Strategie d'impresa e processi di etnicizzazione in alcuni percorsi lavorativi di migranti

Gianfranca Ranisio

Dipartimento di Scienze Sociali – Università di Napoli Federico II

Table of Contents

Il capitale etnico
Il quadro teorico di riferimento e le caratteristiche delle imprese di immigrati in Italia
Il tessuto napoletano e l’ethnic business
Riferimenti bibliografici

Abstract. In this article I focus on a specific strategy adopted by some entrepreneurs, who have made ethnic business in the fields of fast-food and trade in Naples and surroundings. Some authors have pointed out that globalization has produced the “business of ethnicity” and that often the “ethnicizated” appear on the global market as sellers of their own culture. I will consider, on the one hand, the fact that they belong to transnational communities, and on the other hand, the effects of their activities in the urban context by adapting the supply to a demand for products that can be connoted as exotic or “ethnic”. The working paths of some migrants presented in this paper lead us to reflect on the ethnicization process and how that process can become a way through which people stand on the global market.

Keywords. ethnic business, global market, transnational communities, ethnicization process

Il capitale etnico

In questo articolo affronterò da una particolare angolazione la complessa e dinamica realtà degli imprenditori migranti, facendo riferimento a una vicenda specifica, ma che può essere inquadrata in un contesto più ampio, tenendo conto dei differenti percorsi migratori individuali e anche delle differenti modalità di accesso al lavoro, che caratterizzano le storie lavorative dei singoli e si accompagnano al “fare impresa” in Italia.

Mahdi, 57 anni, ha lasciato l’Iran nel 1979, nel periodo della rivoluzione khomeinista; è venuto a Napoli per motivi di studio ed è poi rimasto in Italia, ora vive a Caserta con la moglie, anche lei iraniana e con le due figlie. Attualmente gestisce un negozio di tappeti persiani. La sua storia si può inserire in quel flusso migratorio che si è realizzato alla fine degli anni Settanta e che ha interessato migliaia di esponenti della classe media iraniana, che sono fuggiti in Europa o negli Stati Uniti, solo in misura limitata in Italia. La scelta di intraprendere questa attività commerciale è avvenuta quasi per caso, o meglio si è collegata alle aspettative che la sua provenienza iraniana suscitava, come Mahdi racconta. Egli era venuto in Italia per studiare e per sottrarsi alle norme imposte dal governo, che prescrivevano il servizio militare obbligatorio. Secondo la sua testimonianza, era lo stesso regime che, per calmare il malcontento dei giovani della classe media, invitava ad andare via, quasi dicendo: «se non fai il servizio militare, devi andare via». Successivamente, dato che molti gli chiedevano tappeti e stava iniziando a guadagnare ha deciso di intraprendere questa attività in modo strutturale e quindi di importare dall’ Iran i tappeti, poi ha aperto il negozio a Caserta.

Io ero studente, avevo la laurea come obiettivo, non ci avevo mai pensato a vendere tappeti. Tuttavia gli italiani mi dicevano: scusa, sei persiano e non hai tappeti? La prima volta è successo che un vicino di casa mi ha chiesto un kilim, mio fratello stava partendo dalla Persia per venire in Italia, io gli detto “Portami un kilim”. Poi, dopo questa prima esperienza di vendita, a un altro che lo richiedeva, ho procurato il tappeto in un negozio di Napoli e l’ho dato a queste persone. Ho guadagnato qualcosa! Così, se qualcuno mi chiedeva tappeti, io mi rivolgevo a commercianti di tappeti persiani a Napoli.

Tuttavia, secondo la sua esperienza, non basta essere iraniani per vendere tappeti, perché l’acquisto e poi la vendita richiedono delle competenze specifiche, che ha dovuto acquisire; infatti il venditore deve conoscere bene il prodotto, deve essere preparato e deve anche saper presentare il prodotto e le sue qualità ai potenziali acquirenti, quindi deve avere una buona conoscenza della lingua:

Innanzitutto la conoscenza di articolo. Non è che dall’oggi al domani puoi cominciare. Bisogna aver fatto gavetta e aver studiato articolo. Ora ci sono anche università del tappeto. La mia gavetta è stata quando procuravo tappeti per altri. Poi ho studiato qualcosa nel frattempo, perché gente si fidava di quello che dicevo. Poi ci vuole coraggio, un imprenditore deve avere molto coraggio e poi anche conoscenza di lingua, perché quando hai attività commerciale tu lavori con pubblico e tu lavori comunicando con la gente. Poi serietà, onestà non devono mancare.. Questo è un articolo che ci vuole cultura per apprezzarlo, per conoscerlo, ci vuole anche sensibilità, i tappeti sono fatti a mano … Essendo persiano d’origine, un po’ mi ha aiutato con la gente, perché l’articolo combacia con persona che lo vende.

Questa vicenda biografica non si inserisce nei recenti flussi migratori ma può essere indicativa del modo in cui nel rapporto tra società di accoglienza e migranti emergano stereotipi e rappresentazioni dell’altro, non necessariamente di tipo discriminatorio, poiché in alcuni casi possono anche agevolare i percorsi lavorativi. Infatti l’attività di Mahdi è nata assecondando le aspettative dei clienti, cioè quando egli si è reso disponibile a presentare all’acquirente italiano quello che egli voleva comprare da lui, e cioè non solo un tappeto fatto a mano e di qualità ma, assieme ad esso, un immaginario orientale, quale il fascino dell’antica Persia e dei suoi miti, tra cui il mito del tappeto di Aladino.

Questo racconto sollecita degli interrogativi, si tratta di un’eccezione o di una situazione diffusa, rintracciabile in altri percorsi, che contempla l’adeguarsi dell’offerta a una domanda di prodotti connotabili come esotici o “etnici”? Alcuni autori hanno sottolineato come la globalizzazione abbia prodotto il “business dell’etnicità” e come siano gli etnicizzati a proporsi sul mercato globale come venditori della propria cultura, che diviene pertanto una risorsa “vendibile” sul mercato [Fabietti 2013, 164]. Anche Ambrosini [2008a] pone in evidenza come l’attività economica transnazionale si realizzi attraverso la vendita di prodotti, che sono richiesti anche da consumatori autoctoni, incuriositi dall’inusuale, desiderosi di trovare vicino a casa un richiamo all’esotico, o attraverso l’acquisto di un oggetto, o recandosi in ambienti che ricostruiscono atmosfere e creano suggestioni e rappresentazioni di un altrove, che diventa anche mentale ed emozionale. Il transnazionalismo commerciale si incontra così con i gusti di una clientela in cerca di esotismo e anche gustare un tè allo zenzero, o una pietanza tipica, diviene una condizione per appropriarsi in qualche modo dell’Altro. Il commerciante è perciò chiamato a rappresentare il suo ruolo esotico, anche con la gestualità e l’espressività, in modo molto più accentuato di quando si rivolge a persone della sua nazionalità [Ambrosini 2008b, 13].

