Crisi ecologica e processi di “identizzazione”

L’esempio delle estrazioni petrolifere in Basilicata

Enzo Vinicio Alliegro

Dipartimento di Scienze Sociali – Università di Napoli Federico II

Table of Contents

Moderno vs Arcaico: semplificazioni mistificatorie
Oscillazioni semantiche e giochi di potere
Politiche e poetiche filopetrolifere
Scienceland: i saperi dai volti cangianti
Una proposta interpretativa: intorno alla denormalizzazione e alla crisi identitaria
Verità, dubbi e insicurezza: tra appaesamento e apocalisse
Identità e identizzazione: alcune ipotesi conclusive
Riferimenti bibliografici

Abstract. In Agri Valley, Basilicata (Italy), oil companies have opened the largest production of continental Europe. The oil industry is located close to a National Park, in a territory rich of water and landscape resources where there is a very important agricultural tradition. The essay, through field research and the use of extensive archival documentation, seeks to analyze the conflicts and the cultural changes products by the presence of oil companies that have produced a capillary redefinition of cultural identity, here called "identizzazione".

Keywords.  Anthropology of conflict. Cultural change. Cultural identity.

Moderno vs Arcaico: semplificazioni mistificatorie

In un'intervista apparsa su un noto quotidiano nazionale, il Primo Ministro del Governo italiano, relativamente ad alcuni provvedimenti legislativi d’imminente approvazione nel comparto energetico, sosteneva che:

Nel piano Sblocca Italia c'è un progetto molto serio sullo sblocco minerario. È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l'energia e l'ambiente che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell'accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro, comitatini[1].

Per paura della reazione di “tre, quattro, comitatini”, appunto, secondo la narrazione contingente, “filopetrolifera”, del potere politico centrale, l'Italia rischiava di ritrovarsi ancora bloccata nelle sue prerogative di sviluppo e di ripresa economica, con un saldo energetico destinato a restare negativo.

Al di là di tale discutibile (per non dire infondata) valutazione della rilevanza del settore estrattivo sul bilancio nazionale, le considerazioni perentorie svolte dal Primo Ministro in quell’intervento evidenziano la presa d'atto a livello governativo della forte opposizione che la costruzione di infrastrutture energetiche, così come l’avvio o l’implementazione di attività produttive ed industriali, incontra anche nei territori del Mezzogiorno[2], e il tentativo di banalizzare tali azioni di protesta riconducendole, e riducendole, alla nota sindrome Nimby[3], spia di eccesso di campanilismo e, più in generale, di mancato senso dello Stato.

Una sorta di unificazione nazionale incompiuta è quella che aleggia in tanti discorsi pubblici, in cui alcuni territori sono rappresentati come ripiegati unicamente sui propri interessi, tenuti in ostaggio da comitati che non riconoscono lo Stato Nazionale come agente regolatore delle esigenze e dei valori complessivi del Paese, e meno che mai di singole aree.

Al di qua della linea del tempo, dunque, vi sarebbero le periferie arroccate su posizioni neo-leghiste di natura rivendicativa e localistica; al di là, invece, lo Stato unitario collocatosi lungo direttrici lungimiranti di carattere nazionale ed internazionale. Da una parte territori “selvaggi”, con scarso senso civico, attraversati da logiche premoderne, intrisi di conservatorismo arcaico e soggiogati da irrazionalismi indomiti; dall’altra, apparati moderni e razionali, gli unici in grado di indirizzare il proprio impegno verso un progetto organico di benessere collettivo. Ed ecco, dunque, la Basilicata, la periferia dell'impero neoliberista, una delle aree più povere ed isolate del “Bel Paese” tante volte oggetto di processi di esotizzazione interna [Faeta 2011] che ne hanno fatto il simbolo del sottosviluppo più remoto, sottrarsi irresponsabilmente al dovere patriottico. Ecco la piccola Basilicata, incamminatasi lungo un suo percorso di sviluppo [Viganoni 1997; Sinisi 2000; Alliegro 2011], e ritrovatasi al centro di logiche finanziarie che dettano l’ordine su scala globale [Palmisano 2017], frapporsi impunemente all’avanzata taumaturgica della storia (e della modernità) giunta da un non precisato altrove per redimere dall’arretratezza popolazioni ancestrali [De Rosa 2015].

Le dichiarazioni del Presidente protempore del Consiglio hanno suscitato in Basilicata una serie di reazioni contrastanti che ci introducono in un'arena in cui più poteri si fronteggiano per il controllo del territorio, svolto anche mediante la plasmazione simbolica dell'immaginario, condotto, come si vedrà più avanti, con l'ausilio di saperi colti [Lyotard 1981], piegati talvolta ai desiderata di importanti potentati economici, finanziari e politici.

Queste considerazioni avanzate proprio a partire dalle estrazioni petrolifere che hanno luogo in Basilicata [Sinisi 2000; Alliegro 2013, 2014, 2014a; Bubbico 2016], intendono delineare alcuni percorsi interpretativi per l’analisi di movimenti sociali e di fenomeni conflittuali [Koensler e Rossi, 2012; Matera 2015; Palidda 2016] che si svolgono nel quadro di una discorsività politica fortemente impattante la quale mistifica i termini della contesa pubblica. Quest’ultima, infatti, risulta strategicamente schiacciata in un regime argomentativo estremamente semplificatorio, in cui realtà molto complesse finiscono con l’essere ricondotte a contrapposizioni binarie, del tipo arcaico-moderno, irrazionale-razionale, localismo-nazionalismo, a norma-fuori norma, ecc.

A questo punto, pertanto, risulta sempre più chiaro come le indagini antropologiche, nel cui ambito sono state svolte importanti ricerche incentrate su aree dove il conflitto e il dissenso hanno assunto fisonomie diversificate [Zonabend 1986; Petryna 2002; Zinn 2007; Breda 2011; Zerrilli-Pitzalis 2013; Ravenda 2014, 2016; Aime 2016; Lutri 2016; Russel 2016; Ghiroli 2017], siano chiamate a snidare le molteplici strategie di cui i diversi poteri [Ciavolella 2013] si servono per imporre i propri piani di sviluppo, unitamente alla messa in chiaro delle reazioni generate sulle popolazioni locali sollecitate in qualche modo ad un intenso lavorio di “identizzazione”, ovvero di (ri)definizione di elementi “ritenuti” costitutivi e fondativi della propria relazione identitaria con i luoghi di vita. Secondo questa prospettiva, nelle aree di crisi ecologica, pertanto, compete all’analisi antropologica snidare quelle dinamiche, talvolta sotterranee, di natura carsica, che rimodulano l’attaccamento al loco natio, disegnando scenari problematici che concernono anzitutto l’esserci e le forme del radicamento affettivo ed emotivo ai luoghi [Breda 2000], con evidenti ripercussioni sulle dinamiche di riconoscimento identitario.

Nei luoghi interessati da processi destabilizzanti di crisi ambientale, le comunità locali sono chiamate a rivisitare criticamente le diverse forme che l’addomesticamento culturale dello spazio, preludio alla costruzione indigena della domesticità, ha assunto. Una delle direttrici prioritarie, dunque, intorno a cui le pagine che seguono intendono muoversi, concerne il ruolo che i processi di ri-appaesamento e di re-identizzazione, innescati dalla percezione dei disastri [Ligi 2009], dei rischi [Beck 2000; Saitta e Gatto 2009] e della mancanza di protezione [Castel 2004], hanno nelle dinamiche di territorializzazione [Turco 1988, 2003], lette a partire dalla problematizzazione di quelle relazioni complesse che legano le comunità ai territori ed ai paesaggi di riferimento [Lai 2001; Turri 2008; Papa 2012].

