Il Palio di San Michele di Bastia (Umbria)

Un nuovo modello festivo

Fiorella Giacalone

Dipartimento di Scienze Politiche - Università di Perugia

Table of Contents

Riflettendo sui modelli festivi
La questione della patrimonializzazione
Nuovi modelli festivi: San Michele Arcangelo a Bastia Umbra
Riferimenti bibliografici

Abstract. Bastia is a small town in Umbria; in recent decades it has become a great commercial and industrial development, with the presence of so many immigrants. The Palio di San Michele, from 50 years, is the city festival, which takes place during one week in September, with sports competitions, theater performances, the "lizza" (the relay game). Bastia is not a major city, it is not a destination for cultural tourism, but the Palio represents in an exemplary way as a festival can "create" a community, a place of gathering of young and adolescents. Analyzing some festive models, the essay reflects on new perspectives for the study of the festival, with an emphasis on new categories of festival in relation to the territorial identity.

Keywords. Immigrant, city festival, festive models, territorial identity

Riflettendo sui modelli festivi

La festa rappresenta une delle forme culturali più mutevoli nel tempo, poiché espressione di valori e simboli condivisi, ma anche di attività economiche e dinamiche politiche, di pratiche sociali laiche o religiose.

In Italia esiste una forte caratterizzazione regionale, che si esprime attraverso analisi territoriali di ricercatori particolarmente attivi nella rilevazione delle feste. Questi ricercatori, operando in aree geografiche diverse, hanno caratterizzato le loro analisi secondo gli approcci teorici sviluppati nelle università che gravitavano nel loro territorio, creando una sorta di “medaglioni regionali”, sia sul piano metodologico che come analisi di campo. Questo ha prodotto delle analisi a carattere regionale, con impostazioni legate agli orientamenti teorici dei diversi autori.

La forte presenza, a livello centrale e periferico, della chiesa cattolica, ha orientato la scelta dei ricercatori. La gran parte delle analisi sono infatti concentrate sulle feste religiose, sia quelle più istituzionali (rituali della settimana santa, Pasqua, feste dei santi patroni, santuari) sia quelle popolari, nelle quali emergono i conflitti tra ambiti liturgici ed extraliturgici. Sono stati posti al centro vari livelli teorici: i dislivelli di potere delle classi subalterne [Cirese 1973], i conflitti tra egemonia/ potere del cattolicesimo in Italia [Gramsci 1947], le relazioni di potere tra chiesa e stato nel suoi diversi livelli, compresa la mafia [Lombardi Satriani- Mazzacane 1974]. Nella tradizione degli studi italiani, una grande attenzione è stata data alle forme rituali-processionali come precursori del teatro, come i riti della settimana santa, le processioni, i presepi viventi, lette in chiave storica [Toschi] o in ottica semiologica-strutturalista [Buttitta A., Del Ninno 1981].

Seguendo l’ottica demartiana, molti studiosi delle feste meridionali si sono concentrati sulle “feste dei poveri” [Rossi 1969], sulla presenza o meno di una coscienza di classe nelle classi contadine, rilevando la funzione contestativa di vari aspetti del festivo meridionale [Lombardi Satriani, 1969], sullo spreco festivo come risposta a condizioni precarie esistenziali [Lanternari 1969].

Nel 1978 si svolge il primo grande convegno nazionale sulla festa, nel quale emergono orientamenti semiologici che leggono la festa come pratica discorsiva complessa, come narrazione da analizzare con gli strumenti della linguistica e della decodifica del segno festivo [Buttitta A., Del Ninno 1981]. Nel testo troviamo più approcci teorici: c’è chi continua a leggere la festa nel suo contesto socio-economico e come conflitto religioso-istituzionale [Di Nola 1981], chi guarda alle nuove feste, come Gallini che studia le “feste dell’Unità” del PCI come eventi pubblici con una dimensione socio-politica specifica, chi, come Giulio Angioni, si domanda se bisogna leggere la festa superando la dicotomia sacro-profano [Angioni 1981; Gallini 1981].

Verso la fine degli anni ’80 del novecento, le feste contadine sembrano avere una seconda vita e vengono riproposte da associazioni e Pro-Loco, ispirate al ricordo delle attività agricole, o nella riattivazione delle feste rurali da tempo dismesse, proposte quasi come una celebrazione del passato [Grimaldi 1996]. In quegli anni Bravo studia le feste contadine in Piemonte, regione con forte presenza industriale e dove sembrava essersi perso il ricordo delle feste tradizionali.

Bravo e Gallino individuano negli attori che “rivitalizzano” la festa, i pendolari fra diverse formazioni sociali, coloro che si spostano tra diverse realtà economiche e territoriali, e che sembrano aver perso un orientamento culturale specifico, presi dai ritmi lavorativi per massimizzare i profitti. E’ all’interno di questa crisi identitaria che si spiega la ripresa e “rifunzionalizzazione” delle feste contadine, quale risposta ai problemi della società complessa, vista come forma di stabilità di fronte alla precarietà della vita urbana [Bravo 1984]. Anche Grimaldi, sempre nel contesto piemontese, ritiene che le esperienze comunitarie, tipiche del festivo, servano a radicare gli individui nel “locale”, per orientarli verso specifici sistemi cerimoniali e verso il teatro popolare sacro, come “un tentativo di ri-sacralizzazione di un tempo e di uno spazio solo recentemente depotenziati di quei caratteri sacri che li qualificavano”, attivando cerimonialità che il tempo laico e secolarizzato della città sembra escludere [Grimaldi 1999, 8; Bonato 2006].