Per delineare più chiaramente questo aspetto è opportuno fare riferimento a quella che è la situazione delle imprese di migranti in Italia.

Infatti, la crescita e lo sviluppo di queste rappresenta un fenomeno rilevante statisticamente ed anche economicamente per un paese, come l’Italia, che continua a trovarsi in una fase economica contrassegnata da alta disoccupazione: mentre le imprese italiane sono in crisi, gli immigrati sembrano disponibili a intraprendere percorsi di lavoro autonomo e/o imprenditoriali.

Non intendo affrontare in questa sede le complesse problematiche che sono legate a tale fenomeno, né la portata economica di questo o i nuovi assetti societari e finanziari, che vengono a determinarsi, ma soffermarmi su alcune chiavi di lettura presenti nella documentazione di riferimento.

Nella letteratura molto spesso a queste imprese si accompagna la qualificazione di etniche, termine che non è in contrapposizione con il termine globalizzazione, ma, al contrario, testimonia di quanto sia funzionale l’inclusione della dimensione etnica nella logica del capitalismo globale, sia attraverso soggetti che testimoniano con la loro stessa presenza una diversità, sia attraverso oggetti e prodotti alimentari connotati etnicamente, anche quando prodotti in modo seriale e destinati a un mercato occidentale, che si pone al di fuori del contesto d’origine [Fabietti 2013, 161 e sgg.; Comaroff, Comaroff 2009].

Questo aspetto impone una riflessione preliminare sull’immagine che si ha dell’imprenditore, così come si è andata costituendo all’interno di un’ampia elaborazione teorica e cosa indichi l’accostamento ad essa del termine etnico, quale immagine si intenda trasmettere in questo modo, come questa possa essere condizionata da stereotipi e preconcetti. Il termine imprenditore è un termine molto ampio che include soggetti spesso molto diversi tra loro, comprendendo sia colui che possiede e dirige un’impresa con centinaia di dipendenti, che il piccolo artigiano, il lavoratore autonomo e il commerciante. Nell’immaginario collettivo costituisce una figura che intraprende un percorso di successo e di autorealizzazione personale, anche se attualmente la crisi ha messo in discussione anche questa rappresentazione. Secondo la definizione del Dizionario di Antropologia, curato da Fabietti e Remotti: «L’imprenditore è un agente che dirige, organizza e coordina i vari fattori di produzione, scegliendo le soluzioni ritenute più efficaci, assumendosene i rischi tecnici ed economici» [1997]. Gli studi sociali classici considerano l’imprenditore come l’agente del cambiamento, in grado di interpretare i fattori di innovazione e allo stesso tempo di assumersene i rischi. E’ considerato una figura sociale chiave per comprendere i processi di mutamento, spesso accostato a concetti come innovazione e creatività [Schumpeter 1912; Sombart 1916], tuttavia, mentre per Schumpeter l’imprenditore sviluppa attività di innovazione rispetto ai fattori produttivi ed ha specifiche doti personali di leader, per Sombart proviene da una situazione di marginalità, come nel caso delle minoranze etniche e a questa situazione reagisce con la propria creatività. Secondo Barth [1963] l’imprenditore si caratterizza per la sua capacità di fare cose nuove, l’antropologo ne mette in risalto la creatività, ma soprattutto introduce la nozione di strategia e di scelta, ritenendo importante analizzare il ruolo degli attori sociali nei processi di mutamento. La teoria di Sombart è stata poi ripresa negli studi sulle imprese di migranti per sostenere che gli imprenditori etnici, pur essendo provenienti da un gruppo marginale, possono contare su risorse che derivano proprio dalla rete solidale del gruppo di appartenenza [Young 1971, Waldinger et alii 1985, Martinelli 1994].

Il termine etnico si presenta problematico, in quanto si riferisce a etnia, un concetto nato in una particolare fase della storia per indicare “raggruppamenti umani distinti sulla base delle loro caratteristiche geografiche, linguistiche e culturali” [Fabietti, Remotti 1997], caratterizzati da unità, appartenenza e continuità. Infatti l’ideologia che sta dietro alla costruzione di questo concetto si basa sul senso di appartenenza al gruppo e sulla demarcazione tra i gruppi, stabilendo frontiere tra il proprio gruppo e gli altri. Si tratta però di una visione statica, come un’ampia letteratura ha posto in evidente, sottolineando invece gli aspetti dinamici e processuali di questo concetto. Infatti l’identità etnica può essere definita come la somma delle identità che una persona assume nella vita e ha sempre valore relazionale e situazionale [Maher 1994]. Nelle trasformazioni della società globale gli studi sul concetto di identità hanno assunto una impostazione multidimensionale che deriva anche dal dibattito sulla postmodernità [Giddens 1994; 2000; Bauman 1999, 2016; Geertz 1999, Hannerz 2001; Sennet 1999]. La stessa concezione dello spazio è stata profondamente trasformata, lo spazio diviene luogo di appartenenze plurime, di identità transnazionali e di convivenza di identità e di culture. Si tratta di opzioni nuove, che ci pongono di fronte a forme di identità ibride, mescolate. L’identità è un’invenzione, una costruzione collettiva, che si viene a determinare sulla base di un processo che si verifica a due livelli, a livello interno sono i membri del gruppo che selezionano alcune caratteristiche specifiche, un insieme di valori, simboli e modelli che riconoscono come loro distintivi e che sono legati alla rappresentazione di un’origine comune, mentre a livello esterno sono gli altri ad attribuire determinate caratteristiche ad un gruppo. Ne consegue che questa duplicità è dinamica e dialettica [Fabietti 2013,48; Amselle 1999, 103]. In una prospettiva antropologica è importante analizzare quali siano i modi di reazione degli individui che si riconoscono in un’identità etnica e sulla base di questa tendono ad agire e a rappresentarsi, in che modo i contesti e le situazioni possono influire sul modo di essere e di porsi.