Oscillazioni semantiche e giochi di potere

Le attività petrolifere che si svolgono oggi in Basilicata sono concentrate nella provincia di Potenza. Esse hanno quale fulcro dell’intera e altamente invasiva filiera estrattiva la centrale di idrodesolforizzazione sita nel Comune di Viggiano (Potenza), di circa venti ettari, denominata Centro Olio Val D'Agri (d’ora innanzi Cova)[4]. Questa centrale Cova ha assunto il nome “Val d'Agri” (dal fiume Agri), recependo a pieno la denominazione conferita dagli uffici ministeriali all'intera concessione, “Concessione per l’estrazione di idrocarburi Val d'Agri” che, secondo i dati ufficiali del Ministero[5], è la più grande d'Italia e d'Europa[6]. Secondo il piano di sfruttamento del giacimento (ignoto alle popolazioni residenti), mediante oltre venti pozzi estrattivi ed uno di reiniezione (quest’ultimo sottoposto, di recente, oltre al Cova stesso, ad un’indagine penale da parte della Magistratura lucana)[7] collocati in un’area di notevole valenza naturalistica (Bavusi e Garramone 2001) e sede di un Parco Nazionale, si estraggono al giorno intorno agli 85.000 barili e circa cinque milioni di metri cubi di gas. Una rete di oleodotti[8] di quasi 400 chilometri attraversa l'area, mentre il greggio trattato, quindi separato nel Cova dalla sua componente fangosa, gassosa e acquosa, raggiunge con l’ausilio di apposite stazioni di pompaggio la raffineria di Taranto mediante un oleodotto di 140 chilometri. L'attività estrattiva odierna coinvolge meno di 300 occupati diretti e circa 2 mila nell'indotto[9]. Ogni anno produce, sotto forma di compensazione ambientale, oltre 100 milioni di Euro di royalties per la Regione Basilicata e per i Comuni direttamente interessati dalle estrazioni[10]. La “Concessione Val d’Agri”, avviata negli anni Ottanta del secolo scorso, se si escludono alcuni pioneristici tentativi di inizio Novecento (Caputi 1902; Crema 1902) può essere assunta quale terza fase dell’industria petrolifera la quale mise radici in Basilicata con l’Agip sin dagli anni Venti e Quaranta del Novecento (prima fase) (Ministero dell'Economia Nazionale: 1926), per poi proseguire con le attività di cui si rese protagonista Enrico Mattei nella provincia di Matera negli anni Sessanta, sempre del Novecento (seconda fase)[11].

La denominazione “Val d'Agri” conferita alla concessione, estesa ben oltre il bacino fluviale, culturale ed economico tracciato dall’Agri, lascia affiorare quanto la petrolizzazione abbia attivato inediti meccanismi di stigmatizzazione identitaria e di gerarchizzazione di aree e sub-aree all'interno del reticolo regionale. Al riguardo è possibile definire l'industria estrattiva quale attività contrassegnata da un forte potere stigmatizzante che avvia azioni di polarizzazione semantica che poggiano su dinamiche di conversione produttiva ed economica, le quali fissano coordinate di lettura di comunità locali e di territori, sui quali viene ad applicarsi un potente stigma cromatico che si espande con il diffondersi delle attività estrattive. Eppure, malgrado i pozzi e il Cova caratterizzino fortemente il profilo economico ed identitario di una parte considerevole della Basilicata, l’ente regionale, proprio per questo, compie incessantemente numerosi investimenti per non restare schiacciato dalla forza d'urto identizzante che lo stigma trascina con sé, proponendo immagini di aree verdi incontaminate, di location turistiche idilliache, di genuini panieri enogastronomici e, soprattutto, una strategia comunicativa che fa leva sull’idea di uno sviluppo sostenibile, quindi sano ed equilibrato[12].

Nonostante gli sforzi continui, tesi a isolare e a neutralizzare quei discorsi che partendo direttamente dai territori interessati dall’infrastrutturazione mineraria tendono a minare l’aura rassicurante modellata dai diversi poteri filopetroliferi, indubbiamente la presenza degli impianti estrattivi a ridosso di vigneti e di aziende zootecniche, di centri abitati e finanche di strutture scolastiche e ricettive, a distanza ravvicinata dall’invaso del Pertusillo, le cui acque giungono fino alle provincie pugliesi, ha generato una configurazione ambientale spuria e comunque ambigua ed ambivalente. Se, infatti, taluni operatori del comparto primario hanno ritenuto di abbandonare le proprie aziende e si sono lasciati assorbire dall’industria petrolifera[13], altri, invece, attingendo a specifici finanziamenti pubblici assicurati proprio dalle royalties, hanno inteso continuare ad investire in tale settore, anche mediante la certificazione dei prodotti enogastronomici. Oggi, infatti, non deve stupire se nell’alta Valle dell’Agri, l’area maggiormente interessata dalle trivellazioni, affianco ad aziende agricole ormai chiuse, con alle spalle una storia centenaria (Alliegro 2011), sia possibile trovare una estesa rete insediativa che ha dato vita ad un ricco paniere di prodotti tipici fatto da vini, fagioli, formaggi che hanno ottenuto la certificazione europea e finanche il marchio d.o.c. o i.g.p., di cui si fregiano in fiere di settore organizzate proprio dalle multinazionali. É in questi ambiti geografici “densi”, ricchi di “catalizzatori identitari”, pertanto, che si sono imposti alle popolazioni autoctone, parte delle quali direttamente coinvolte nell’indotto economico determinato dalle scelte delle compagnie petrolifere, alcuni problemi interpretativi, tra cui anzitutto il nodo che concerne la modalità di decodifica del comparto estrattivo. Al netto, naturalmente, di quelle posizioni estreme che hanno inteso in maniera intransigente difendere gli assiomi catastrofisti piuttosto che quelli rassicuranti e negazionisti, è possibile affermare che il campo sociale di riferimento sia attraversato da un cortocircuito percettivo, il quale ha reso i termini della disputa tra i sostenitori e i detrattori dell’industria petrolifera piuttosto sfumati, e i contenuti spiccatamente problematici. I primi, infatti, pur evidenziando incessantemente le positive ricadute economiche, sia quelle dirette (occupazione), che indirette (trasferimento di royalties), si sono mostrati aperti al riconoscimento di alcuni impatti negativi sull’ambiente. I secondi, che solitamente puntano invece l’indice contro gli esiti nefasti dell’industria petrolifera, non ne hanno negato taluni riflessi positivi.

In quanto oggetto non definito rigidamente, che sfugge a decodifiche univoche, il settore petrolifero risulta ricoperto di una patina polisemica, e il giudizio su di esso oscilla tra attribuzioni di senso e di significato che rasentano talvolta la sospensione del giudizio. Questa situazione di non chiara decodifica ci restituisce un campo conflittuale in cui è dato definire il petrolio quale possente generatore simbolico [Alliegro 2013], ovvero quale prodotto culturale discorsivo e allo stesso tempo reticente, che mostra nascondendo e nasconde mostrando. Tra un qualcosa -il petrolio- che si fa qualcos’altro -simbolo di vita o di morte- si collocano infatti i diversi poteri indirizzati a piegare l’estensione semantica di un ossimoro insabbiato tra modernità e postmodernità.

L’industria estrattiva, più in generale, può essere infatti presentata quale attività di purificazione svolta dall’uomo su un liquido naturale impuro che diversamente risulterebbe inutilizzabile[14]. Il carburante, così come lo si impiega nei motori di combustione, non esiste in natura. In natura è dato disporre del greggio, una sostanza spuria intercettata dalle trivelle, costituita da componenti liquide e gassose. È una complessa ed impattante procedura chimica che si svolge nelle centrali di idrodesolforizzazione[15] e la successiva e definitiva lavorazione condotta nelle raffinerie, a trasformare una sostanza ibrida -impura appunto- in un prezioso propellente energetico, segnando il passaggio da uno stato di natura ad uno di cultura.

Che cosa ha lasciato intravedere l’“era petrolifera”, quando furono resi produttivi tra Ottocento e Novecento i primi campi estrattivi e disposti i congegni meccanici capaci di impiegarne al meglio le potenzialità, se non la possibilità da parte dell’uomo di estendere a dismisura il controllo sull’ambiente, generando idee di velocità, forza e potenza mai accarezzate prima in quei termini?[16] È evidente, dunque, quanto la modernità occidentale abbia trovato nel petrolio il suo motore ideologico, capace di assicurare alla sua impalcatura culturale il sostegno concettuale.

A differenza delle elaborazioni culturali che hanno accompagnato le attività estrattive sin dal loro apparire, oggi la società occidentale ha smesso di intravedere nel petrolio unicamente una sostanza vitale. Se il petrolio ha incarnato la modernità e l’idea dello sviluppo unilineare, di un progresso illimitato affidato alla scienza ed alla tecnologia, oggi rappresenta un suo rigurgito, l’onda lunga di una postmodernità che si annuncia nei suoi tratti catastrofici e quasi irreversibili generati dall’uso eccessivo di carburanti fossili, ritenuti responsabili dell’innalzamento della temperatura del pianeta [Mazzilli 2005; De Biasi 2005; Maugeri 2006; Bolognetti 2011, 2016; Dommarco 2012].

