douglas 1990]. A Nepente domina lo scirocco che induce alla follia chi vi dimora, follia che causa un omicidio, che diventa giustificabile, encomiabile e infine insignificante agli occhi del vescovo Heard stabilitosi sull’isola per curarsi dalla stanchezza. Per effetto di riflessioni e di dialoghi che istillano il dubbio nella mente del vescovo si sgretola progressivamente il suo conformismo, con un cambiamento del suo giudizio morale e un capovolgimento dei suoi valori. Il vescovo recupera così il suo individualismo e la sua autonomia etica attraverso la sua “mediterraneizzazione”[21] [Douglas 1990]. Capri, nella visione di Douglas, incarna ancora la bellezza utile, perché nella sua valenza estetica abbraccia una dimensione antropologica e coinvolge il senso di una moralità più attenta alle differenze nella natura e nell’agire degli uomini. È l’implicita e involontaria risposta a “l’inutile bellezza”[22], espressione con la quale Ada Negri liquidava invece l’estetismo di Jacques Fersen e forse, per sua riserva morale, Capri stessa, misteriosa e piena di fascino sul piano estetico, ma ambigua e pericolosa sul piano morale per i singoli e rispetto a un ordine sociale e politico precostituito. Quasi rinata, e pure esaltandosi ne I Canti dell’Iso­la del 1924, Negri poeticamente coglie in Capri la magia del sensibile e tracce di un’invisibile realtà, ma con sguardo disincantato ne svela il pericolo [Negri 2000]. Le appare che il fallimento nella vicenda di Fersen sia la prova che risolvere tutto nella bellezza come unica ragione di vita non possa dare senso alla vita stessa, né risultare efficace nell’elaborazione del dolore e della sofferenza. Tuttavia sull’orizzonte culturale contemporaneo attuale, a partire dalla fine dell’Ottocento, Capri acquisisce quella dimensione mitica che, proprio attraverso la rappresentazione dell’omosessualità[23] soprattutto maschile [Mosse 1996] in una cornice di bellezza, indica nella comprensione, nella tolleranza e nel riconoscimento delle differenze la via maestra per l’agire [Zito 2015a, 2017].

Capri: da teatro della “dolce vita” a “location da favola”

Dalla seconda metà del Novecento in poi, con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la conclusione del periodo fascista, Capri diventa sempre più ritrovo e capitale glamour della Cafè Society internazionale. Si inaugura così la stagione dell’isola delle feste alla moda, delle cene in abito da sera, delle stravaganze ricercate, dello star-system, del mondo dei divi del cinema come Clarke Gable, Greta Garbo, Rita Hayworth, Liz Taylor, Audrey Hepburn e Sophia Loren e delle copertine da rotocalco, dei flirt e delle passioni di una stagione, del gossip rosa e delle abitudini di gran lusso. L’isola, nell’immediato dopoguerra, si era già trasformata in un imprescindibile crocevia per il mondo dell’arte e del cinema, ma anche del giornalismo e dell’editoria e quindi meta ineludibile per tutti coloro che stavano facendo la nuova Italia, tracciando le coordinate di quella che sarebbe stata la vita culturale della neonata repubblica. Capri continua a essere un sorprendente laboratorio culturale ospitando, tra gli altri, intellettuali come Curzio Malaparte con una storia di legame con l’isola, precedente alla guerra, e con tutto il carico di una personalità di certo brillante nel variegato panorama della cultura italiana del tempo, ma anche molto controversa, amato e odiato, egocentrico come la sua villa “Casa come me” lungo la ripida strada del Pizzolungo in un angolo di selvaggia bellezza. Vi giungono Pablo Neruda che, come si è visto, più di tutti ferma nei suoi versi la bellezza naturale dell’isola che lo ospita [Cirillo 2001] e, nella primavera del 1948, Graham Greene per trarre un copione cinematografico dal romanzo di Norman Douglas Vento del Sud del 1917. Vi si ritrovano poi Alberto Moravia ed Elsa Morante che trascorrono lunghi periodi ad Anacapri dove compongono entrambi alcune delle loro opere letterarie più note, ed altri come Mario Soldati, Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Roger Peyrefitte. Alberto Moravia[24], in particolare, descrive questa Capri del dopoguerra come molto diversa da quella raffinata che aveva frequentato negli anni Trenta, perché gli appare oramai irrimediabilmente involgarita, invasa dai “borsari neri” con una Marina Piccola trasformata da luogo d’incontro di tutte le eleganze d’Europa a luogo preso d’assalto da famiglie chiassose e popolane che invadono la piccola baia.