I gruppi di migranti, che vivono nelle città contemporanee rappresentano categorie nuove di persone e creano forme culturali e forme di relazioni sociali inedite rispetto alle società di provenienza, che corrispondono a necessità funzionali legate alle situazioni di vita e di lavoro nei paesi di accoglienza, che per lo più sono di tipo diverso rispetto ai comportamenti nei paesi d’origine.

Il quadro teorico di riferimento e le caratteristiche delle imprese di immigrati in Italia

Sui fattori che portano al costituirsi di imprese di migranti, si è sviluppata da tempo una ampia letteratura nei paesi di più antica migrazione, come gli Stati Uniti e gli ex imperi coloniali europei. Le teorie inizialmente prevalenti erano quelle che analizzavano il fenomeno a partire dalle condizioni dei migranti e lo interpretavano sulla base dello svantaggio economico e/o di quello culturale. Queste teorie ponevano in evidenza come le difficoltà di inserimento nella società d’accoglienza, che impedivano di raggiungere salari soddisfacenti e spesso anche di accedere a lavori dipendenti, erano alla base delle scelte imprenditoriali. Infatti o le difficoltà linguistiche, o la mancanza di competenze professionali, o il mancato riconoscimento del titolo di studio, spesso spingevano gli immigrati verso soluzioni di lavoro autonomo e verso forme di auto-impiego, sia pure precarie e poco remunerative. Pertanto, in questa prospettiva, secondo gli approcci teorici più consolidati, l’imprenditoria immigrata aveva origine in misura prevalente dalla necessità di superare la condizione di esclusione in cui gli immigrati si trovano a vivere e dalla volontà di valorizzare i limiti, cosi come i caratteri di questa condizione [Bonacich 1973; Phizacklea, Ram, 1995]. A queste motivazioni se ne possono aggiungere altre di natura economica, relative alle scelte dei settori: l’imprenditore immigrato è spinto verso settori in cui l’ingresso è possibile con una ridotta dotazione di capitali, le barriere tecnologiche sono basse, le dimensioni di impresa sono modeste. Questi stessi settori merceologici, a causa dell’elevato numero di imprese attive e dell’intensa concorrenza, determinano anche margini di profitto e potenzialità di espansione inferiori alla media. La conseguenza sarebbe un circolo vizioso per il quale le minoranze etniche sarebbero confinate in contesti spaziali in cui lo svantaggio economico è molto probabile che venga riprodotto anziché eliminato.

In modo complementare a questa interpretazione, le teorie di tipo culturale ponevano in evidenza sia la solidarietà e la lealtà al gruppo di appartenenza che la più alta accettazione di lavori faticosi (orari lunghi di lavoro, lavori pesanti, ecc.) e con una componente di rischio. Infatti all’impresa etnica è associata la possibilità di far ricorso a forza lavoro a basso costo e a elevata flessibilità offerta da familiari e dai connazionali. Quindi alcuni vantaggi dell’imprenditoria etnica potrebbero derivare dai saldi legami che tali imprenditori hanno con la comunità d’origine. Altra caratteristica dell’approccio culturale è la teoria delle nicchie etniche, secondo la quale le imprese che nascono in questi contesti risulterebbero fortemente caratterizzate in termini di specializzazione etnica, in quanto rivolte a produrre prodotti e servizi destinati a consumatori appartenenti alla stessa comunità d’origine. Diversi filoni interpretativi evidenziano l'importanza delle nicchie etniche, cioè la capacità di alcune comunità di immigrati di individuare aree produttive all'interno delle quali esercitare la propria attività imprenditoriale (Bonacich 1973; Portes et al. 2002).

Negli ultimi decenni però queste posizioni sono state riviste e anche messe in discussione, perché legate a stereotipi, che descrivono queste imprese come organizzazioni marginali, legate a gruppi sociali minoritari. Waldinger, e con lui altri autori, mettono in evidenza la crescente articolazione settoriale delle attività degli immigrati e gli sforzi attuati per collegare prodotti e servizi di origine etnica a mercati e a consumatori non etnici, sottolineando come gli imprenditori immigrati siano entrati in comparti che producono beni e servizi destinati in misura rilevante alle società d’accoglienza (Waldinger et alii 1990) [1].

Inoltre gli approcci teorici precedenti focalizzavano l’attenzione sulle caratteristiche dei gruppi migranti, mentre è necessario avere una prospettiva più ampia e articolata che consideri il contesto produttivo e il tipo di domanda e di offerta, cioè da un lato le condizioni sia economiche che normative presenti nella società d’accoglienza, dall’altro la specificità delle risorse introdotte in quel contesto [Volery 2007; Reis Oliveira 2007]. Infatti nessuna teoria può spiegare da sola la complessità del fenomeno, nella sua interezza, ma è importante combinare l’ipotesi strutturale con quella culturale in un modello che tenga conto dell’interazione tra immigrati e società di accoglienza, un’interazione complessa che è in rapporto con le strategie di radicamento e di adattamento alle realtà locali di specifiche comunità, a questo proposito negli anni Novanta Waldinger introduce il modello interattivo [Waldinger, Aldrich, Ward 1990]. Appare ormai acquisito che i diversi modelli migratori che caratterizzano le singole comunità e i percorsi attraverso i quali i cittadini stranieri giungono alla creazione d’impresa devono essere considerati in rapporto con i contesti locali e con le caratteristiche dell’apparato produttivo locale [Grandi 2007, 141]. Ogni gruppo mette in gioco differenti risorse nella definizione di una strategia imprenditoriale, pertanto questa non si definisce solo in base al background etnico, ma anche alle risorse e opportunità che l’individuo riesce a mobilitare nella fase iniziale. L’imprenditore è innanzitutto un individuo, che deve saper fare interagire tra loro le risorse individuali, le risorse del gruppo di appartenenza, le caratteristiche della società di accoglienza [Reis Oliveira 2007, 73]. Per la complessità a cui questo modello rimanda e considerando l’ampiezza del numero di variabili che sono introdotte, è ormai entrato nell’ambito di questi studi il concetto di mixed embeddedness, che permette di considerare sia le possibili variabili che le differenze nei modelli imprenditoriali riscontrabili [Kloostermann, Rath 2003]. Molti studi, inoltre, hanno ritenuto importante soffermarsi sull’ agency, considerando perciò come strategica la capacità di attivazione dei singoli attori. Con la globalizzazione le possibilità di attività si sono ulteriormente articolate[2]. Il concetto di mixed embeddedness permette di incrociare l’analisi degli elementi strutturali con quelli di agency e con l’approccio transnazionale, che osserva le migrazioni “come un movimento bidirezionale, o pluridirezionale, continuo di persone, idee, beni e capitali” (Mora 2006, 5). Infatti, per la comprensione del fenomeno è importante considerare quanto siano rilevanti il capitale sociale e i network internazionali di riferimento, al di là di quelli presenti nel contesto d’insediamento [Glick Schiller, Basch e Szanton Blanc, 1992; Kloostermann, Rath 2003; Portes, Haller, Guarnizo 2002; Ricci 2007; Resta 2008]. Aspetti da sottolineare in tale prospettiva sono il costituirsi di reti transnazionali e la domanda da parte dei migranti di prodotti, soprattutto alimentari, della propria zona d’origine.