Nel quadro di tali argomentazioni che fanno del petrolio, come si è già accennato, uno straordinario produttore simbolico, è proprio verso i processi di simbolizzazione [Alliegro 2013)] che sarà doveroso ripiegarsi, ovvero su quei meccanismi che portano ad associare specifici significati condivisi culturalmente e fissati storicamente, a determinate cose, che ne sarebbero “naturalmente” prive, all’interno di giochi di potere più o meno coercitivi.

Politiche e poetiche filopetrolifere

In Basilicata, per dare corpo al disegno tracciato dall'industria estrattiva, il potere politico si è servito di strategie retoriche, di vere e proprie narrazioni affabulatrici, aventi il compito di dimostrare che la strada petrolifera lasciata intravedere all'orizzonte dal potere economico fosse "cosa buona e giusta". Nel fare ciò, così come una ricca documentazione incentrata sugli interventi svolti direttamente in Consiglio e in Giunta Regionale mostra[17], si è messo mano al gergo sviluppista e all'armamentario teorico-concettuale disposto dalle discipline che si sono occupate di sviluppo locale [De Rita e Bonomi 1998; Trigilia 2005; Donolo 2007; Moroni 2007], declinato nelle seguenti dimensioni: a. sviluppo autopropulsivo, b. sviluppo partecipato, c. sviluppo ecosostenibile.

Al netto di ulteriori precisazioni è possibile asserire che l'espressione "sviluppo autopropulsivo" sia stata attivata in quanto capace di rimandare all'idea di un territorio messo in grado di recuperare il gap che lo separa da realtà più progredite (più sviluppate), servendosi di risorse endogene capaci a loro volta di generare meccanismi esemplari di modernizzazione.

Strettamente connessa all'idea dello sviluppo autopropulsivo è quella di uno "sviluppo partecipato", con la quale si è inteso respingere l'accusa che si sia trattato di una scelta imposta dall'esterno dai poteri forti, accettata e mediata, all'interno, da pochi, e subita da tanti.

Di grande impatto emotivo, inoltre, la locuzione "sviluppo sostenibile". Questa, nelle sue varianti di sviluppo "equilibrato" ed "ecocompatibile", è stata agitata come una sorta di frase apotropaica capace quasi magicamente di assicurare la convivenza tra le diverse risorse locali e per attestare la possibilità dell'uso razionale di una risorsa endogena presentata come "naturale" ed irrinunciabile.

In tale quadro generale, l'orizzonte politico lucano risulta solcato pressoché quotidianamente da simbolizzazioni da intendersi quali strategie politiche di controllo semantico messe in campo per fissare le coordinate di decodifica del petrolio[18]. A quale universo semantico il petrolio rinvia? Per il potere politico "petrolio" significa -deve significare- energia, lavoro, ricchezza, opportunità. Si tratta, in questo caso, di riduzione consapevole della complessità e di accorta azione di controllo dell’immaginario incentrate su un processo di simbolizzazione il cui fulcro è costituito da un dispositivo altamente evocativo che ruota intorno all’idea di sviluppo.

Ed è proprio dalla definizione di questa equazione -petrolio uguale sviluppo- che hanno preso corpo almeno due direttrici interpretative, dalle evidenti ripercussioni identizzanti, facenti leva la prima sul concetto di onore, la seconda su quello di colpa, le quali, diversamente miscelate, sono state impiegate dai diversi attori sociali e politici: «Non ci siamo fatti sottrarre il petrolio, lo abbiamo ceduto in cambio di risorse economiche, le royalties, da impiegare per lo sviluppo locale. Noi non abbiamo nessuna colpa, abbiamo servito la Patria difendendo allo stesso tempo le comunità lucane»[19].

Onore e colpa, quindi, attraversano le narrazioni mitopoietiche usate per mappare un campo in cui si lasciano scorgere meriti e demeriti, nel quadro di dinamiche di de-responsabilizzazione. Infatti l'industria petrolifera, basatasi su modalità comportamentali complesse che si articolano in una serie di strategie mistificatore[20] (cfr. fig. n. 1) ha prodotto nuovi linguaggi politici posti alla base di inedite modalità di auto-rappresentazione identitaria, che hanno coinvolto la relazione non soltanto all’interno dei territori ma anche tra questi con la Regione e lo Stato. Ed è proprio su questo fronte che si è registrata una strategia retorica risultata molto efficace per superare le resistenze locali; questa strategia, infatti, si è basata sulla bozza del seguente sillogismo: l'Eni è lo Stato; noi siamo lo Stato, servire l'Eni è servire lo Stato, quindi noi stessi. Da qui una serie di narrazioni volte a fare leva sull'appartenenza e la patria, su sentimenti nazionalistici mobilitati per contrastare spinte di gestione regionalistica delle risorse, o di netta opposizione al loro sfruttamento.

Figura 1. La strategia mistificatoria delle multinazionali

Scienceland: i saperi dai volti cangianti

Il discorso filopetrolifereo, del tutto rassicurante, svolto dalle pubbliche amministrazioni mentre l'attività estrattiva concorre a ridisegnare alcuni assetti economici e politici e ad alimentare numerosi eventi di microconflittualità locale che hanno fortemente eroso il senso di solidarietà nelle comunità e tra le municipalità locali[21], non è stato l’unico ad accompagnare in Basilicata le attività estrattive [Alliegro 2014a]. Da queste, infatti, si sono originati processi simbolici volti a connotare diversamente il petrolio, a farne il perno di un discorso pubblico generatore di timore e di angoscia, preludio di disastri ecologici e di disaggregazioni sociali e culturali. Quale potrà mai essere la peggiore delle sciagure che possa vivere un popolo, se non quella di restare inerme innanzi al proprio annientamento culturale [Bolognetti 2011, 2016; Dommarco 2012]? Come barbari insaziabili assetati di oro e di ricchezza, le compagnie petrolifere sono state rappresentate alla stregua del nemico acerrimo, dell'estraneo che osa calpestare impunemente la terra gloriosa dei padri. Ed ecco tratteggiarsi nei documenti di comitati civici e di associazioni ambientaliste, l'ecatombe identitaria in cui l'orgoglio dei lucani risulta calpestato da avidi conquistatori spinti dalla bramosia del possesso, dove l'avere scalza l'essere, dove il tempo del profitto incalza quello del rispetto, dove la simbiosi uomo-ambiente sembra disfarsi per farsi sacrilegio del creato.

La violenta penetrazione di corpi estranei, pensati come lesivi dell'autonomia locale, non sarebbe tuttavia stata possibile senza la servile postura assunta dai gruppi dirigenti locali. Tale conclusione prelude all'emergere di giudizi molto severi sulla popolazione: sia quella dirigente, colpevole di collusione e di corruzione, e sia quella estranea ai fatti, ritenuta tuttavia attendista oppure integrata, fatalista oppure rassegnata, accusata di un silenzio-assenso innanzi ad una realtà tratteggiata comodamente come inamovibile, per certi versi "naturalizzata", in preda all'essere agiti da, di demartiniana memoria.

In tale quadro di forte critica interna mossa da taluni verso talaltri appartenenti alla medesima comunità, non mancano ulteriori elementi che hanno fortemente minato il senso di coesione socio-culturale. In molti studi sui conflitti territoriali i ricercatori si sono soffermati sulla componente che anima il conflitto, ovvero su quelle dimensioni che si autoevidenziano con azioni di esplicita opposizione. Tale posizionamento degli studiosi ha inevitabilmente condotto verso la messa in ombra di quelle istanze che invece si collocano, non sempre apertamente, su posizioni antitetiche rispetto a quelle movimentiste, e che sostengono invece le ragioni del si[22]. La ricerca di campo svolta in Basilicata, secondo l’esigenza volta a superare questa sorta di “strabismo percettivo”, ha messo in risalto secondo quali modalità si articola il conflitto nelle comunità locali. A tale riguardo può essere utile riferire delle argomentazioni critiche che i favorevoli all’industria petrolifera muovono ai contrari, le quali includono l’accusa di un doppio irrazionalismo. Quando gli oppositori non si attivano per finalità di natura politica, lo farebbero perché la loro condotta è fortemente intrisa di “irrazionalismo allarmante” che deforma appositamente sia la percezione del passato che le visioni di futuro. La realtà sarebbe volutamente distorta da parte degli oppositori per legittimare un catastrofismo ingiustificato che insiste sia sulla diagnosi che sulla prognosi.