Sono anni di grandi cambiamenti nel panorama festivo italiano: nascono nuovi eventi di ispirazione medioevale a carattere urbano e laico nei centri storici del centro Italia (Toscana, Umbria, Marche), con accentuazione di caratteri locali e identitari. La televisione modifica l’assetto stesso del palinsesto festivo e molti piccoli centri del sud prendono a modello le più famose e sponsorizzate feste del centro-Italia, come il Palio di Siena o il Carnevale di Viareggio. Queste feste infatti godono di un’attenzione mediatica rilevante, divenendo punti di riferimento a cui ispirarsi, perpetuando una sorta di dipendenza culturale da parte delle regioni meridionali, le cui festività rimangono invece riservate ad un pubblico locale e non raggiungono una notorietà nazionale.

Questo processo di imitazione-modernizzazione ha modificato, spesso radicalmente, moduli festivi “tradizionali”, prendendo a prestito modelli televisivi, accanto alla ricerca (quasi ossessiva) di sponsor politici e fondi pubblici: processo poco studiato, con alcune eccezioni. Spera, ad esempio, ha indagato quanto la presenza della televisione abbia modificato riti della settimana santa in diversi centri della Basilicata a fini spettacolari o come il modello Viareggio abbia inciso nel cambiamento di carnevali importanti e di lunga tradizione come quello di Putignano in Puglia [Spera 2004].

Il dibattito si è dunque spostato sulla questione della autenticità/inautenticità della festa, e la questione, ancor oggi rilevante, è capire cosa sia il “folcloricamente genuino” (se mai sia esistito), e nel caso delle festa, se si possa parlare di un modello astratto e primigenio, oltre che immutabile. Diversi studiosi continuano a vedere la festa nei suoi aspetti più conservativi e “arcaici”, cercandone le origini pre-cristiane, rilevandone le continuità con il passato come forma di stabilità. Il valore della festa viene misurato per la sua durata nel tempo, per i suoi aspetti considerati “tradizionali", e scarsa attenzione viene data ai cambiamenti, considerati oggetti spuri, contaminanti, alle nuove feste e sagre paesane escluse dall’analisi, “con pudore aristocratico”, dall’accademia [De Santis Ricciardone 2005, 37].

La ricerca della “autenticità” non è solo una chimera di folcloristi, antropologi e turisti. Si può concordare che la nozione transiti e sia variamente costruita sulla scorta di accorgimenti retorici o strategici culturali differenti. Ma è una chimera condivisa, a livello locale, etnico, politico, sociale, personale […] Se il tempo della scrittura etnografica è il presente, come sostiene Fabian, il tempo della demologia è l’imperfetto e non a caso. Quel “c’era una volta”, o “un tempo si soleva” su cui spesso si aprivano le descrizioni degli usi e costumi popolari più “incolumi”, da sempre considerati specie in estinzione, sono diventati oggi parte integrante delle narrazioni locali sul proprio folklore” [De Santis Ricciardone 2005, 44].

Il dibattito, portato da Hobsbawm [1983], sull’invenzione della tradizione, ha aperto da allora nuove questioni teoriche mettendo in discussione il concetto di “tradizionale”, aprendo lo spettro di un festivo che si nutre di ricerche storiche, di nuove letture del passato, di ricerca di identità locali. Le feste storiche, ad esempio, nascono da una selezione di eventi, dalla ricerca di documenti storici significativi per le vicende politiche di una città: dai comitati promotori viene operata una selezione del passato alla luce del presente, degli interessi politico-istituzionali di sindaci e assessori alla cultura. In quest’ottica la tradizione non è più un complesso di memorie, che consentono di valutare il passato, ma la ricerca di un passato da selezionare in base alle prospettive con cui il presente di una città legge il suo passato e lo reinventa alla luce di interessi culturali e politici. Le “nuove tradizioni” usano materiali antichi (manoscritti, statuti comunali ecc.) con un’ottica “didattico-esplicativa” di un presunto glorioso passato a cui si ispirano. Gli oggetti e le pratiche, in questi contesti laico-urbani, dispiegano il loro significati simbolici e divengono una sorgente di “finzione rituale” (tipica del festivo), in un “come se” di tipo teatrale-rappresentativo.

Le présent permet de voir le “ces que nous sommes” comme dépôt de la mémoire, souvenir de la collectivité […] L’autoreprésentation mimétique sert à montrer ce que l’on veut du « soi » communautaire, pour se dire à soi-même, avant même qu’aux autres, que l’on appartient à une histoire qui parle de nous [Giacalone 1998, 216][1].