Quando si considerano le caratteristiche delle comunità studiate, l’attenzione si concentra su alcune variabili come il capitale sociale, cioè le reti di relazioni, il capitale economico, il capitale umano, cioè la capacità dell’individuo di mettersi in gioco; ma le attenzioni degli studiosi convergono prevalentemente sul capitale sociale, inteso come rete di relazioni presenti e disponibili all’interno della comunità.

Il contesto produttivo italiano, per le sue caratteristiche strutturali basate sulla piccola impresa e sul lavoro autonomo, ha favorito lo sviluppo di attività, spesso micro, come le imprese individuali.

All’interno di questo quadro di riferimento, il caso di Mahdi si presenta come un caso a sé, legato a un particolare momento storico o può fornire delle indicazioni anche per comprendere le attività dei migranti attuali?

La complessità delle dinamiche migratorie e dei relativi processi d’inserimento nelle società d’accoglienza non consente di individuare delle tipologie di percorsi uniformi, tuttavia può essere interessante soffermarsi sulle traiettorie di alcuni immigrati, le cui vicende attestano della capacità di fare impresa in un territorio specifico. La teoria dell’agency, bilanciata con l’attenzione a tutti gli altri fattori che entrano in gioco rispetto a questa complessa e magmatica realtà, fornisce un utile contributo perché permette di considerare non solo le connessioni tra l’azione sociale degli imprenditori immigrati e i sistemi economici delle società ospitanti [Kloosterman, Rath 2001], ma anche di comprendere e analizzare storie individuali. Le ricerche recenti sollecitano a rivedere le vecchie categorie, anche quando può essere interessante incrociare nazionalità di appartenenza e tipologie di attività, per soffermarsi su alcuni percorsi individuali, che permettono di riconoscere gli immigrati quali attori nel processo produttivo, ma con esiti differenti nel rapporto con il contesto locale, sia per i differenti margini e ambiti di autonomia all’interno del sistema, che in riferimento alle reti transnazionali.

Per quanto riguarda i dati sulla dimensione del fenomeno imprenditoriale in Italia, vi sono alcune fonti che si rivelano di grande utilità, come Idos e Unioncamere, che forniscono dati continuamente aggiornati.

Secondo i dati sull’imprenditoria straniera in Italia, prodotti da Unioncamere nel 2016 (pubblicati il 16-6-2016), che prendono in considerazione gli anni 2011- 2015, risulta che, in tale periodo le imprese condotte da immigrati sono aumentate del 21,3% e rappresentano a livello nazionale l’8,7% dell’imprenditoria totale, superando il 10% in molte regione del centro-nord. Tra le nazionalità più attive sono i marocchini che costituiscono l’11% del totale degli imprenditori stranieri presenti in Italia, seguiti dai cinesi, pari al 10% dei titolari di impresa e poi dai rumeni, (9,5%) e dagli albanesi che costituiscono il 6,1%. I principali settori per presenza di imprenditori immigrati sono il commercio (35%), le costruzioni (21%) e i servizi alle imprese (14%) [3]. Nel commercio è rilevante inoltre il ruolo dei bengalesi, come pure dei senegalesi e degli egiziani. Sono tutti gruppi che si sono caratterizzati fin dall’inizio della loro presenza in Italia per una forte propensione al lavoro autonomo e per la tendenza alla concentrazione in determinati settori. Come vediamo, è preferibile definire queste imprese come imprese di immigrati piuttosto che etniche, poiché, secondo una definizione consolidata, ma oggi un po’ abusata, le imprese etniche si caratterizzano per composizione, beni e per vendita a clienti delle stesse nazionalità, cosa che è difficile si verifichi.

La maggiore concentrazione di imprese si verifica per il nord in Lombardia, per il centro in Emilia e nel Lazio, per il sud in Campania e nello specifico nel napoletano. Secondo i dati del marzo 2016 in Campania le imprese gestite da stranieri sono circa 39.000, rispetto alle circa 600.000 registrate a livello nazionale. L’attività che attrae maggiormente l’imprenditoria immigrata è quella del commercio, seguono le costruzioni, le attività di alloggio e ristorazione e le attività manifatturiere. Per quanto riguarda il settore della ristorazione da asporto, sulla quale poi ci soffermeremo, secondo i dati Unioncamere 2016, vi è una consistente presenza di egiziani (27,7%), pakistani (8,2%) e turchi (6,5%).

Sebbene per la maggioranza degli immigrati l’inserimento nel mercato del lavoro sia avvenuto prevalentemente in occupazioni dequalificate, non mancano esempi di successo e/o di riuscita integrazione nel tessuto produttivo locale. Le indagini condotte in questi anni, ad opera di vari organismi di ricerca -si considerino a tale proposito il Rapporto di Ethnoland 2009 e il Report della Fondazione Sussidiarietà per le Regioni Convergenza, PON 2007-13- tracciano il profilo delle nuove imprese nate in Italia da imprenditori, appartenenti a specifiche minoranze etniche, ponendone in evidenza alcune linee di tendenza comuni: queste imprese si concentrano in alcune aree del paese (prevalentemente nelle città e nelle aree metropolitane), sono più diffuse in alcuni settori (edilizia, abbigliamento, ristorazione, servizi alla persona, ecc.), lo sviluppo di attività produttive è in rapporto con la nazionalità d’origine [Zanni, Zucchetta 2009]. Infatti le probabilità di successo per un’ impresa sono tanto più alte quanto più alta è la possibilità di fare affidamento sulle risorse etniche. Nella maggior parte si tratta di imprese individuali, ma sono in crescita anche imprese di capitali legate a processi di internazionalizzazione, mentre permangono come punti di debolezza l’accesso al credito e la burocrazia, ma che la burocrazia rappresenti un fattore di criticità è segnalato da tutti gli imprenditori, anche italiani.