Non è, dunque, un “tutt’uno indistinto” a muoversi nello scacchiere locale contro le multinazionali. Non è una comunità coesa che l’analisi antropologica restituisce quando la sua prospettiva di studio non si fa troppo, unidirezionalmente, prospettica, a partire, talvolta, da un posizionamento troppo selettivo. Piuttosto, a caratterizzare le comunità locali, è un fronte diviso, fatto anche di contraddizioni e di frizioni più o meno velate. Ad ogni modo, se ritorniamo alle narrazioni mitopoietiche dei poteri forti, tese a tracciare gli orizzonti di uno sviluppo possibile ed immaginato, queste sono state osteggiate da visioni apocalittiche lasciate intravedere dai comitati di protesta che hanno rubato la scena ai partiti politici intanto insabbiatisi e del tutto assenti dall’agone conflittuale.

Come si è organizzata la lotta, con quali apparati linguistici si è estrinsecata, con il corredo di quali saperi si è inteso respingere l'industria estrattiva, impunemente definita dal Ministero, “di coltivazione”?

A partire dalla mediazione di saperi colti, gli interventi svolti nei territori per contrastare le trivelle sembrano saldarsi intorno a quattro nuclei disciplinari: 1. quello medico-epidemiologico, 2. quello geologico-naturalistico, 3. quello agronomico-economicista, 4. infine quello giuridico e socio-politico. É questo un ulteriore prodotto dell'industria estrattiva: aver disegnato un paesaggio altamente scientizzato, un ambito spaziale resosi estremamente recettivo di saperi colti. Se si procede con una sorta di modellizzazione, su cui si ritornerà più avanti, è possibile asserire che il campo sia contrassegnato dalla presenza molto invasiva della “scienza di Stato” e dalla “scienza aziendale”. A questo livello “alto” e “colto” di certificazione della realtà si contrappone la scienza di prossimità. In quest’ultimo caso si tratta del sapere diffuso da medici, geologi, avvocati, biologi, agronomi che vivono nei diversi insediamenti interessati dalle estrazioni, e che hanno assunto un ruolo di mediazione culturale. Nell’area queste figure si sono rese promotrici di un processo di alfabetizzazione scientista che nel divulgare il lessico della chimica, della medicina, del diritto, ecc., ha finito con generare una presa di distanza dai sistemi endogeni di registrazione del disagio. Il corpo, capace di cogliere gli impatti (visivi, olfattivi, acustici) secondo attitudini incorporate che seguono il paradigma intimista [Le Breton 2007; Plessner 2008; Marazzi 2010] sembra quasi relegato al silenzio laddove nel campo irrompono i linguaggi dell'approccio positivista che intende basarsi su dati oggettivamente misurabili nell'ottica della biomedicina con l’ausilio di una specifica dotazione tecnologica [Lyotard 1981]. Ad emergere, pertanto, è un modello di sincretismo cognitivo [Alliegro 2014], incardinato intorno ad ordini di discorso i quali oscillano tra autoritarismi plurimi di accertamento del malessere e di definizione della salute che hanno incrinato alcuni presupposti autoctoni, quali quelli della bontà dei sistemi corporali per la valutazione dello stato di salute di uomini e territori.

Per cogliere tale tensione tra sistemi diversificati di accertamento del disagio è interessante riportare quanto riferisce una persona che vive vicino al Cova:

Io mi chiamo […] e abito vicino al centro olio, sono vent’anni, voi non potete immaginare il disagio che c’è. La notte, a me non serve la luce, ho i doppi infissi, ma con tutto questo, entra la luce e io sento rumore fortissimo e non si riesce neppure a dormire. Non dico le bugie, dico la verità. Non si può vivere più. La puzza è intensa di giorno e di notte. Io quando apro le finestre per far cambiare aria alla casa, voi mi dovete credere, non entra l’aria pulita, l’aria sporca, la richiudo. E sento dentro casa la puzza. Vivo con la puzza, mangio con la puzza. Qualche giorno fa c’è stato un boato fortissimo, io ero nel giardino, stavo cucendo, mio marito era dentro, guardava la tv, sembrava un terremoto terribile, mi dovete credere, io non dico le bugie, dico la verità. Io quando sono scesa in campagna, non c’era niente, c’era un piazzale vuoto. Avevano iniziato a fare il centro olio, ma noi cittadini non sapevamo a cosa andavamo incontro. Adesso lo vediamo. Io vi dico state attenti che il lavoro che promettono non c’è, c’è la mala salute. Lì ci sono donne, uomini, che si ammalano, muoiono, lasciano i figli, la moglie, i mariti. Mi dovete credere, mi dovete credere, non è solo lavoro quello che danno. Danno guai. Mi dovete credere. Io la mattina metto sul gas la macchinetta del caffè, la macchinetta trema. Le vibrazioni nella mia casa ci sono sempre di continuo. Altro che terremoto. Non è che tengo una reggia, tengo una piccola casa, ma per me è una reggia. Ditemi voi, a che cosa potete andare incontro. Sapete a quanti metri io abito dal centro olio, forse, non voglio dire, un 300 o 400 metri, forse neppure. Io dal mio balcone, io vedo la fiamma alta, e ti fa terrore, ti fa mettere paura. E la puzza non è una cosa bella. Loro la chiamano odore. Ma è puzza, no odore. Per loro è odore ma non è odore. Giramento di testa, affogamento di gola, bruciore degli occhi e vomito. Ve lo garantisco io. Sono venuta stasera qua per testimoniare quello che io passo vicino al centro olio, che voi non lo potete immaginare. State attenti, e vedete cosa dovete fare, la mia è disperazione, vera e propria. Grazie e buona sera a tutti [in Alliegro 2014a, 311].

Nella dichiarazione corrono più volte le espressioni “è la verità”, “mi dovete credere”. Esse fanno emergere l’esistenza di un conflitto prodotto dalla presenza di due modelli enunciativi che inquadrano diversamente i discorsi sulla salute e l’ambiente: da una parte quello “intimista” che poggia sulle esperienze personali, su un corpo che si fa percettore di squilibri, quindi recettore di odori, rumori, tremori anomali; dall’altra quello “positivista” che si nutre di prove oggettive esterne all’individuo. La persona è sempre più convinta che la sua sia una testimonianza contestabile, perché troppo intima e soggettiva, maturata al di fuori della logica dell’accertamento strumentale. Perché accade questo? Perché si diffida del proprio corpo e dei propri saperi? L’informatrice, come altre persone del posto, è ormai socializzata ai codici della verità imposti dai linguaggi colti e si è lasciata persuadere che le esperienze soggettive, sebbene profonde, necessitino di prove assolute che sono al di fuori degli individui. In bilico tra percezione corporale e certificazione oggettiva, la sua voce si alza in un orizzonte opaco dominato da linguaggi che non padroneggia (H2S, CO2, idrocarburi policiclici aromatici, polveri sottili, ecc.), che creano incertezza ed inquietudine. Linguaggi imposti dalla scienza ufficiale indirizzata a monopolizzare i discorsi pubblici sulla salute, linguaggi colti che in realtà si ritrovano a coesistere con i discorsi dei “senza scienza” in una configurazione di evidente sincretismo cognitivo che attraversa i mondi vitali.

Una proposta interpretativa: intorno alla denormalizzazione e alla crisi identitaria

Alla luce di tali considerazioni è dato ritenere che la popolazione esposta all’attività estrattiva si sia trovata tra due fuochi: da una parte investita dai proclami rassicuranti messi in piedi dai poteri che sostengono l’industria petrolifera e, dall’altra, dalle denunce di crisi apocalittica disposte da alcuni cittadini e soprattutto da comitati ed associazioni. Da questo punto di vista risulta chiaro come l'industria degli idrocarburi in Basilicata abbia assunto il ruolo di enorme “catalizzatore identitario”, andando a sollecitare nelle comunità locali un processo riflessivo che si è dipanato lungo direttrici multiple, per poi convergere verso una rivisitazione del senso di appartenenza in cui la definizione del noi è stata incorporata in una lettura più vasta, dove il noi si è ritrovato a dover interagire in un orizzonte inedito costituito da patrie locali messe in connessione con il potere politico (sia regionale, nazionale che europeo) e con quello economico-finanziario (ovvero con i mercati globali tratteggiati dalle multinazionali del petrolio).