Lowenthal [1998] ci ricorda come il passato diventi portatore di messaggi culturalmente significativi per il presente, e perciò riproponibile nelle pratiche festive. La tradizione diventa il prodotto del presente, e il passato è una continua costruzione, che serve alla produzione dell’identità locale, vista come motivo centrale nell’attuazione della festa. Il rinnovamento della festa si colloca così in una strategia di autorappresentazione di tipo identitario, attraverso la selezione, più o meno consapevole del passato collettivo, che rende riconoscibili le strategie identitarie e gli interessi politici locali, dove la domanda interna (“chi siamo”) deve conciliarsi con la domanda esterna (il come del festivo, il turismo) [Bonato 2006, 85 ss.].

Le questioni innovative sulla fenomenologia festiva vengono successivamente affrontate in un convegno (a distanza di vent’anni da quello di Montecatini), organizzato dall’AISEA a Torino nel 2003 [Bonato 2005; 2006]. In quella sede Faeta riflette sulla storia degli studi in Italia, sottolineando come da noi sia mancata una analisi delle feste nella loro dimensione comunitaria, secondo l’approccio di Durkheim e di Turner, che vedevano in quest’ottica la ragion d’essere della ritualità festiva. Secondo Faeta l’analisi è stata prevalentemente di tipo culturale, privilegiando gli aspetti mitico-rituali di carattere storico-religioso, o rilevando i dislivelli di potere, di oppressione sociale, di “processi acculturativi e di dinamiche etnocide; della persistenza, in contesti sociali, della tradizione” [Faeta 2005, 25)]. Nella critica fatta a questi diversi approcci, Faeta introduce, come centrale, la dimensione sociale delle feste e della loro specifica “località”. La nozione di “località”, desunta da Appadurai [2001; 232] serve a definire come ogni gruppo definisca e costruisca la propria identità collettiva,

[…] un luogo al cui interno si riconosce, in ottica solidaristica e/o antagonistica, la legittimità di un processo di identificazione e mantenimento dei confini, di costruzione di norme comuni e di un ethos collettivo, di un’identità culturale, al fine di sottrarsi all’indifferenziata datità globale e di fondare pratiche sociali di tipo egemonico e gerarchico [Faeta 2005, 26].

Parlare di località significa introdurre, al centro del dibattito, il ruolo politico nella gestione del potere, (già evidenziata nella ricerca della Gallini in Sardegna), riproponendo un approccio marxiano che sottolinea come la festa sia uno strumento di controllo del potere politico. Questo rimette al centro del dibattito una lettura dei contesti urbani e dell’economia capitalistica, uscendo così da un’ottica ruralistica e neoconservativa per cogliere le dinamiche relative all’egemonia locale. In quest’ottica Faeta ritiene che la festa non sia mai tradizionale, ma frutto d’interazioni politiche dei diversi attori sociali, avvicinandosi alle riflessioni di Bourdieu.

La festa è, insomma, in questa prospettiva, uno degli strumenti per la lotta politica e va a istruire il campo di interazione di attori sociali antagonisti, in competizione per l’egemonia. Una più realistica interpretazione della festa, dunque, deve superare la prospettiva culturalistica, quella della mera messa in scena, per attingere a una prospettiva antropologico-sociale (che considera secondari, anche se non irrilevanti, i processi di messa in scena e punta alle interazioni economiche e politiche che sono loro sottesi) [Faeta 2005, 30].

La festa contemporanea appare un prodotto “ibrido” tra cultura di massa e cultura “tradizionale”, divenuta una sorta di contenitore di eventi eterogenei [Canclini 1998-1989], viene di volta in volta reinterpretata e riempita di nuovi significati, alimentandosi con altre modalità ludiche [Mugnaini 1997, 92; Clemente-Mugnaini 2001], strategie di autorappresentazione e comunicazione, che hanno come scopo di restituire un’originale immagine del territorio [Bravo 2003, 42].

[Gli attori della festa sono] le persone appartenenti a comunità aperte e mobili, occupate nei diversi settori, coloro che sono profondamente immersi e attivi nella società complessa, che l’attraversano quotidianamente e sistematicamente adattandosi a norme, comportamenti, atteggiamenti mentali e specifici linguaggi che influiscono e si incrociano al suo interno. Sono queste persone, spesso intellettuali, insegnanti, studenti, che si assumono l’impegno di recuperare quelle competenze e quelle conoscenze della memoria ancora viva nella comunità locale, che traducono questi saperi “in rinnovate performances e scenografie, le insegnano […] ai nuovi attori e spettatori della festa” [Bonato 2007, 36; Bravo 2003, 42].