Il tessuto napoletano e l’ethnic business

Nelle rilevazioni condotte nel napoletano durante il periodo 2012-2015[4], emerge chiaramente che l’imprenditoria etnica è per lo più la conseguenza di una scelta individuale, ma è legata al supporto di un tessuto familiare che si presenta solido e che testimonia anche di un forte legame con il luogo d’origine. Inoltre, le relazioni tra connazionali non si affievoliscono ma anzi, in taluni casi, si rinforzano, con rapporti frequenti nella vita quotidiana del paese d’accoglienza, integrando al loro interno modelli e strutture sociali differenti. In questo caso l'occupazione informale degli immigrati si caratterizza innanzitutto come auto-impiego o come ethnic business: infatti la nicchia etnica si caratterizza con lo sviluppo di particolari attività e servizi nei quali gli immigrati si specializzano. In tal modo un segmento di una data attività assume una connotazione etnica e si produce un'identità “etnica” fra datori di lavoro e occupati, che in taluni casi può portare a forme di sfruttamento fra immigrati della stessa nazionalità a vantaggio sia del loro capo o figura di riferimento, sia di chi subappalta l’attività [ Palidda 2000; Resta 2008, 39].

Dalle interviste, emergono i ruoli e le posizioni degli immigrati all’interno delle trasformazioni delle economie metropolitane, gli effetti della loro attività nel cambiamento della percezione e dell’immagine dei migranti nella popolazione locale. Si aprono spazi a partire dal modo in cui ci si autopercepisce e si è percepiti dall’altro; si configurano le relazioni che i migranti intrattengono con un contesto più ampio, che riguarda la comunità d’origine ma non solo, data la loro appartenenza a reti transnazionali.

L’inserimento nel mercato del lavoro locale è condizionato dalle caratteristiche strutturali di questo, dai processi di segmentazione e dalla diffusione di lavori precari e non regolari in diversi settori. Mentre nelle regioni settentrionali sembrano più ampie le possibilità di inserimento nell’economia regolare, nel meridione vi sono ampi spazi per lavori occasionali e precari. Napoli può essere considerata come un laboratorio di nuove forme migratorie [Krauss, Scholl 2006]. Infatti, in una situazione specifica, come quella napoletana, caratterizzata dal presentarsi come un grande mercato al quale si riforniscono anche gli immigrati ambulanti che vanno poi a vendere la loro merce in tutta Italia, le attività di import/export hanno acquisito particolare rilievo. Nel 2015 si è avuto un incremento dell’attività imprenditoriale gestita da immigrati del 12,8% [Gatti 2016, 405]. I cinesi rappresentano il gruppo che più velocemente è riuscito a passare dal commercio ambulante a quello stanziale, sia al dettaglio che all’ingrosso[5].

Le nuove presenze costituite dai migranti, che si concentrano in alcune aree della città, comportano dei cambiamenti nei luoghi, negli spazi urbani, la presenza aumenta anche nei mercatini rionali, dove possiamo distinguere aree in cui prevalentemente venditori e clienti sono migranti, come nei pressi della stazione, e zone dove i migranti sono acquirenti, oppure altre dove sono solo venditori. Intorno alla piazza della stazione si sono installate piccole attività commerciali, dove si vendono prodotti alimentari o per il tempo libero e dove sono impegnati cittadini di varie nazionalità, tra questi è rilevante la presenza di senegalesi che vendono bigiotteria, profumi e cosmetici. Dal 2008 al 2014 vi è stata una notevole crescita a Napoli di imprese gestite da cinesi, mentre si stanno affermando nuove figure di imprenditori provenienti da Pakistan, Moldavia e Nigeria.

Dalle interviste condotte in questi anni risulta che è frequente il passaggio dal venditore ambulante allo stanziale con negozi al dettaglio ed all’ingrosso (soprattutto da parte dei cinesi), aspetto che concorda con quanto rilevato dalla Fondazione Suss relativamente alle esperienze lavorative pregresse: quasi il 33% del campione (contro il 19%) è stato lavoratore in nero in Italia prima di essere imprenditore e quasi il 37% riferisce un grado di autonomia molto basso nelle precedenti esperienze lavorative (contro il 23%). Per quanto riguarda la realtà napoletana (città e provincia), molte delle biografie raccolte pongono in evidenza il passaggio dal lavoro dipendente, o in nero, al lavoro autonomo, non solo, ma alcune storie lavorative rivelano come dopo periodi di permanenza al nord alcuni abbiano preferito fermarsi a Napoli per intraprendere un’attività lavorativa autonoma. A riprova di questo si potrebbero tracciare alcuni profili lavorativi, per porre in evidenza come le storie migratorie possano essere diverse e come su di esse abbia influito il contesto. In particolare per la realtà napoletana il confine tra attività informali o illegali e attività regolare si rivela permeabile: Pardo in una ricerca svolta a Napoli tra il 2004-06 analizza le complesse relazioni tra settori dell’economia formale e informale e il ruolo degli immigrati regolari e irregolari, che intraprendono percorsi di lavoro autonomo, ponendo in evidenza gli interstizi entro cui trovano spazio attività marginali [2008].

Nel tessuto napoletano si sono rivelate significative l’installazione e l’apertura di piccoli negozi, che, se rappresentano l’altra faccia del commercio rispetto all’ambulantato, spesso si pongono in continuità con questo e all’interno di un percorso compiuto dagli stessi soggetti, come in una sorta di promozione e di inserimento sociale. Anche le varie forme di ristorazione d’asporto rispondono a queste dimensioni di microattività.

Spesso il negozio rappresenta anche un momento associativo con altri connazionali, che in questo modo si sostengono sia economicamente, che rispetto ai ritmi e agli orari di lavoro. Questo modello è presente tra i Bengalesi[6], tra i quali l’elevata presenza di lavoratori autonomi pone in evidenza la volontà e la capacità di fare investimenti, nonché un’auto-organizzazione molto efficace. Infatti, il progetto migratorio di un individuo è parte di un progetto collettivo, per cui a lui viene affidata la responsabilità di provvedere al mantenimento della famiglia che resta in patria. Inoltre si potrebbe trovare nelle loro storie la conferma della teoria delle reti: i flussi migratori non si indirizzano verso i paesi con maggiori opportunità, ma là dove sono presenti i connazionali e si possono instaurare o mantenere i legami tra chi è partito e gli amici e parenti rimasti nel luogo d’origine [Ambrosini 2001].