Pur rifuggendo da visioni idilliache delle comunità tradizionali, le quali risultano difficilmente immuni da dinamiche di mutamento sia endogeno che esogeno, così come da fattori di destabilizzazione ampiamente noti agli antropologi, si può ritenere che l'attività petrolifera sia stata vissuta in termini di sospensione e di rottura di una certa “normalità culturalizzata”, ovvero come azione di velocizzazione del mutamento innescato da un inarrestabile dispositivo entropico che trasforma, destabilizzandoli in maniera irreversibile, assetti pregressi. “Nulla è più come prima, tutto si sta velocemente alterando, tutto è fuori legge” è la sintesi con cui molte discussioni si chiudono nelle piazze e nei campi maleodoranti della Basilicata. È una quotidianità in qualche modo ordinata, una normalità codificata, una regolarità culturalizzata (non priva, s'intende, di momenti di crisi manifesta e di tensione latente) che le trivelle hanno concorso a disarticolare.

Quale proposta di lettura organica dei numerosi elementi argomentativi che costellano il fronte contestativo dei movimenti “notriv”, e che alimentano questa incisiva rilettura che coinvolge luoghi e uomini, il cui esito è la messa in piedi di un processo di identizzazione, di negoziazione della ri-definizione del sé (del noi), può essere utile l'adozione di una griglia in cui sono delineati quattro assi concettuali, a cui è dato il compito di sintetizzare una serie di istanze che attraversano l'area: 1. asse del deterioramento; 2. asse della perdita; 3. asse della sottrazione; 4. asse della violazione. Vediamoli uno ad uno.

1. asse del deterioramento: rimanda alla presa di coscienza degli impatti negativi che la petrolizzazione ha sulle componenti sia fisiche, che biologiche ed antropiche, secondo l'assunto che l'industria petrolifera comporti dei mutamenti peggiorativi di ordine strutturale che pregiudicano in maniera anche irreversibile lo stato di salute degli uomini, della società e degli ambienti (si pensi, ad esempio, alla percezione di un’aria malsana, un’aria ormai “sporca”, e alla problematica che attiene le falde acquifere e il ciclo delle acque sia superficiali che di profondità);

2. asse della perdita: rinvia all'insorgere di uno stato di percezione di pericolo e di minaccia costante, di stato di allerta quasi permanente, che a seguito della petrolizzazione incombe sulla sicurezza di uomini e ambienti (Civita e Colella 2015), (si pensi al pericolo avvertito di esplosione degli impianti, di emissioni fuggitive, di eventi sismici che potrebbero innescare un meccanismo a catena, una sorta di effetto domino, ecc.);

3. asse della sottrazione: è la presa d'atto che l'alterazione petrolifera implichi non soltanto detrazione di salute (di uomini e territori) e di sicurezza, ma anche di valori estetici (paesaggio) e sociali (quiete comunitaria), ma anche di risorse energetiche strategiche. L'industria petrolifera è vista come esempio di neocolonizzazione [Toscano 2010], come scambio ineguale, come reciprocità asimmetrica in cui a fronte di enormi guadagni da parte delle multinazionali e dello Stato centrale e della Regione, si prospettano perdite irreparabili per i territori locali, come finanche quella del futuro;

4. asse della violazione: rimanda alla consapevolezza dell'inosservanza da parte del comparto estrattivo di codici plurimi, sia quelli valoriali-culturali che richiamano l'onorabilità, la dignità, il rispetto, ecc., e sia quelli giuridici, civili e penali, che rinviano alla legalità ed alla costituzionalità (si pensi al sospetto che molte leggi non siano state rispettate e che molti enti non abbiano esercitato i dovuti controlli).

Questi quattro elementi, “deterioramento”, “perdita”, “sottrazione” e “violazione”, da intendere quali indicatori della “sospensione della normalità” come prima enunciata, sono accompagnati da un dilagante senso di sfiducia e da una profonda consapevolezza di illegalità e di ingiustizia. Essi si sono affermati e si sono diffusi in maniera non uniforme nello spazio sociale, secondo percorsi generativi dissimili, intrecciandosi tra di loro per dare vita a configurazioni che si presentano non soltanto come ibride e sincretiche, ma anche mutevoli e dinamiche, in cui le varie componenti risultano diversamente associate nei diversi individui, gruppi sociali e professionali, in ragione a pratiche e ad aspettative sociali ed economiche, ad apparati ideologici ed emotivi, a sistemi normativi, valoriali e cognitivi.

“Deterioramento”, “perdita”, “sottrazione” e “violazione” non si presentano quindi come categorie statiche che i diversi attori impiegano secondo procedure standardizzate, semmai sono da intendersi quali scatole performative che vengono ad assumere contenuti che oscillano in base ad elementi multipli, in cui risulta determinante l'impiego dei saperi colti. In relazione al ruolo esercitato da quest'ultima dimensione, quella cognitiva, la quale già lascia scorgere il processo che è dato definire di “scientizzazione del conflitto”, ciascun asse potrà oscillare tra i due estremi di una coppia di concetti in cui il primo elemento rimanda ad una lettura più intima mentre il secondo ad una più razionalista. Oscillazioni che avvengono tra poli che è dato definire dell'accertamento del disagio di natura “intimista” piuttosto che “positivista”, secondo ulteriori declinazioni riportate nella seguente tabella:

SOSPENSIONE DELLA NORMALITÀ polo intimista polo positivista esito

asse del deterioramento

rotturadanno1. area impoverita

asse della perdita

minacciarischio2. area insicura

asse della sottrazione

furtoespropriazione3. area saccheggiata

asse della violazione

offesasopruso

4. area umiliata

(illegale)

Per rendere più chiari gli effetti della scientizzazione può essere utile procedere con esempi relativi ai quattro assi individuati, in cui il polo positivista richiama la diffusione di un sistema di misurazione delle anomalie sempre più basato sull'impiego dei saperi colti, che disegna l'area, come si è già visto, in termini di “scienceland”:

1. asse del deterioramento: il conflitto è stato (ed è tuttora) registrato ed espresso a partire dalla propria dotazione sensoriale e dalla propria esperienza. Le seguenti espressioni raccolte sul campo, frutto della prolungata ricerca etnografica, lo evidenziano: "c'è molta puzza, non si può respirare", "c'è molto rumore, non si può più vivere", "la notte è fatta per risposare, adesso non è più possibile", "la fiamma nerastra e i boati sembrano un terremoto", "l'olio e il vino non si vendono più”. Quando sulla scena irrompono i saperi colti (al netto, naturalmente, degli evidenti sincretismi concettuali ed espressivi di cui si è già dato conto), il “deterioramento” è espresso non più come rottura generica di equilibri ma come danno accertato ed accertabile, reso con un nuovo linguaggio, quello della chimica (valori anomali di SO2; sforamento delle polveri sottili; ecc.), della fisica (aumento dell’inquinamento acustico registrato con appositi strumenti per risalire ai decibel), dell'idrogeologia (compromissione delle aree di ricarico degli acquiferi e delle falde), dell'economia (mortalità aziendale nel settore primario causato dall’industria petrolifera).

2. asse della perdita: con la progressiva scientizzazione si è passati da un'idea di minaccia non ben precisata, espressa con la frase "potremo morire tutti di tumore", "le estrazioni possono produrre terremoti", a quella più circostanziata in cui la medicina e l'epidemiologia evidenziano agenti patogeni e popolazioni esposte, i geologi indicano il rischio della microsismicità indotta, gli ingegneri la fragilità impiantistica.

3. asse della sottrazione: se in una prima fase si è affermata l'idea del furto di salute (“l’unica cosa buona che avevamo, la salute, ce l’hanno portata via”), di sicurezza e di risorse, nel quadro di un territorio saccheggiato di ogni bene, in cui "hanno rubato il petrolio senza creare lavoro", in cui "hanno preso tutto senza lasciare in cambio nulla", si è poi passati al concetto dell'espropriazione. Sulla scia di analisi di economia, è stato respinto il modello dello sviluppo sostenibile, mentre alla luce del diritto internazionale è stato duramente criticato il sistema di indennizzo e di compensazione ambientale basato su royalties ritenute ormai troppo basse (10%) rispetto a quelle di altri paesi (50%).