La questione della patrimonializzazione

Negli anni ’90 si afferma un nuovo paradigma nella lettura delle feste: quello di patrimonio immateriale, relativo ai beni demologici e etnografici, sancita dall’UNESCO nel 1999 con il programma “Capolavori del patrimonio orale e intangibile dell’umanità” e nel 2003 con la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile”, più spesso chiamato “immateriale” in Italia, dove la convenzione è stata ratificata nel 2007. Nel patrimonio intangibile sono comprese le tradizioni orali, arti dello spettacolo, pratiche sociali e feste, artigianato tradizionale (Unesco 2006). L’intento dell’Unesco è di sviluppare una sensibilità antropologica sui beni culturali, che non si riduca ai solo beni storico-artistici, ma di creare nuova attenzione ai beni demologici. Questo ha però innescato una sorta di competizione da parte delle istituzioni locali per ottenere forme di “riconoscimento” della propria specifica festa, considerata unica e con lunga tradizione storica, riconoscimento che si traduce in aumento del turismo, ritorno di immagini e visibilità mediatica. Il rischio è quello di moltiplicare processi d’identità locale e di frammentare le identità territoriali costruendo nuovi confini e creando una pluralità di appartenenze [Lowenthal 1985; 1998].

In Italia si possono evidenziare due tendenze. La prima legge i processi di patrimonializzazione come una sorta di regolamentazione nel vasto e frammentato panorama italiano, per cui il compito degli antropologi è quello di guidare questo processo, dialogando con gli enti territoriali e i gruppi locali, facendo emergere le connotazioni politiche e gli interessi che lo accompagnano. Il paradigma patrimoniale vede beni da tutelare in chiave culturale, come beni su cui costruire appartenenze sociali, senza però usare il concetto di classe, ritenendo che intorno al concetto di bene culturale ci sia una condivisione sociale unanime. Si perde dunque l’opposizione gramsciana egemonia/subalternità, il carattere oppositivo di parte delle manifestazioni popolari, su cui tanta parte dell’antropologia italiana ha lavorato. Le differenze da difendere non sono più quelle popolari, ma beni di carattere interclassista [Dei 2012, 120].

Il paradigma patrimoniale proietta nel passato le differenze da proteggere. La concezione gramsciana suggerisce invece di studiare nel loro sviluppo storico e dunque anche nel presente le relazioni e le fratture tra egemonico e subalterno [Dei 2012, 122].

Questo approccio cerca di leggere il popolare come non più autonomo, ma connesso alla cultura di massa, alle sue influenze e strategie di marketing. In quest’ottica gli studi etnografici di Stuart Hall (Cultural studies) sulla decodifica dei prodotti di massa e le pratiche di “resistenza”, rappresentano un’interessante lettura del consumo culturale in chiave gramsciana [Stuart Hall 1981].

Una serrata e analitica critica al concetto di patrimonializzazione (e questa è la seconda tendenza) viene svolta da Bernardino Palumbo nella sue ricerche sulla Sicilia sud-orientale. In primo luogo egli sottolinea come le identità locali siano costruzioni sociali, anche se si suppone che siano connesse naturalmente con i propri beni culturali e artistici, dunque con l’architettura del territorio. Spesso sono necessari festival locali, anche di carattere storico, per costruire un sentimento di appartenenza, che è comprensibile se connesso a processi economici e politici più ampi e al ruolo di istituzioni, gruppi e tecnologie (stampa, media televisivi). Nella sua ricerca etnografica descrive “dei modi di costruire un sentimento di appartenenza comunitaria, dei processi e delle forme di manipolazione dello spazio pubblico, culturale e amministrativo”, seguendo tendenze consolidate del pensiero antropologico, tendenti a riflettere in maniera problematica, in tutta Europa, sul concetto di appartenenza [Palumbo 2003, 11]. L’obiettivo dell’autore è quello dunque di prendere le distanze dalla rivendicazione dei “localismi integralisti” tanto centrali nelle politiche culturali e dell’identità. Per questo non basta appellarsi a Hobsbawm e Ranger [1983] per ricordare che pensieri e oggetti tipici sono “invenzioni”, se queste invenzioni “sono vissute da tutti noi come emotivamente coinvolgenti, forti, abitudinarie, incorporate, vere” [ivi, 13]. Un’antropologia politica della produzione culturale deve indagare le modalità attraverso cui viene costruito l’habitus, deve de-naturalizzare i processi di costruzione, deve indagare lo spazio pubblico della produzione sociale, mostrandone i tentativi di demistificazione e di oggettivazione, deve indagare le logiche di potere che muovono. Ogni etnografia non può che essere un’antropologia politica della produzione culturale; l’interesse non è per i comportamenti tradizionali, ma per le “retoriche politiche di produzione della tradizionalità” [Palumbo 2003, 14-15].

“Identità”, “culture”, “tradizioni”, gli “oggetti” classici dell’antropologia […] ci appaiono ormai presi all’interno di meccanismi di oggettivazione e di rivendicazione, di dichiarazione ideologica e riflessiva che, strutturandosi nei rapporti tra poteri, istituzioni e attori delle diverse scene politiche, ne connotano lo status e li trasformano sempre più spesso in commodities, in beni giocati all’interno del mercato delle differenze [Ibidem, 15].