Secondo Leone De Andreis [2014], che ricostruisce minuziosamente l’atmosfera dell’isola in quell’epoca, gli anni Cinquanta del Novecento sono stati in particolare per Capri una nuova età dell’oro al punto da asserire che la cosiddetta “dolce vita”, che ha connotato in maniera così singolare la storia culturale dell’Italia, sia iniziata sull’isola azzurra con qualche anno di anticipo e cioè già a ridosso della fine della Seconda Guerra Mondiale nella seconda metà degli anni Quaranta, periodo che la stessa definisce, più precisamente, “vita dolce”. Mentre infatti nell’immediato dopoguerra l’Europa e in particolare l’Italia facevano i conti con le macerie e la miseria del terribile conflitto appena terminato con le evidenti e pesanti tracce delle sue devastazioni, le prime avanguardie di gaudenti smaniosi di tornare a vivere e di dimenticare più velocemente possibile la catastrofe bellica inondavano Capri alla ricerca di divertimento sfrenato e senza dare peso a differenze di età, sesso, denaro e colore politico. Così Leone De Andreis [2014] descrive in particolare l’atmosfera dell’isola di quegli anni:

[…] Capri si presenta come sospesa nel tempo, lontana idealmente dal mondo, distaccata dalla politica ed estranea alle guerre […] la vecchia isola pagana e tollerante offre la sua bellezza intatta come una categoria dell’anima […]. Si intrecciano le lingue più diverse, le melodiose canzoni napoletane si mescolano ai frenetici ritmi del jazz e alla saltellante samba brasiliana. È tutto un fervore di idee nuove, un eccezionale laboratorio di tendenze, musiche e stili di vita […]. In un crescendo inarrestabile, le mille tribù mondane che avevano fatto di quello scoglio in mezzo al Mediterraneo il simbolo dello charme e della bella vita, si erano via via ricomposte [ivi, 19-20].

Figura 11. La foto degli anni Cinquanta del Novecento ritrae la cantante inglese Gracie Fields, con sullo sfondo i Faraglioni, a Marina Piccola, dove ha realizzato il famoso stabilimento balneare “La Canzone del Mare” (Centro documentale dell’isola di Capri, comune di Capri, Napoli).