4. asse della violazione: l'azione delle istituzioni politiche e delle multinazionali è stata rappresentata quale esempio di offesa della dignità dei luoghi e della loro onorabilità: "sono loro ormai che decidono tutto", "Eni ricordati che sei ospite", "non siamo più i padroni della nostra valle", “dovete imparare a rispettare i lucani”, “qui alcuni fanno quello che vogliono”, “non ci sono controlli”. Con l'avvento di esperti di diritto, finanche di costituzionalisti, è stato assunto come parametro di valutazione non soltanto il mancato allineamento ai codici giuridici, il mancato rispetto del principio di precauzione, ma si è insistito sull'usurpazione di sovranità imposta dalla rivisitazione del titolo V della Costituzione, che espelle dai processi decisionali in materia di V.I.S. (Valutazione d’Impatto Ambientale) e di A.I.A. (Autorizzazione Integrata Ambientale) le comunità locali, contravvenendo al principio di leale collaborazione quando si tratta di materia concorrente tra Stato e Regione[23].

Verità, dubbi e insicurezza: tra appaesamento e apocalisse

“Deterioramento”, “perdita”, “sottrazione” e “violazione”, diversamente declinati secondo direttrici intimiste o positiviste, hanno dato vita a configurazioni ibride, frutto di dinamiche di aggregazione e di disaggregazione di saperi pluridisciplinari combinati con istanze che attengono codici culturalizzati di registrazione del disagio. Quali sono gli esiti di tutto ciò? Quali gli elementi costitutivi di questo intreccio molto fitto di istanze diverse presenti nei territori locali? Sotto la spinta di specifici apparati cognitivi disposti dai saperi colti, i quali si sono intrecciati con un precipuo codice culturale che ha dettato concezioni particolari delle risorse locali e dell'onorabilità, discese da un legame molto intimo con l'area di appartenenza, non di natura solo cognitiva, ma affettiva, il territorio è stato fatto oggetto di profondi processi di rilettura dell'identità, sempre più percepita in termini di realtà (in cui domina uno stato d’eccezione): 1. “rotta” e “danneggiata” (quindi impoverita); 2. “minacciata” e a “rischio” (quindi insicura): 3. “derubata” ed “espropriata” (quindi saccheggiata); 4. offesa e disonorata (quindi umiliata e “delegalizzata”). Da qui poi il dipanarsi di diverse reazioni che non riescono, se non minimamente, a rispondere al bisogno di rassicurazione e di normalizzazione: una risolutiva, rappresentata dalla fuga, dall'abbandono, dall'emigrazione, reazione molto rara, poiché le persone continuano a vivere nei luoghi che essi stessi definiscono contaminati; l'altra di natura adattiva e resiliente, di “sopravvivenza indotta”. Quest’ultima ha preso la strada: a. del silenzio attendista; b. dell'accettazione-integrazione; c. infine della lotta, dell'opposizione. Secondo questo itinerario interpretativo, pertanto, lo stesso conflitto esploso in loco può essere assunto quale esemplificazione di una strategia resiliente ed adattiva, non sovversiva.

Il conflitto lucano, dunque, originatosi dalla petrolizzazione, è il prodotto di tale rivisitazione identitaria scaturita dall'intreccio di istanze di più natura. Un conflitto definibile pluridimensionale, poiché la patina scientista che riveste l'azione di molti “comitatini” non ha in realtà cancellato un substrato più profondo in cui è di scena una relazione non mercificata con la terra, le radici, l'appartenenza. Ulteriori distinzioni possono essere fatte per evitare un approccio destorificante che amalgami ed accorpi ciò che invece merita di essere distinto. A tale riguardo è il caso di precisare che oggi tra i partecipanti che attivamente alimentano l’opposizione non vi sono soltanto quelli che hanno preso consapevolezza di un territorio: 1. tossico e 2. ad alto rischio, quindi bisognoso di azioni di bonifica e di mitigazione, ma anche quanti sono persuasi della gravità di un territorio 3. vandalizzato e 4. disonorato. Se nei primi due casi nella protesta è possibile cogliere un “movente pragmatico”, negli ultimi due è identitario, volto a salvaguardare non le matrici ambientali ma gli ancoraggi culturali che ruotano intorno all’onore e alla dignità. Dunque, se nei primi due casi l’azione sociale è riconducibile allo slogan documentato dalla ricerca di campo “lotto per proteggere la salute e i luoghi”, negli ultimi due di scena vi è l’espressione “lotto per salvaguardare l’onore e la dignità”. Tuttavia, ed è questo uno dei dati emergenti dalla ricerca etnografica, i conflitti sono sempre più giocati in un'arena ad altissimo tasso di uso dei saperi colti, che hanno relegato in una sfera quasi privata, clandestina, le altre dimensioni di accertamento del disagio, naturalmente del tutto estromesse dalle procedure ufficiali autorizzative. Un'arena in cui visioni differenziate dei processi estrattivi vengono elaborate da expertise e contro expertise, ovvero da agenzie di costruzione del sapere molto diverse, che a volte si intrecciano altre volte si fronteggiano. La ricerca di campo ha consentito inoltre di isolare almeno cinque “emittenti cognitive”, intendendo con questa espressione non enti o istituti pubblici istituzionalmente dediti alla produzione della conoscenza, ma apparati di diversa natura, capaci di svolgere nel contesto di riferimento un evidente ruolo di agency. I territori lucani interessati dalla petrolizzazione risultano attraversati (è qui il caso di ritornare in forma sintetica su alcuni aspetti già esposti in precedenza) da: 1. “scienziati senza scienza”, ovvero coloro i quali si affidano al loro corpo inteso come organismo plurisensoriale di registrazione delle alterazioni; 2. “scienziati di prossimità”, studiosi e professionisti del posto fautori della scientizzazione della protesta che ha determinato una pervicace e capillare sensibilizzazione delle popolazioni locali al credo cartesiano, al verbo scientista; 3. “scienziati accademici”, ricercatori e docenti scesi in campo per attestare, “scientificamente”, danni, rischi, espropriazioni e soprusi diversamente percepiti dai primi e soltanto postulati dai secondi.

A questo fronte avverso al disegno petrolifero ha prontamente reagito il potere politico e quello economico-finanziario che hanno messo in campo gli “scienziati di stato” che operano in istituti pubblici (come Arpa, Iss, Ingv ecc.,) gli unici aventi la possibilità di rilasciare report certificati, e gli “scienziati aziendali”, periti di parte. Tale “ingorgo scientista” ha creato un cortocircuito, in cui dominano dubbi e perplessità: il territorio, avido divoratore di certezze assolute, si è ritrovato in una condizione di verità sospese, in un regime di incertezza cognitiva, tipico della scienza postnormale, in attesa che la “scienza giudiziaria”, quella disposta dalle Procure, possa pronunciare l'ultima parola.

L'industria petrolifera, dunque, si è imposta nel territorio servendosi di una strategia mistificatoria volta a nascondere la propria identità, secondo un modello coercitivo ed autoreferenziale, alimentato dal postulato dell'autosufficienza, senza alcun tipo di relazione esterna. Non ha mai dovuto adattarsi al territorio. Mai, sinora, ha rinunciato ai suoi programmi, mai si è fatta vettore di azioni economiche, di progetti sociali o culturali, al netto di qualche infima sponsorizzazione. La legge della termodinamica che postula lo scambio energetico tra corpi risulta sospesa. Non di scambio si è trattato ma di imposizione unilaterale di logiche produttiviste che hanno relegato le diverse componenti territoriali a variabili superficiali di disturbo. Trasferite agli enti competenti le royalties del 10%, le multinazionali si sono sentite con la coscienza pulita, quindi autorizzate a badare unicamente ai propri interessi, assecondando sempre più volentieri politiche di neocentralismo regionale che di fatto hanno tolto ai territori locali, in cui i pozzi estrattivi insistono, ogni tipo di potere contrattuale e di autodifesa. E quando le comunità periferiche hanno richiesto l'adozione di leggi più severe sulle emissioni, l'adozione di studi epidemiologici (tuttora del tutto assenti)[24], l'implementazione della rete di monitoraggio posta in essere con oltre dieci anni di ritardo[25], il potere politico (anticipando il governo nazionale delle larghe intese) si è compattato intorno alle posizioni di quello economico, spinto da una forza centrifuga che, al centro, ha unito ed amalgamato poteri ed interessi, una forza, di fatto, divenuta in periferia forza centripeta che ha disgregato e polverizzato le realtà locali.

Quale spazio residuo di manovra per le comunità locali? Quale autonomia di governo del territorio in una realtà eterodiretta, resa dipendente, resa incapace di diversamente pensarsi, attraversata da dinamiche di conflitto generate proprio dal sistema di compensazione economica, le cosiddette royalties? La risposta a queste domande è la seguente: pressoché nessuno. Semmai soltanto margini di azione nel campo del territorio simbolico, in quello del controllo dell'immaginario, con tentativi di ancoraggio e di contenimento dell'estensione semantica a cui i processi rinviano.