Nella critica all’uso del bene culturale come forma di oggettivazione culturale, Palumbo rileva la differenza tra heritage e history, posta da Lowenthal [1998]. Egli, infatti, distingue l’history, che definisce come ricerca critico-scientifica fondata su procedure di controllo della verità dei fatti, dall’heritage, che si pone come ricerca di valori assoluti, di autenticità. Questa infatti si disinteressa della verità storica, ai fini di una ricostruzione, sempre di tipo ideologico, del passato e delle modalità di uso in chiave contemporanea. Sul piano dell’history Lowenthal colloca il mondo degli storici, protesi verso la consapevolezza della parzialità delle verità storiche, come della capacità di demistificare il passato, sul pianodell’heritage pone l’idea dell’inautenticità, legata alle necessità del presente, condizionata dal “peso delle considerazioni politico-ideologiche, la consapevolezza e la strumentalità dell’agire” [Palumbo 2003, 35].

Quest’approccio evidenzia il piano politico-istituzionale dell’uso del concetto di heritage, quale strumento attuativo di forme di oggettivazione culturale, dei beni culturali come del patrimonio festivo, e pone con forza la ridefinizione delle discusse categorie dell’autenticità e della tradizionalità. Viene attuato perciò un processo di decostruzione critica del concetto di patrimonio, della relazione tra teorie del festivo e realtà dei gruppi sociali operativi sul territorio, di riflessione sul rapporto tra trasmissione dei beni (materiali e immateriali) e definizione della località, viste come processi di costruzione culturale delle identità collettive. I discorsi ufficiali sui beni culturali (politici e accademici) rischiano di descrivere “realtà sociali del tutto ideali, istituzionali, di fatto ideologiche, molto lontane da quei concreti modi di fare, usare, manipolare gli “oggetti” del patrimonio con i quali ci mettono in contatto l’esperienza etnografica” [Ivi 369].

Nuovi modelli festivi: San Michele Arcangelo a Bastia Umbra

Da queste riflessioni emerge una nuova consapevolezza nello studio dei fenomeni festivi. Da un lato vi è la sensazione che le teorie abbiano proceduto secondo modelli consolidati, ma non sempre quegli schemi siano stati adeguati alla profonda trasformazione delle pratiche sociali, e che alcune ipotesi, che hanno definito a lungo tale istituzione (tradizione, autenticità, spreco festivo) non sia in grado di comprendere le nuove modalità del festivo.

Le critiche al concetto di patrimonio impongono di leggere e guardare alle feste non solo con un’ottica “culturalista”, ma tenendo presenti gli approcci politici, le scelte istituzionali, l’ottica economica e le specifiche e contestuali dinamiche degli attori sociali. Intorno alle feste si coagulano infatti più istituzioni promotrici: Associazioni culturali, Pro Loco, sindaci e assessorati alla cultura, tesi a “vendere” la festa come prodotto locale con il marchio dell’autenticità e della località. Nelle azioni del festivo si trovano intrecci tra cultura popolare e di massa, particolarismi locali e rivendicazioni di azioni storiche, promozione di prodotti locali, artigianali e agro-alimentari, turismo locale, dichiarazioni di presunta tradizionalità e di altrettanta storicità.

In Umbria, come in altre regioni italiane, si assiste ad una e nutrita presenza di feste storiche: molte a carattere storico-medioevale (Ceri di Gubbio, la più antica [Seppilli A. 1971; Papa 1998]; Calendimaggio di Assisi, nata nel 1946, Giochi delle Porte di Gualdo Tadino, La Giostra d’Arme di Narni, Gaite di Bevagna, sviluppatesi negli anni ‘80 ecc.) o barocco (Quintana di Foligno, nata nel 1954) [Giacalone 1998; 2013]. Questa moltiplicazione di feste ha origine da una «laboriosa manipolazione dei materiali simbolici e rituali che le costituiscono» [Falteri 2007, 36], come dall’interesse degli Enti Locali di promuovere eventi culturali che attirino forme di turismo festivo. La Regione si caratterizza per una forma di “policentrismo diffuso”, per cui le diverse aree gravitano intorno a alcuni centri urbani più rilevanti. I tessuti economici e culturali sembrano strettamente connessi, specie per alcuni settori produttivi che si muovono sulle principali vie di comunicazione, che collegano la regione con quelle limitrofe lungo i due assi principali di comunicazione [IRRES 2000]. Questo vuol dire che alcune feste si sono sviluppate in centri urbani lungo questi assi di sviluppo produttivo, perché promosse da municipalità che volevano utilizzare i flussi economici (persone e manufatti) anche a fini di promozione turistica.

Le città sono state perciò incoraggiate a

Ridefinire l’immagine della città in una duplice direzione, che da un lato richiede di costituirsi o di rafforzarsi come poli di attrazione verso l’esterno, dall’altra di attivare processi culturali che rifondino la comunità stessa e riconferiscano significato ai centri storici. Le “nuove” feste s’ iscrivono in uno scenario complesso, [come] l’importanza che possono avere per i giovani, in quanto capaci di funzionare come elementi mediatori attraverso cui essi – aldilà della dimensione ludica - entrano in rapporto con lo spazio urbano, con i coetanei e con le altre generazioni in una prospettiva di produzione di senso [Falteri 2007, 37].

Come si costruisce oggi il festivo? È una successione di eventi in giorni ciclici del calendario, che ridisegna la scenografia urbana? È un insieme organico o una giustapposizione di eventi rifunzionalizzati dagli attori locali? Sono pratiche condivise ancora di carattere rituale o piuttosto sono diventate pratiche sociali spettacolari? In che senso lo spazio e il tempo sono modificati nell’evento festa? Esiste ancora una relazione tra sacro e profano o la festa urbana contemporanea è laica anche quando si festeggia un santo patrono?