Il notevole flusso di denaro e di investimenti che viene riversato sull’isola azzurra in questo periodo dà un impulso notevolissimo all’economia locale. Nasce così una ricchissima industria del turismo con ristoranti alla moda, alberghi, locali notturni, bagni attrezzati come la famosissima “La Canzone del Mare” realizzata dalla cantante inglese Gracie Fields (figura n. 11). Si favorisce inoltre, in preda a una vera e propria frenesia del mattone, l’edilizia con le sue speculazioni, per andare incontro al crescente desiderio dei nuovi ricchi di possedere una casa o ancora meglio una villa da sogno sull’isola della bellezza. Tutto ciò contribuisce in maniera sostanziale a creare così, infine, una potente nuova classe imprenditoriale e un’impennata stratosferica dei prezzi dei suoli edificabili. D’altro canto dalla primavera all’autunno inoltrato è possibile godere di un mare mozzafiato e dalle indimenticabili sfumature verdi e azzurre sui due versanti dell’isola: i classici e più popolari stabilimenti balneari di Marina Grande disposta verso il golfo di Napoli nella direzione del sole al tramonto da un lato e dall’altro Marina Piccola preferita dalla comunità cosmopolita ed elegante. Viene inoltre stimolata, proprio in questa fase di grossa crescita economica, la creatività dei capresi e con essa il loro spirito imprenditoriale, trasformando, per esempio, tutta l’isola in un vero e proprio laboratorio sartoriale e rendendola simbolo e motore propulsore di una moda e di uno stile unico al mondo, quello che verrà detto “caprese”, degli abiti stravaganti e dai tessuti colorati firmati da maestri come Emilio Pucci, dei sandali e dei gioielli. E così, mentre la funicolare riversa nel centro di Capri dalle strette stradine simili a quelle di una vecchia medina araba e piene di negozi e botteghe, frotte di turisti smaniosi di assaporare l’isola del mito e della mondanità crescente, gli abituali frequentatori vip, tra cui divi del cinema di Hollywood e dei salotti mondani, aitanti playboy e sirene ammaliatrici, nobili decaduti e ricchi imprenditori, intellettuali e politici di destra e sinistra[25], come in un carnevale senza precedenti, trovano nell’isola e nei suoi luoghi il palcoscenico ideale per esibire ogni forma di eccentricità e stravaganza, a partire innanzitutto dal look. Qui a Capri tutto diventa possibile per le varie tribù mondane che mostrano, attraverso movenze, atteggiamenti, ritualità, modi di esprimersi e parlare, “tecniche del corpo” [Mauss 2000] specifiche e un “habitus” [Bourdieu 2003] sui generis, diremmo “caprese”. Ciò non vale solo per le donne. In particolare si possono incontrare uomini che, senza alcuno impaccio e soprattutto non necessariamente spinti da un orientamento sessuale differente, sfoggiano un guardaroba assolutamente fuori del comune per l’epoca, indossando pantaloni, maglie, camicie e sandali di tutte le forme, i colori, le fogge, gli stili e le mode, contribuendo così a creare quel “fa molto Capri” divenuto proverbiale. Anche sulle spiagge dell’isola i comportamenti sono piuttosto disinvolti con l’esibizione di costumi da bagno più succinti di tutto il paese, bikini per le donne e slip per gli uomini, tanto da scatenare la censura che anche nell’epoca fascista era stata, tutto sommato, paradossalmente più tollerante. Incisiva in proposito può apparire la satira verso il lato frivolo e modaiolo di questo mondo che ne fa l’attore Antonio de Curtis, meglio noto come Totò, altro frequentatore e buon conoscitore dell’isola, nei film L’imperatore di Capri del 1949 con la regia di Luigi Comencini e Totò a colori del 1952 con la regia di Steno. Satira e parodie a parte in quegli anni si respira sull’isola azzurra una prepotente voglia di vivere che si traduce in una movimentata vita notturna e diurna con i suoi riti e i suoi luoghi, con i suoi personaggi e le sue eccentricità, con le sue manie e i suoi eccessi che includono anche la veloce diffusione nei night club di grandi quantità di “polverina bianca”, eroina e cocaina che prendono velocemente il sopravvento sull’oppio della generazione precedente che aveva già reso trasgressiva la vita sull’isola. Lo stesso Norman Douglas[26], altro illustre ospite di quegli anni, spirito inquieto e fuori dalle righe, oramai piuttosto anziano e certamente avvezzo alle stravaganze di un’altra Capri, quelle di Jacques Fersen e della comunità di “uranisti” e “amazzoni” [Gargano 2007] che la popolò fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, parlando delle veloci trasformazioni in atto sotto i suoi occhi, dice con tono malinconico: «Non è più la Capri di una volta» [Prokosch 2005, 235].

Capri, infatti, sta cambiando molto rapidamente da tanti punti di vista. A poco a poco viene letteralmente investita da un notevole boom turistico, trasformandosi nel luogo in cui si affollano migliaia di visitatori da tutto il mondo, la maggior parte dei quali sempre più anche solo per un veloce contatto “mordi e fuggi” di un giorno con la sua bellezza e i suoi luoghi. Intanto gli affari prosperano e sull’isola girano tanti soldi e con essi, da un lato si moltiplicano scandali di varia natura ed entità e dall’altro pullulano ladri, truffatori e faccendieri. Inoltre la gente che conta ha capito che il requisito indispensabile per una vera vacanza a Capri è quello di possedere una barca che comincia a diventare, nel rapporto con il mare, i vari luoghi dell’isola, le sue baie e quindi le altre barche, un nuovo modo attraverso cui vivere la “dolce vita” isolana [Leone De Andreis 2014].