Mentre in queste attività commerciali i prodotti sono generici, in altri casi i prodotti sono etnicamente connotati.

Così, per quanto riguarda le attività dei cinesi, mentre i negozi, a parte le lanterne rosse all’esterno, vendono articoli commerciali, legati alla grande distribuzione, dai prodotti tecnologici e informatici, all’abbigliamento e ai casalinghi e si richiamano o vogliono dare l’immagine di una realtà postmoderna e tecnologica, con luci, colori, con una disposizione dei prodotti razionale e funzionale, non così i ristoranti, nei quali sono presenti richiami culturali espliciti e un’ambientazione evocativa di un altrove, dal menù ai quadretti alle pareti, a statue di Buddha e oggetti portafortuna[7]. I clienti sono italiani, attratti non solo da un esotico, che è ormai noto, -perché la presenza dei ristoranti è una realtà diffusa da più decenni- ma anche dal buon rapporto qualità-prezzo, che li rende competitivi.

In questo articolo ci si riferisce in particolare a un settore della ristorazione, i fast food e/o gli street food, gestiti da migranti, che forniscono alla loro clientela cibo pronto e d’asporto come il kebab, e alla vendita di oggetti “etnicamente connotati”, come le matrioske vendute da russi o ucraini, o di oggetti di derivazione africana, come gli elefanti e i tamburi venduti dai Senegalesi, o collane e ornamenti vari di pietre dure vendute da indiani e pakistani. Si tratta, infatti, di alimenti o di oggetti destinati a richiamare nell’acquirente un immaginario legato al contesto di provenienza, che si suppone sia quello dei venditori, come nel caso riportato all’inizio dell’articolo. Il venditore, a sua volta, deve mettere in campo l’immagine che l’occidentale ha dell’Africa o dell’Oriente e aderire a quell’immagine, magari anche con l’abbigliamento, in modo di essere riconoscibile come “diverso”.

Mamadou, il giovane senegalese che attualmente la domenica e i giorni festivi, sul lungomare di via Caracciolo, vende oggetti etnici in legno che egli stesso realizza, seguendo il mestiere di artigiano, appreso dal padre e dal nonno, esprime in modo chiaro questo concetto:

Si deve sapere il lavoro che imparano i padri ai figli, poi per la vendita si deve avere buono italiano per parlare con la gente, sempre gentilezza e sorriso, sempre tranquilli … ho imparato da mio padre e mio nonno, tutti in Senegal fanno oggetti di etnia, portafortuna.

Egli racconta le sue esperienze di migrante: prima di giungere a Napoli, ha fatto altre esperienze lavorative in località della Toscana; descrive, infatti, le sue esperienze a Pisa come cameriere e come buttafuori in una discoteca, poi come operaio in una fabbrica di pellame. Ha 28 anni, è diplomato, anche per lui la partenza si è configurata all’interno di un progetto familiare: «Sono partito assieme a mio padre, perché sono il più grande dei miei quattro fratelli che sono rimasti in Senegal con mia madre». Attualmente divide la casa con alcuni connazionali suoi amici che lo hanno aiutato anche economicamente[8]. Non gli piaceva stare a Pisa per il clima e non solo, infatti dice: «io voglio stare a Napoli, mi ricorda tanto il mio paese, le donne sono brave, mia mamy è come vostre donne, brava e gentile»[9]. Rispetto ad altri immigrati che hanno situazioni regolari e consolidate, Mamadou si trova in difficoltà perché da quattro anni ha fatto richiesta di asilo politico, ma non ha ancora avuto i documenti. Fa parte di una dahira: «I benefici sono tanti, compagnia, tutti amici che si incontrano, si parla, se ci sono problemi, tutti aiutano a risolvere[10]». Si nota anche in questa testimonianza l’importanza dei network comunitari nel processo di inserimento nella situazione napoletana e delle associazioni, tra cui nel caso dei senegalesi un ruolo particolare assumono le confraternite religiose [Mora 2006; Riccio 2007].

Anche la comunità ucraina è una comunità la cui presenza si è ormai consolidata a Napoli e nella provincia, ma non è ancora statisticamente rilevante nell’ambito imprenditoriale, nonostante vi sia una forte attività di import-export. In particolare le donne ucraine, per lo più dotate di un livello di istruzione medio-alto, hanno sviluppato forme organizzative sia formali che informali, disponendo di capacità e abilità per attività auto-organizzate [Demaria Harney 2012].

Così è nel caso della commerciante ucraina intervistata: Alina, che vive ormai in Italia da 13 anni, ha svolto vari lavori e poi è riuscita ad aprire un negozio in proprio, nel quale vende prodotti tipici ucraini e russi, tra i quali oggetti artigianali in legno, fatti a mano, primi fra tutti le matrioske, le uova decorate, piatti, destinati a clienti italiani:

queste cose vorrei portarle qui per farle vedere agli italiani, per far vedere come facciamo queste cose a mano, perché voi ormai avete perso un po’ le vostre tradizioni… a me dispiace che voi italiani, con tutta questa cultura antica che avete, abbiate perso tutte queste radici nazionali, in questo negozio vorrei portare delle cose che non si trovano qui e che sono le radici del mio paese..

Così dicendo indica oggetti in cristallo e bigiotteria d’argento fatta a mano. L’essere in bilico tra due mondi è ben espresso da Alina:

ormai sto bene, mi sono abituata a stare qui, è difficile però … certamente non è che ti senti proprio qua, o così o colà tu senti di essere straniera sempre... però certamente se tu torni là non ti senti nemmeno di là.. il modo di vivere è diverso … il modo di incontrarsi con persone è diverso … non sei qui..non sei là..