E ancora, domanda ancora più rilevante, che rapporto c’è tra festa e comunità? È la comunità che crea la festa, o non piuttosto il contrario, vale a dire che l’aggregarsi temporaneo di soggetti può sviluppare il prodotto “comunità”? [Bravo 2001c; Bonato 2006, 45]: la festa è perciò una comunità temporanea? Dunque, di chi è la festa?

Per affrontare e rispondere ad alcune di queste domande ho deciso di parlare di una festa che non si presenta né rurale, né medievale, né turistica, ma definita dagli attori sociali come tradizionale: il Palio di San Michele di Bastia.

Bastia è un comune di medie dimensioni, che ha avuto un grande sviluppo industriale e commerciale, tanto da passare da settemila a ventiduemila abitanti negli ultimi trent’anni, con un incremento demografico dovuto a migrazioni dalle campagne limitrofe e dall’estero, specie dal Maghreb e Albania. Collocata sulla direttiva della superstrada Perugia-Terni, a metà tra due importanti centri quali Assisi e Foligno, Bastia non è compresa nell’itinerario turistico di chi visita le città d’arte dell’Umbria.

La festa di San Michele è stata inventata agli inizi degli anni ‘60 dal parroco di allora (Luigi Toppetti) e da giovani dell’Azione Cattolica, per festeggiare il patrono della città e la nuova chiesa, con cerimonie religiose, e manifestazioni a carattere civile. La festa nasce per riunire i cittadini intorno alla loro chiesa e alla loro piazza, aggregando soprattutto i giovani con eventi sportivi e pratiche religiose, come già facevano le associazioni cattoliche. La città è divisa per l’organizzazione in 4 rioni, corrispondenti a colori e simboli diversi, ognuno con i suoi comitati[2]. Dal 24 al 29 settembre, ogni rione, con i suoi capitani e i gonfaloni, organizza varie iniziative sportive e artistiche, tra cui la costruzione delle sfilate, nelle quali i partecipanti dei diversi rioni si sfidano in scene teatrali. Si svolgono così tre gare: i Giochi in Piazza (palo della cuccagna, corsa con i sacchi, tiro alla corda), la Sfilata dei rioni,la Lizza, una staffetta con una torcia: ogni quartiere espone i propri vessilli colorati per le strade della città. La Lizza venne creata nel 1963, quando Giorgio Giulietti si trovava a Siena e, affacciandosi alla camera dell’albergo, vide il nome della piazza: “Piazza La Lizza”, il luogo che in passato ospitava i cavalli per la corsa del Palio[3]: da lì gli venne l’idea della staffetta e del suo nome.

È evidente come alla nascita di questa festa concorrono diversi elementi che ne dimostrano l’ibridazione e la ricerca di eventi spettacolari. Si prendono a modello, come già ricordato, le feste famose della Toscana, dai Carri di Viareggio alla Lizza (Palio) di Siena, si divide la città in rioni e stemmi secondo le feste storiche di altre città dell’Umbria, si svolgono delle gare tra i modelli televisivi e le competizioni sportive religiose della Gesci. La festa, come la città, cerca una sua specificità, una sua connotazione che la distingua da altre città umbre..

Le vicende politiche modificano l’orientamento della festa: gli anni settanta rappresentano un momento di crisi: dopo anni di governo della città della Democrazia cristiana, il sindaco socialista, noto giornalista televisivo (Alberto La Volpe) vuole dare un assetto laico e internazionale alla città, e ritiene il Palio una festa “paesana”, lontana dal dibattito politico che attraversa l’Italia di quegli anni. Anche l’Istituto Verità e Vita non ha risorse economiche per le gare, così che la festa entra in crisi.

Il Rione Moncioveta, nel 1973, per esprimere la polemica nei confronti delle istituzioni, costruisce il “Carro del Veleno”: riproduce in cartapesta il paese di Bastia con i tre edifici del Comune, Parrocchia e Pro Loco. Tra lo stupore del pubblico, i ragazzi sul carro, vestiti da barbari, distruggono i palazzi con i bastoni, in segno di protesta contro gli enti incapaci di gestire e finanziare la festa. Dal 1975 la festa rinasce, creando l’”Ente San Michele Arcangelo” (parrocchia, Pro Loco, Istituto Verità e vita, Ass. commercianti, Ass. Combattenti e reduci, Ass. dei Coltivatori diretti) che riunisce le associazioni della città e che affidarono l’organizzazione della festa alla Pro Loco.

La festa ritrova un nuovo slancio negli anni ’80, quando le sfilate furono svincolate dai temi dell’attualità e i rioni decisero i temi in piena autonomia. Il cambiamento portò ad una maggiore spettacolarizzazione della festa: coreografie, spettacoli teatrali, anche per la presenza, nel Rione Moncioveta, della compagnia teatrale dell’Atmo, una compagnia di teatro-ragazzi. Per la costruzione dei carri occorrono mesi, dalla progettazione al diverso uso dei materiali nella realizzazione: cartapesta, ferro, legno, gommapiuma: i rioni diventano dei laboratori artistici nei quali si trovano a lavorare professionisti dello spettacolo accanto a falegnami, sarte, costumisti, attori, ballerine e cittadini, la festa è un grande meccanismo che deve occuparsi dell’aspetto artistico e di quello economico[4].