Mentre gli anni Cinquanta finiscono, con un portato di vertiginose trasformazioni sociali, culturali ed economiche e quindi l’Italia entra sempre più negli anni del vero e proprio boom economico, il mito di Capri stesso comincia a scricchiolare. Nonostante resti indiscusso luogo di bellezza e raffinatezza, cessa di essere l’isola per antonomasia, “ultimo santuario azzurro del Mediterraneo”, per citare ancora Neruda. Così i suoi stessi abituali frequentatori, stanchi della solita vita caprese, oramai epigono di ciò che era stata, cominciano a guardarsi intorno “scoprendo” nuovi e più entusiasmanti luoghi come, per esempio, la vicina Ischia, antica Pithecusa o la più lontana ed esotica Panarea, luogo hippy ante litteram e la costa nord occidentale della Sardegna, fino ad altre isole mediterranee in Grecia e Spagna, antesignane delle successive mete nei mari del Sud. Parallelamente a tali processi questa società tanto sofisticata, che con le sue idee, i suoi comportamenti, le sue scelte di stile ha così profondamente influenzato la storia del costume e del gusto italiano, raggiunto il suo climax alla fine degli anni Cinquanta, comincia un progressivo declino verso una massificazione e volgarizzazione dei costumi che include anche il turismo.

Figura 12. Immagine pubblicitaria tratta dal web, scattata da Marina Piccola (“Lo Scoglio delle Sirene”) e con sullo sfondo i Faraglioni, sebbene sfocati.

Ancora oggi Capri resta un luogo di indiscussa bellezza fisica e sede di un patrimonio naturale, storico, artistico e culturale notevole. Si consideri la sua natura ancora in gran parte intatta come mostra il suo mare, le sue baie solitarie, la Grotta Azzurra e le altre sue cavità rocciose e insenature e i suoi luoghi storici come la Certosa, gli scavi archeologici di “Villa Jovis” e le varie memorabili dimore e residenze quali “Villa Lysis” e “Villa San Michele” ad Anacapri. È indubbiamente ancora meta desiderata e sognata per quello che è stata oltre che per quanto ancora offre, visitata da turisti provenienti da ogni parte del mondo, che vi restano spesso un solo giorno o poco più e che siedono nella “vetrina” rappresentata dalla famosa Piazzetta per combattere l’anonimato e sentirsi parte di una comunità di very important persons e del suo mito. Tuttavia l’isola azzurra a poco a poco, anche in corrispondenza di pervasivi processi di globalizzazione dell’economia e della cultura degli ultimi tre decenni, sembra a questo punto, a dispetto del suo ricchissimo patrimonio culturale, essersi cristallizza sempre di più nel suo mito di bellezza, rischiando di diventare così un nonluogo [Augè 1993], una “non-più-Capri” - per riprendere ancora La Capria [1991] - cornice di algida e irraggiungibile bellezza a uno spazio di transito per scambi commerciali di lusso, un vero e proprio centro commerciale a cielo aperto con le sue griffes e i suoi status symbol. Lo testimoniamo pure certe pubblicità, disponibili anche in rete, che reclamizzano con testi e immagini che la richiamano, da un lato prodotti di lusso del mondo della moda e del design, dall’altro l’isola stessa (figura n. 12) con le sue opportunità, per esempio più o meno così: «Capri: il luogo più bello del mondo per il vostro matrimonio […] Ecco dove, come e a quali prezzi», oppure «Cinque ottime ragioni per sposarsi a Capri, l’isola dell’amore […] location ideale per un matrimonio da favola»[27]. Proprio quest’ultima immagine pubblicitaria (figura 12) coi Faraglioni (la parte per il tutto) sfocati sullo sfondo, mentre in primo piano spiccano champagne e bicchieri pronti per un brindisi, tradisce una visione dell’isola che, cristallizzata nella sua bellezza naturale resa quasi fanè, resta essa stessa sfocata su uno sfondo che lascia emergere piuttosto i segni di una società dei consumi e del commercio, trasformandola in location, spazio vuoto per un’esibizione finalizzata al profitto economico. Sempre La Capria, nel ritornare sull’isola negli anni Ottanta, a trent’anni di distanza dai suoi soggiorni giovanili negli anni della “dolce vita”, e quindi certamente influenzato nel suo giudizio dal tempo passato e dalla fine della gioventù, ma mostrando pure sorprendente lucidità e analisi critica, scrive di come sia stato «possibile mercificare e mortificare il bel corpo di Capri […]» [La Capria 1991, 178], trasformandolo irrimediabilmente da luogo di ordine e bellezza in luogo di disordine e bruttezza.