Diverso il discorso per quanto riguarda i venditori di kebab, che ormai come street food è diffuso nelle strade delle città italiane, tanto da suscitare in alcune località del nord e del centro Italia anche notevoli proteste da parte degli abitanti del luogo. Il kebab rappresenta forse il cibo etnico più popolare, è di facile consumo e dal prezzo accessibile a tutti nella pausa pranzo; tipico della gastronomia turca, è diffuso non solo in tutto il Medio Oriente, ma anche nel subcontinente indiano di religione islamica. Nel corso della ricerca sono stati intervistati numerosi gestori di kebbaberie sia provenienti dal Pakistan, che dal Medio-Oriente e dal Magreb, tra i quali anche giovani di seconda generazione, con la doppia cittadinanza, che o avevano rilevato un’attività familiare, o avevano deciso di intraprendere quest’attività perché considerata più accessibile rispetto ad altre. Nelle parole di alcuni intervistati vi è un chiaro riferimento alla preparazione del kebab come caratteristica della propria cultura, in rapporto con la religione islamica e le regole di macellazione e di consumo della carne. A volte questo cibo è preparato all’interno di locali, in cui, accanto ad esso, si vendono prodotti della tradizione culinaria italiana, producendo una contaminazione di sapori e di odori. Spesso nei negozi compaiono dei simboli etnici o religiosi, come ad esempio dei quadretti con le sure del Corano.

Omar è un esempio interessante di come l’ibridazione culturale possa produrre nuove identità: egli, come Mahdi, è venuto a Napoli per studiare all’università, più di venticinque anni fa, ha fatto vari lavori, dapprima imbarcato sulle navi mercantili, poi in ristoranti a Napoli e prima a Bergamo. Poi ha aperto questa attività in provincia, che è anche paninoteca, con lui lavorano il fratello e un ragazzo italiano. Quest’attività è per lui come una continuazione dell’attività familiare:

Tenevamo questa attività da tanti anni nel mio paese, allora io già la conoscevo e sapevo come si praticava, è stata l’esperienza, non è che ho studiato per fare il kebab … Con i napoletani mi trovo molto bene, sono gentili con me e la mia famiglia. .. Purtroppo sono anni che non torno nel mio paese a causa della guerra

Egli afferma di amare Napoli e la cultura napoletana, esprime il suo apprezzamento per i film di Totò, di cui campeggia un quadro sulla parete, accanto a un quadretto con alcuni versetti del Corano; inoltre indica come su di una mensola collocata su di una parete abbia collocato una statuina di Pulcinella e al di sotto abbia appeso la famosa spada a due punte di Maometto.

Anche nel locale di Alì, un ragazzo italo-algerino, si ritrovano richiami alla tradizione culturale magrebina, dai quadri con paesaggi nord-africani, ad oggetti talismano che hanno valore di portafortuna come il Corno di Bue, che in genere è posto sopra le porte a protezione delle case e la mano detta di Fatima, cioè la mano aperta contro un pericolo potenziale, per tenere lontano il malocchio [Chebel 1997]. I clienti sono intrattenuti con musiche arabe in sottofondo e spettacoli di danza del ventre trasmessi attraverso dvd sullo schermo del televisore. Egli si sente fortemente legato alla cultura del paese di origine della sua famiglia, pur essendo nato e avendo studiato a Napoli, perché i genitori gli hanno trasmesso sin da piccolo il loro modo di pensare ed inoltre perché ogni anno si recava sin da bambino per 3-4 mesi dai parenti in Algeria e lì ha appreso la lingua e la religione. Inoltre si tiene in contatto con altri connazionali e giovani di seconda generazione che, come lui, vivono in Italia, utilizzando i social network e Internet. Sta portando avanti un’attività intrapresa assieme ai genitori, dopo aver conseguito il diploma dell’istituto alberghiero. Egli cucina piatti tipici magrebini, ma cerca di adeguarsi anche alle richieste locali per cui prepara panini e fritture di vario tipo.

Il kebab lo facciamo sia nel panino, sono i clienti che ci hanno invogliato a farlo nel panino, perché non si usa farlo cosi, poi abbiamo anche la pita greca …Il 90% che vendiamo in questo locale sono piatti tipici, fritture arabe che facciamo noi e il kebab, poi le altre cose giusto per avere un po’ di tutto. Io avendo una buona base di cucina italiana e un po’ multietnica, perché essendo nato da genitori stranieri mi piaceva conoscere altre culture anche per i miei viaggi … il kebab l’ho imparato da mio zio che attualmente lavora con me , è lui che mi ha iniziato ..dato quest’arte, è come un socio per me perché mi ha aiutato molto e a fare i lavori nel mio locale.

Attualmente lavorano con lui lo zio, un ragazzo del Marocco e uno del Senegal, perché Alì sostiene che preferisce aiutare stranieri in difficoltà, poiché comprende i loro problemi.

Per quanto riguarda gli individui di nazionalità pakistana, rispetto ad altre città del nord Italia, a Napoli questa comunità non è ancora molto numerosa, anche se è presente in determinati settori del commercio, con negozietti situati per lo più nella zona di Porta Nolana, che vendono prodotti non solo etnici, e in particolare, come nel caso del nostro intervistato, nel campo del fast-food.

L'esperienza migratoria di Hamza, come per altri suoi connazionali, è stata facilitata dai network comunitari, i quali ne hanno supportato e agevolato l'arrivo in Italia. Infatti egli racconta di non avere avuto alcun sostegno dalle istituzioni o dagli uffici per l’immigrazione, ma che ha trovato un punto di riferimento nei parenti e negli amici che precedentemente avevano intrapreso il progetto migratorio nel nostro paese. I pakistani che abbiamo incontrato in questa ricerca non avevano scelto né Napoli, né questo settore lavorativo all’inizio del progetto migratorio, infatti Hamza 38 anni, proviene da un contesto rurale e prima di fermarsi a Napoli a fare il ristoratore ha svolto varie attività dipendenti: muratore, agricoltore e mandriano, fattorino tra Emilia e Toscana. Ha in patria moglie e 4 figli. Vive con connazionali e parenti e gestisce da dieci anni un fast food assieme a due amici connazionali. Per intraprendere quest’attività ha potuto contare sulle risorse familiari. Il locale si trova nel centro storico, in un contesto in cui vi sono vari locali, che vendono kebab, per questo ha cercato di ampliare i prodotti e prepara panini e anche pollo e fritture. Nell’intervista egli tiene a precisare che non vende né carne di maiale, né alcolici.