La parte più interessante dell’analisi etnografica è seguire la preparazione delle gare, in particolare l’organizzazione delle sfilate, che richiede un grande impegno, prima di tipo ideativo e organizzativo (scelta del tema e della sua articolazione in scene, preparazione della scenografia, ricerca delle stoffe e dei materiali per i vestiti), poi, tra fine agosto e settembre, la costruzione del testo narrativo e la preparazione di tutti gli elementi. Ogni rione ha un’area, all’interno della città, nella quale si trova un capannone per l’organizzazione dei materiali, oltre a uno spazio esterno dedicato alla preparazione delle gare. Sarte alle macchine da cucire, fabbri che preparano le strutture in metallo, giovani che incollano gommapiuma e costruiscono pupazzi, altri che si dedicano alla sistemazione degli abiti, sono le scene che si possono vedere nelle serate che precedono la festa. Ogni rione mantiene il segreto in relazione a ciò che sta preparando, e ciò che colpisce è l’età media dei partecipanti, prevalentemente giovani (studenti, lavoratori) coordinati da adulti con maggiore esperienza organizzativa. La sfilata è uno spettacolo di scenografie mobili e fisse, ma è anche teatro, musical, danza. La festa diventa così un grande laboratorio al quale partecipano persone di diversa estrazione sociale, ognuno con le sue competenze, con grande presenza di giovani, che sono il vero motore della festa [Stangoni 2013].

Per i più piccoli, dal 1993, si svolge il Mini-palio, bambini delle elementari che anche loro partecipano a giochi e gare sportive.

Durante la settimana c’è una giornata nel quale gli organizzatori incontrano i bambini delle elementari per coinvolgerli nel sentimento di appartenenza alla festa della città. I bambini, riuniti nella sala del cinema, si mettono al collo le “bandierine” con il colore del proprio rione: per le istituzioni loro rappresentano il futuro, la continuazione del Palio.

Arriva il presidente dell’ente palio e i 4 capitani. Appena viene nominato il rione, i ragazzi di quel rione gridano il suo nome, altri fischiano. Parla il presidente dell’Ente Palio, invitando i bambini a “fare parte della vita rionale”, a stare nelle taverne, ad imparare le attività del rioni. Parla della storia della festa, dei suoi cambiamenti. Interviene l’assessore alla cultura e al palio: “Essenza della nostra comunità, nei rioni. Da un po’ di carta, da un po’ di ferro, si costruiscono carri meravigliosi. Non è una sfilata come 30 anni fa, oggi c’è l’arte della recitazione, tutti possiamo imparare a recitare davanti a 3000 persone. È una scuola di vita e di comunità. Da piccoli bisogna imparare a frequentare la vita delle taverne”.

Parla il sindaco, ricordando che è stato un rionale. “I bambini devono prendere il testimone della festa. Ringrazio le insegnanti perché in tutte le classi ho trovato segni della festa. Contribuiscono a perpetuare questo evento. Ho cominciato da piccolo come voi, ho servito in taverna. Non c’era tanta gente, tanti piatti come oggi, servivo ai tavoli e facevo le operazioni di conto e si maneggiavano i soldi. Mi è servito per imparare e crescere. Da sette anni vivo come sindaco questa festa. Buona festa a tutti” (diario di campo, 16-9-2016).

Il Palio di San Michele appare dunque un crogiolo di eventi, sia sportivi che culturali, che prendono spunto dal teatro, persino dal musical americano, spesso ideati da professionisti di Bastia che vivono a Roma o in altre grandi città. Si realizza quel progetto di festa che ha come protagonisti i “pendolari” tra più dimensioni spaziali e culturali: studenti universitari che studiano fuori, artisti che ritornano per organizzare i carri, atleti che si impegnano nelle gare, bambini che imparano accanto ai più grandi. Difficile annoverare il Palio di Bastia tra le feste tradizionali italiane, ma l’ente Palio ha chiesto il riconoscimento di “Evento Tipologico Storico dell’Umbria” alla Regione, per i suoi 53 anni di presenza tra le feste del territorio, non avendolo ancora ottenuto.

Il Palio è diventata per chi la vive una festa tradizionale, considerata il vanto della citta: “è una festa aggregativa, coinvolgente in tutte le sue specificità, essa consolida il nostro senso di appartenenza al territorio. La festa del santo patrono è un evento che ha donato a tutti l’opportunità di crescita, di interazione e di integrazione generazionale, apprezzando il gusto del lavoro disinteressato” (Daniela Brunelli, Presidente della Pro Loco di Bastia Umbra), [Stangoni 2013 22]. In queste parole della presidente sta il successo della festa, che va letta in chiave antropologica.