Non c’era più il luogo che avevo lasciato, non era più possibile il ritorno. E questo luogo in cui ora mi trovo è un luogo che non riconosco […] tutto comincia a regredire dall’ordine e dalla Bellezza verso il disordine e la Bruttezza […] chi viaggia in Italia incontra ormai solo nomi che furono di luoghi bellissimi e una volta famosi, incontra non-luoghi spettrali, ex luoghi devastati, pseudo luoghi snaturati [ivi, 149, 152, 174].

Capri sempre più da luogo antropologico si avvia a diventare, in tempi di globalizzazione dell’economia e della cultura, in un’ottica commerciale, l’indiscussa isola dell’“amore” e della “bellezza”, brand miliardario, icona glamour e fashion, ma anche caricatura di se stessa, simbolo universale di lusso e mondanità, addirittura consacrata location ideale per eventi come un matrimonio da favola. Quale favola?

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[1] Per approfondimenti sul mito e i suoi rapporti con la cultura si rimanda a Campbell [2000] e Basile [2013].

[2] Si veda la dinamica tra spiegazione e comprensione nella concezione dell’arco ermeneutico di Ricoeur [1995].

[3] Nome dato a una presunta macro zona terrestre che occupava l’area dell’attuale Mar Tirreno [Bellini 1926].

[4] Uno dei primi a descriverla nel 1870 fu il medico naturalista caprese Ignazio Cerio [Cerio 1922].

[5] Per esempio a Capri, nella Chiesa di San Costanzo, costruita nel V sec. d.C. sulle rovine di un palazzo romano, solo più tardi, al titolo dedicato al santo patrono è stato aggiunta la dedica alla Madonna della Libera. Sempre sull’isola ci sono poi la Chiesa di Santa Maria del Soccorso che risale al XVII sec. e la Chiesa di Santa Maria a Cetrella del XV sec. la cui immagine sacra era particolarmente venerata dai pescatori di corallo (vedi http://www.siticattolici.it/Luoghi_cattolici/Santuari_Mariani/; http://www.santuari.it/campania/napoli/).

[6] Omero rappresenta una tradizione di narrazione che canta i suoi versi, non li scrive per un lettore.

[7] La locuzione Grand Tour comparve nel 1670 nell’opera inglese The Voyage of Italy del precettore e scrittore di viaggi Richard Lassels (1603-1668).

[8] Presente come volume di pregio nella biblioteca del “Centro Caprense Ignazio Cerio” in un’edizione del 1637.

[9] In realtà prende l’avvio con qualche decennio di ritardo rispetto all’inizio convenzionale del Long 19th Century [Hobsbawm 2006] collocato tra il 1789 e il 1914.

[10] Arrivò in Italia nel 1823 e vi si trattenne fino al 1828, soggiornò anche a Napoli, nel 1826 sbarcò a Capri.

[11] Nel 1808 le truppe francesi di Murat occuparono l’isola tenuta dagli inglesi, fortificata come una piccola Gibilterra.

[12] La tecnica dell’improvvisa è tipica del teatro italiano del Cinquecento e consiste nella proposta da parte di un pubblico di uno o più temi su cui un’artista, anche nel canto o nella poesia, attraverso uno scambio continuo con esso, sviluppa la sua improvvisazione.