In altri termini, l'industria estrattiva, vinta la battaglia sul fronte del presidio dello spazio, ha lasciato agli attori locali soltanto la possibilità di discorrere, più o meno consapevolmente, intenzionalmente e retoricamente, circa il bene e il male, circa percorsi di sviluppo ricondotti a forze ingestibili pensate se non come espressione dell'ineluttabilità del destino, ovvero quale esito di assetti economici dominati dalla forza di capitali multinazionali che muovono il mondo intero, di cui ci si percepisce ora vittima ora beneficiari. L'industria petrolifera, con i suoi tentacoli gettati a molte migliaia di metri sotto la superficie terrestre, certifica con il suo esserci la verità della massima di Eraclito, per cui il liquido salvifico, o malefico, sebbene avvolto da rumori di fondo, continua imperterrito a scorrere verso la raffineria di Taranto e i mercati del mondo, facendosi dispositivo congiungente ma non unificante di realtà spaziali (Basilicata-Puglia-Mondo) e di realtà temporali (tempi preistorici, quelli degli idrocarburi, e tempi moderni, quelli dei motori, e quelli postmoderni, del dominio dei mercati finanziari).

Identità e identizzazione: alcune ipotesi conclusive

Le considerazioni sin qui svolte, a partire dall’analisi di un caso specifico che ha visto agire in un’area interna del Mezzogiorno, all’insegna dei dettami di un neoliberismo che spadroneggia ormai su scala planetaria, potenti multinazionali del petrolio, consentono di svolgere riflessioni multiple e su piani diversificati. Tra le varie prospettive interpretative che concretamente si dischiudono si intende qui seguire quella che concerne la relazione tra ambiente di vita e appaesamento-spaesamento culturale.

Una vasta letteratura pluridisciplinare ha evidenziato come le comunità umane svolgano secondo modalità diversificate quel delicato ma inconsapevole processo di addomesticamento culturale che porta a fare di uno spazio fisico non soltanto un luogo, un territorio, un paesaggio, ma il proprio luogo, il proprio territorio, il proprio paesaggio [Lai 2001; Turri 2008; Papa 2012]. Il “mondo vitale”, ovvero ciò che è vissuto come un dato di fatto imprescindibile, una sorta di punto di partenza in cui l’esistenza si svolge, in realtà è l’esito di un processo culturale che si serve di apparati cognitivi, normativi e valoriali, di pratiche comportamentali e rituali, di costruzioni simboliche collettivamente agite ed emendate, tese a fondare gli elementi della domesticità. Gli “spazi vivibili” sono incessantemente costruiti, culturalmente connotati, storicamente situati. Sono essi che garantiscono l’esistenza in quanto si strutturano come palcoscenico per l’esserci. Cosa succede quando i contesti ecologici, in cui le forme di vita si articolano, subiscono dei forti mutamenti, sino ad essere considerati impoveriti, insicuri, derubati e umiliati? Come si risponde alla crisi delle certezze che innervano le configurazioni identizzanti e che lasciano scorgere i profili di un orizzonte apocalittico ? [de Martino 1977]

I territori petrolizzati sono territori di crisi, in cui la parola crisi copre un’estensione semantica davvero ragguardevole. “Crisi”, come si è inteso asserire nel presente lavoro, significa crisi dei modelli scientifici positivisti di accertamento delle anomalie ambientali, ovvero crisi dei nessi monocausali [Vineis 1990] e degli apparati a partire dai quali l’occidente ha inteso leggere la realtà; crisi dei sistemi corporali di lettura dell’anormalità, sia di quella sanitaria che di quella ambientale; crisi del modello di Stato “super partes” garante dell’equilibrio dei diversi attori; crisi dei sistemi tradizionali di rappresentanza politica, ovvero eclissi totale dei partiti politici sostituiti dall’insorgere di movimenti, comitati e gruppi spontanei che hanno trovato anche nella visibilità digitale un importante fattore di crescita.

Secondo la prospettiva di studio qui adottata, la parola “crisi” rimanda anche all’idea di un sistema socio-culturale, interrelazionale e normativo-valoriale, i cui contenuti se non proprio rigettati risultano quanto meno relativizzati. La complessa fenomenologia della crisi, qui tratteggiata soltanto in alcuni suoi termini costitutivi, prelude verso la costituzione di un regime di incertezza identitaria, che apre la strada verso un dilagante senso di sfiducia, dominato da una complessa sindrome, prima definita di “sospensione della normalità” culturalizzata, che implica la perdita di competenza e di controllo indigeno sui territori di riferimento.

Gli spazi fisici che hanno fatto da quinta silenziosa alle esistenze cessano di restare sullo sfondo: essi avanzano, escono dal buio in cui i processi di reificazione e di ipostatizzazione li avevano relegati, lasciandosi improvvisamente cogliere nella loro insopprimibile funzione vitale. Le aree di crisi ambientale sono quelle in cui la sospensione della normalità offre allo sguardo quei meccanismi latenti che silenziosamente garantiscono la tenuta dei vincoli e delle ragioni identizzanti, base della domesticità.

I motori silenziosi che costituiscono il presupposto dell’esserci, che modellano gli spazi per l’azione edificante dell’uomo, che consentono la messa in campo delle diverse forme di appaesamento, nei luoghi di crisi (crisi qui intesa, è sempre più chiaro, nelle sue dimensioni ecologiche ma anche culturali, sociali e morali, ovvero identitarie) smettono di restare in filigrana per assumere tratti sempre più chiari. Il “luogo”, dunque, e le sue diverse componenti, si offre sempre più denudato alla percezione delle comunità, nella sua preziosa funzione di “habitus” socio-culturale che funge da cornice imprescindibile per i processi di identificazione e di territorializzazione. In questa fase di presa di coscienza, quindi, di messa in discussione di alcuni meccanismi, il luogo sembra farsi non luogo [Augè 1993] mentre la mente locale si apre alla lobotomia [La Cecla 2007], allo spaesamento, sino alla crisi della presenza [de Martino 1948]. É in questa cornice che prendono forma dinamiche di ri-appaesamento che le comunità locali attivano per un loro ri-posizionamento negli scenari più ampi di cui apprendono di essere parte.

Quando i luoghi generano angoscia mediante l’azione di simboli e simbolizzazioni che producono disaffezioni e disancoraggi (l’acqua nera contaminata; il vino e l’olio che restano invenduti; le zolle di terra macchiate di idrocarburi putrescenti; i pesci moribondi che galleggiano nel lago), ecco aprirsi per le comunità un denso, silenzioso, lavorio di risemantizzazione con identizzazioni pregresse che si intrecciano a nuove identizzazioni, ovvero ad azioni di ri-definizione del noi, dove il noi rimanda alle relazioni complesse tra uomini e territori.

Secondo questa ipotesi interpretativa i luoghi della crisi ambientale sono quelli in cui è presente una promiscuità percettiva, una sorta di polarizzazione semantica che oscilla tra poli anche antitetici in cui il campo è costituito da elementi che della realtà restituiscono simbolizzazioni contrastanti, secondo dinamiche cangianti che tengono conto di conoscenze e sensibilità diversificate, di reti relazionali e di pratiche professionali multiple. Alla luce delle proprie risorse cognitive, sociali e culturali, le comunità nelle aree di crisi sono chiamate a pensare consapevolmente alle forme che l’esistenza ha assunto e ai margini operativi che in essi si danno. Nei (non)luoghi di crisi, se una identizzazione si avvia al tramonto, una nuova già si coglie all’orizzonte nei suoi tratti promiscui e inevitabilmente sincretici. Il tutto naturalmente in ambiti spaziali attraversati da dinamiche di potere, di dominio e di egemonia politica, economica e culturale volte al controllo dello spazio fisico quanto di quello immaginifico, di cui le identità si nutrono.

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[1] Cfr. Corriere della Sera del 13-07-2014.

[2] In effetti da alcuni anni l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica nazionale è fortemente richiamata dai conflitti che hanno luogo nelle regioni del nord Italia, specie in relazione ai lavori della rete ferroviaria Tav, i quali hanno attirato numerosi studiosi di scienze sociali, tra cui: Aime 2016, Senaldi 2016, Ghiroli 2017.

[3] Per una lettura critica del fenomeno Nymby cfr. Zeppetella e Bobbio 1999; Avallone 2011.