Il Palio di Bastia usa schemi consolidati: divisione in rioni, gare giovanili, enogastronomia del territorio, anche i termini utilizzati sono presi a prestito da altre feste storiche umbre. I contenuti invece sono rielaborati in chiave locale, seguendo le loro specificità territoriali, con diversi spunti teatrali e musicali, fatti con competenza e professionalità. Tutti in qualche misura si sentono attori e protagonisti di eventi che si susseguono per sei giorni, quasi la durata di un festival. Il suo bricolage tra agonismo e teatro, tra forme d’integrazione sociale e gare di scout ne fa un ibrido che funziona come spettacolo per tutti.

E poi il Palio non è: non è la festa religiosa nei termini del cattolicesimo popolare, non è una festa in costumi medioevali, non è una festa turistica, né arcaizzante perché Bastia non ha un centro storico importante, non è interessata alle dinamiche della patrimonializzazione. Nel suo non essere, il Palio di San Michele ha un grande merito: quello di aver fatto diventare Bastia una comunità, una “comunità temporanea”. La festa omogeneizza e compatta, nel “fare” la festa, nel “sentirsi” parte di una collettività agente e fattiva.

Nelle modalità e i tempi con le quali la festa si realizza (mesi estivi dedicati alle rappresentazioni teatrali e ai costumi, allenamento per le gare, preparazione delle cucine) la festa apporta omogeneità e coesione, poiché ognuno si sente protagonista-spettatore di una collettività attiva e collaborativa. La festa riesce a coinvolgere anche persone provenienti da contesti sociali e culturali diversi, come i giovani albanesi che partecipano alle gare.

Non è più la comunità che crea la festa, come nel caso di Gubbio o di Siena, ma è la festa a costruire l’idea della comunità, come costruzione di un evento, a cui partecipano, in varie modalità, tutti gli abitanti, anche come “consumatori” alle taverne, finanziando la festa stessa. Così vengono descritti i bastioli in un saggio storico-economico di qualche anno fa:

Chi ha provato a descrivere Bastia e i bastioli non è quasi mai riuscito a sfuggire ai luoghi comuni delle tipizzazioni e degli stereotipi […] Perché poi cercare un’identità collettiva, improbabili radici e coltivare un “senso d’appartenenza” per chi in buona sostanza non sembra soffrire poi molto della mancanza? Forse che la loro identità collettiva non è più legata a “quello che fanno”, piuttosto che a “quello che hanno fatto”? In questo sta la straordinaria modernità della città di Bastia: il “non essere” che non obbliga a perpetuare riti o tradizioni svuotate e non cataloga o classifica atteggiamenti o comportamenti” [Bottacchiari 1987, 69-70].

Bastia non ha un passato da rivendicare, non ha documenti storici da riattualizzare: vive del presente, del lavoro e della voglia di sentirsi comunità. È dunque più esatto parlare della festa come un evento che viene rifunzionalizzato da nuove forme sociali, dalle economie locali e dai flussi turistici in contesti microdimensionati. Autenticità e inautenticità diventano termini poco adatti a esprimere il senso di appartenenza che la festa restituisce, anche se questa non rientra in modelli collaudati. E per questo è più interessante.

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[1] Ho avuto occasione di studiare alcune feste “a citazione storica” in Umbria (la “Quintana” di Foligno in particolare), nate tra gli anni sessanta e ottanta, feste che si sviluppano con le medesime azioni sceniche: giostra d’armi, gare di balestre, cortei storici in abiti rinascimentali. L’analisi del Palio di San Michele è stata svolta nel 2015 e 2016.

[2] Rione Sant’Angelo: colore giallo, stemma: il cervo; Rione San Rocco: colore verde, stemma: un agnello; Rione Portella: colore blu, stemma: la ferrovia e il ponte sul Chiascio; Rione Moncioteva: colore rosso, stemma: una fortificazione medioevale.

[3] La lizza era il recinto usato nel Medioevo per delimitare arene e spazi destinati alle giostre, tornei cavallereschi, corse e combattimenti. Era il luogo in cui ci si poteva ripararsi e riposarsi.

[4] Dalle mie note di campo: “A novembre il gruppo rionale si vede per decidere l’argomento, lo svolgimento e le scene. Il lavoro e le scelte sono collegiali, anche se vi sono persone con più esperienza che coordinano i lavori, specie sarte e creatori. Quando si sono inseriti attori di teatro o registi professionisti, a detta dei rionali, è stato peggio, perché questi intendono dirigere tutto e si perde la collegialità del lavoro. Il bello è proprio la costruzione di gruppo. Quanto ai soldi, la regione da 10mila ero per 5 (i 4 rioni più l’ente palio), ma 2mila euro sono molto pochi, dato che la sfilata costa tra 15 e 20 mila euro (sono 270 persone quest’anno). Le persone possono dare un contributo, ma non comprano il vestito come al Calendimaggio. Alcune ditte regalano le stoffe o altri materiali, cercano di risparmiare comprando le stoffe a Prato. I vestiti non vengono riutilizzati, alcuni li conservano. Le fonti di finanziamento sono le taverne e i biglietti, con cui pagano le spese. Non si fa più la questua”.