[13] Nel libro, sua autobiografia romanzata uscita in inglese nel 1929 e divenuto velocemente un best-seller tradotto in molte lingue, l’autore descrive una Capri un po’ di maniera e in particolare la barbara usanza della cattura delle quaglie.

[14] Tale modello dominante, dell’adulto attivo che ha un partner giovane e passivo, era tollerato nel contesto dell’ordine simbolico patriarcale perché non alterava il concetto di bisessualità di tradizione greca coniugato con quello di derivazione latina dove la virilità era esplicita manifestazione dell’esercizio del potere del dominus.

[15] Recenti studi sull’esperienza di viaggio in una prospettiva di genere, attenti all’omosessualità maschile tardo-ottocentesca, mostrano come molti europei, viaggiando per turismo in area mediterranea e per lavoro nei territori coloniali, avessero la possibilità di esperire tutta una gamma di relazioni sessuali tra uomini, impensabili nei propri paesi di origine [Aldrich 1993].

[16] “Uranista” viene ripreso da Ulrich [2002] e utilizzato come termine in uso all’epoca per designare genericamente l’omosessuale maschile; “amazzone”, derivato dalla tradizione mitologica greca, è termine per indicare donne indipendenti, che preferiscono vivere con altre donne, con attitudini e inclinazioni considerate sconvenienti, travestite e non, con o senza implicazioni sessuali.

[17] In proposito può essere anche interessante ricordare che Napoli è città luogo di narrazioni polifoniche [Ranisio 2003] e, da tempo immemore, luogo antropologico dei femminielli [Zito 2013a, 2013b].

[18] Pittore romantico simbolista (1827-1901).

[19] Proprio a Capri nel 1928 fu inaugurata dal regime fascista la prima colonia estiva per l’infanzia allo scopo di potenziare la stirpe italica, attraverso la rinvigorente cura elio-talassologica [Leone De Andreis 2002] .

[20] Il nome Nepente deriva dal IV libro dell’Odissea e indica un farmaco che calmava l’ira e il dolore.

[21] Influsso metaforico dello scirocco.

[22] È il titolo del necrologio che la poetessa Ada Negri scrive per Jacques Fersen sulla prima pagina del quotidiano milanese L’Ambrosiano del 15 dicembre 1923.

[23] Non a caso Savinio, pseudonimo di Andrea de Chirico, usa per Capri il nome “Hermafrodita” [Savinio 1988], l’ibrida dalla doppia natura - ovvero l’isola che nella compresenza degli opposti sfugge al principio di una sola verità e inverte ogni prospettiva di giudizio [Zito 2015a]. In merito è utile ancora ricordare che invece, in contrapposizione, durante il Fascismo, Capri fosse chiamata “Vi-ri-lis-si-ma” [Marinetti 1927], slogan con il quale partì una crociata contro la colonia omosex dell’isola [Leone De Andreis 2002].

[24] Il riferimento è a un suo articolo apparso sulla rivista L’Europeo il 31 agosto del 1947.

[25] È utile ricordare che proprio a Capri, anni prima, lo scrittore russo Maksim Gor’kij, giunto sull’isola per la prima volta nel 1906 per curare i suoi problemi di salute, avesse fondato, ricco dei proventi dei diritti di autore delle sue opere letterarie, una scuola rivoluzionaria per i suoi connazionali. Anche a Capri fu dunque preparata la rivoluzione più grande della storia, avendo l’isola ospitato molti dei suoi protagonisti tra cui lo stesso Lenin. Capri diventa così vero e proprio luogo cult della sinistra, trasformandosi dopo la Seconda Guerra Mondiale in una meta irrinunciabile per gli esponenti del Partito comunista italiano.

[26] Era rientrato sull’isola nel 1946 con la fine della guerra per poi morirvi nel 1952.

[27] I due testi citati tra virgolette sono tratti dal web, reperiti su alcune tra le tante pagine di siti on-line che publicizzano l’isola a scopo commerciale.