Ha imparato dapprima come dipendente «e poi ho sempre saputo come si fa questo lavoro, perché queste attività sono molto diffuse nel mio paese d’origine»

Saquib, anche lui pakistano, afferma e rivendica in modo esplicito la propria diversità rispetto agli italiani:

Italiani non lo sanno fare questo lavoro ….Perché questo lavoro è particolare, è un tipo di lavoro di noi, di me.. Questo non è torto, nessuno è nato in pancia di sua mamma. Questo non è un lavoro che domani cominci e dopo settimana anche tu puoi fare …

Queste strategie imprenditoriali adottate dai pakistani, con l’aprire negozi di alimentari, internet point o fast food di kebab, richiedono aiuti da parte dei familiari, sia che si trovino in patria o altrove, talvolta anche il recupero di soldi che erano già stati inviati alle famiglie, a volte l’assunzione di uno o due connazionali per poter contare su un aiuto anche finanziario. Secondo una recente ricerca, non è detto che i risultati di tali microimprese si rivelino poi positivi nel tempo, perché la vita della maggior parte dei pakistani in Italia si rivela dura e difficile [Nobil Ahmad 2010].

Si tratta solo di esempi, in cui ho cercato di intrecciare le attività con le nazionalità, così come d’altronde gli studi suggeriscono, ma che consentono di ipotizzare che l’appartenenza può indirizzare, se non condizionare, le scelte lavorative e diventare essa stessa parte del capitale culturale che entra in gioco, in quanto assunta come differenza percepita e/o prodotta dello sguardo esterno. In questi casi infatti l’etnicità da un lato diventa l’attribuzione di una competenza assegnata da parte degli altri, dall’altra è esibita come autoaffermazione di una competenza che si rivendica come propria e quindi si traduce in risorsa. Coloro che sono oggetto di stereotipi diventano essi stessi mercanti della propria cultura, ma con meccanismi per cui l’identità si rafforza, si plasma sul modello determinato dal mercato culturale [Fabietti 2013, 166] e diventa una forma di identità esternata. Nei casi dei venditori di kebab travalica i confini etnici per unificare nella preparazione di questo cibo gli appartenenti ad un’area culturale molto vasta, accomunata da un particolare modo di trattare la carne, legato a regole religiose interiorizzate.

Questi esempi, pur nella loro esiguità, inducono a riflettere su quello che è il processo di etnicizzazione e sulle modalità attraverso le quali si collega a quello di identità, nel senso di un costrutto collettivo, che si costruisce sulla base di un processo che avviene a due livelli, interno ed esterno [Fabietti 2013, Amselle 1999]. Proprio questo processo di selezione può diventare un meccanismo attraverso cui stare sul mercato globale in casi, come quelli presentati in questo percorso, che si è soffermato su alcuni esempi di imprenditori “etnicamente” connotabili. Dall’analisi di una realtà quale quella napoletana possono pertanto emergere interessanti considerazioni sulle percezioni che stranieri e autoctoni hanno delle possibilità di inserimento lavorativo, sulle autorappresentazioni e sul capitale culturale messo in gioco tenendo conto delle situazioni locali.

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[1] Tale cambiamento è da mettere in relazione ai risultati ottenuti dalle seconde generazioni in termini scolastici e di qualificazione professionale e agli effetti delle politiche di integrazione sviluppate in alcuni contesti.

[2] L’economia della globalizzazione determina la competizione su mercati globali, l’esternalizzazione del lavoro da parte delle grandi aziende, l’accentuazione della divisione del lavoro tra paesi e all’interno dei paesi, lo spostamento di popolazioni su scala globale. La relazione migrante - imprenditoria è ormai un fenomeno in espansione all’interno delle economie metropolitane basate sui servizi. Le metropoli globali studiate da Sassen [1997] forniscono esempi di una imprenditorialità che risponde alle esigenze di servizi personalizzati e ad alta intensità di lavoro. .

[3] Dati Unioncamere,Infocamere, Movimpresa. www.unioncamere.gov.it.

[4] Si tratta di una ricerca basata su interviste qualitative condotte a imprenditori migranti impegnati in vari settori di attività a Napoli e nella provincia, svolte nell’ambito delle attività del corso di Antropologia Economica, presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II.

[5] I cinesi hanno rilevato le attività di import/export dai napoletani e da cittadini russi o dei paesi dell’est e nel 2003 hanno allestito nella zona di Gianturco un centro commerciale che comprende un centinaio di esercizi commerciali. Tra i cinesi esiste una stratificazione interna rilevante, per lo più gli imprenditori arrivati con le ondate migratorie della fine degli anni Ottanta, si sono inseriti stabilmente nel mercato, alcuni sono riusciti ad avviare attività di import/export e di commercio all’ingrosso, altri si sono imposti nel settore manifatturiero, prevalentemente nel tessile, nella provincia di Napoli.

[6] L’ immigrazione dal Bangladesh ha inizio negli anni Novanta, i Bengalesi per lo più hanno scarsa conoscenza e difficoltà con la lingua italiana. Fanno spesso riferimento ai loro valori e per questo spesso rimandano i figli in Bangladesh a studiare o mantengono le famiglie in patria, temendo che i figli in Italia non ricevano un’educazione adeguata alla loro cultura e non imparino la loro lingua. In questi casi un sistema chiuso di relazioni sociali potrebbe essere considerato non come causa di mancata integrazione nella società locale, ma come sistema sul quale si fonda l’organizzazione sociale ed economica[ Ambrosini 2001].

[7] Li, 32 anni, gestisce il ristorante Shangai, dietro il bancone vi è una grande statua di Buddha, alle pareti sono appesi quadri con paesaggi cinesi. Anche per l’altro ristoratore contattato si può notare che il ristorante è a gestione familiare, all’esterno è segnalato dalla presenza delle lanterne rosse e all’ingresso da un’immagine portafortuna.

[8] Bruno Riccio nei suoi studi sull’imprenditoria transnazionale e in particolare sulla comunità senegalese in Italia, condotti con una prospettiva multisituata, ha individuato le città di Touba e Dakar non solo come luoghi di partenza dei migranti senegalesi, ma anche come luoghi di destinazione di molti degli investimenti che fanno parte delle loro attività transnazionali [Riccio 2002, ID. 2007; Mora 2006].

[9] All’incontro con un giovane senegalese venditore di borse dal marchio contraffatto, come ce ne sono tanti nelle strade delle città italiane, fa riferimento Signorelli (2006), ponendo in evidenza l’inserimento dei senegalesi nel commercio ambulante di oggetti prodotti in Occidente e soffermandosi sull’uso di rivolgersi alle donne di una certa età chiamandole mama.

[10] Si tratta di associazioni religiose che in contesto di migrazione assolvono a varie funzioni di auto-aiuto all’interno delle comunità senegalesi.