[4] I dati ufficiali relativi alle concessioni estrattive sono presenti nelle pubblicazioni del Ministero dello Sviluppo Economico, in particolare nei Rapporti Annuali relativi alle attività estrattive, a cura dell’Ufficio Minerario Nazionale.

[5] Il Ministero competente è il MISE (Ministero per lo sviluppo economico), cfr.www.mise.it. Nel rapporto annuale 2016, relativo al 2015, il totale dei pozzi estrattivi in Basilicata ammonta a 35, di cui 24 ad olio e 11 a gas, i quali coprono, rispettivamente, il 70% e il 22% della produzione totale nazionale, che equivale a meno del 10% del fabbisogno nazionale.

[6] La superficie interessata è di 660,15 Km2. Titolari della concessione risultano per il 60% Eni e per il 40% Shell.

[7] É in corso una procedura penale avviata dalla Procura di Potenza nel maggio del 2016 che vede coinvolti dirigenti e tecnici dell’Eni, oltre che amministratori locali e dirigenti aziendali, la quale è approdata il 18 aprile 2017 al rinvio a giudizio per 47 imputati e dieci società, tra cui l’Eni (cfr. L. Amato, Rinviati a giudizio in 47 per l’inchiesta Eni-Tempa Rossa, “Il Quotidiano del Sud. Edizione della Basilicata”, 19 aprile 2017, p. 8). Tra i capi d’imputazione spicca l’accusa di alterazione dei dati del monitoraggio sulle emissioni atmosferiche della centrale Cova e sulla contraffazione dei codici dei rifiuti speciali. Mentre è in corso la revisione finale del presente lavoro si apprende della sospensione delle attività petrolifere disposta dalla Regione Basilicata con Delibera di Giunta Regionale n. 322 del 15-04-2017. In questo caso si tratta di un provvedimento amministrativo varato a fronte della fuoriuscita di ingenti quantitativi di petrolio dai mega serbatoi dell’impianto Cova, sprovvisti, tranne uno, di una doppia camicia di protezione. Tali fuoriuscite incontrollate hanno contaminato vaste aree limitrofe per le quali è al vaglio un apposito piano di caratterizzazione e di bonifica. Per arginare tale problema e prevenire il rischio di contagio il Comune di Grumento Nova in data 16-04-2017 ha emesso l’ordinanza Sindacale n. 2652 “Incidente Centro Olio Eni” in cui è stato disposto il “divieto di uso per qualsiasi scopo (pascolo, coltivazione, raccolta foraggio/frutti, raccolta funghi, cerca tartufi e altro del terreno agricolo ubicato in contrada Campestrini”.

[8] L’interramento degli oleodotti ha dato vita in superficie ad un diritto di servitù che impedisce ai legittimi proprietari l’edificabilità dei suoli. Complessivamente, dunque, molti sono gli ettari di fatto asserviti alle compagnie petrolifere.

[9] Rispetto alle ricadute occupazionali è sorto un dibattitto tra le aziende petrolifere, le organizzazioni sindacali e le istituzioni locali, al cui centro vi è il confronto sui criteri di misurazione impiegati, i quali producono esiti diversi. Su questi aspetti e, più in generale, sull’impatto del settore petrolifero sull’economia, si veda lo studio attento ed approfondito di Davide Bubbico (Bubbico 2016).

[10] Nel 2015 le compagnie petrolifere hanno corrisposto oltre 160 milioni di euro alla Regione Basilicata e circa 27 milioni di euro ai Comuni, cfr. Ministero dello Sviluppo Economico, Report 2016.

[11] Per una dettagliata ricostruzione storica dei processi di industrializzazione petrolifera cfr. Alliegro 2014a, in cui si fa riferimento ad un’”ampolla” di petrolio lucano collocata in una vetrina dell’Esposizione Universale di Parigi di fine Ottocento.

[12] La città di Matera è stata designata per l’anno 2019 Capitale Europea della Cultura. Secondo alcuni comitati che contestano le compagnie petrolifere, ciò sarebbe il prodotto di una “pressione” politica esercitata proprio per tacitare i territori oggetto di vessazioni ecologiche e per equilibrare gli scompensi di immagine.

[13] L’agronomo Terenzio Bove, in un attento studio sulla Basilicata e la provincia di Potenza, ha mostrato come la superficie complessiva coltivata abbia subito proprio in Valle dell’Agri una significativa riduzione, cfr. Bove 2015.

[14] I concetti di puro e di impuro sono qui impiegati nell’accezione fornita da Mary Douglas (1993). Pertinenti, inoltre, le note di Norbert Elias (1998).

[15] In un documento ufficiale delle compagnie petrolifere l’intero ciclo estrattivo e le funzioni del Cova sono stati descritti come segue: «Il greggio arriva dai pozzi ad un sistema di collettori per poi essere inviato al processo; questo, effettuato sulle quattro linee di trattamento Val d’Agri e sulla linea Monte Alpi, si basa sulla separazione trifase del greggio estratto in acqua, gas e olio greggio […]. In sintesi il processo è il seguente: l’olio all’uscita dei separatori è prima inviato alle colonne di stabilizzazione (strippaggio ovvero degasaggio) e poi stoccato in serbatoi a tetto galleggiante in attesa della spedizione in raffineria mediante oleodotto. Il gas di media e bassa pressione associato all’olio, separato all’ingresso in centrale e contenente idrogeno solforato (H2S), è convogliato ed inviato agli impianti di addolcimento (desolforazione) da cui si ottiene gas dolce. L’idrogeno solforato e l’anidride carbonica sono assorbiti mediante soluzione di Metildietanolammina e si liberano durante la fase di rigenerazione della stessa per il successivo invio al sistema di recupero zolfo, che ha la scopo di trasformare l’H2S in zolfo liquido. Lo zolfo liquido è stoccato in apposito serbatoio che lo mantiene ad idonea temperatura fino alla successiva commercializzazione […]. Il gas cui è stato abbassato il punto di rugiada in acqua passa in una serie di scambiatori a recupero termico ed in uno scambiatore finale raffreddato tramite propano proveniente da un ciclo frigo che porta il punto di rugiada in idrocarburi a -12°C. Il gas, quindi, previo prelievo di un certo quantitativo per alimentare gli impianti del Centro Olio, viene compresso fino a circa 70 bar, raffreddato e, dopo aver attraversato i misuratori fiscali di portata, pressione e temperatura, viene conferito a Snam Rete Gas» (in Alliegro 2014a, 292-293).

[16] Per cogliere le aspettative connesse allo sfruttamento delle risorse energetiche maturate in varie parti del mondo tra Ottocento e Novecento cfr.: Frank 2005; Tinker Salas 2009; Obi-Rusatd 2011.

[17] Per documentare ulteriormente tale aspetto, inoltre, è utile riferire di numerosi comunicati stampa, di svariati articoli e di innumerevoli interventi a firma di politici lucani diramati mediante le pagine ufficiali dei siti web istituzionali oltre che su vari network regionali (Alliegro 2014a). Tale pervasiva azione rassicurante e di sostegno all’azione petrolifera ha assunto proporzioni ancora maggiori quando le istituzioni locali hanno cercato di avallare le richieste di aumento di produzione avanzate sistematicamente dalle compagnie petrolifere. Tale politica filopetrolifera è stata denominata dai comitati locali che si sono mobilitati per contestarla, “la politica del tutto a posto”.

[18] Uno spartiacque significativo rispetto a tale linea di pressoché totale legittimazione del comparto estrattivo è costituito dalle inchieste giudiziarie del 2016, di cui si da sommariamente conto nella nota n. 7. Tuttavia, poiché anche negli anni Novanta del Novecento il comparto petrolifero è stato investito da azioni giudiziarie, che soltanto raramente sono state oggetto di specifica rievocazione nei decenni successivi, non è da escludere che anche in questo caso il territorio non memorizzi gli eventi, oppure si dimostri incapace o mal disposto a riattualizzarli. Tale azione di perdita di memoria è anche ascrivibile alle possenti e capillari campagne comunicative delle multinazionali svolte a livello sia regionale che nazionale.

[19] Queste espressioni, così come molte altre non riportate, sono state prodotte nel quadro di una vasta attività di documentazione e di analisi svolta nel territorio lucano sin dal volgere degli anni Novanta, intensificatasi nei primi anni del Duemila e tuttora in corso.

[20] Le strategie mistificatore sono basate su: 1. occultamento programmatico (non svelare i propri piani di investimento, procedendo step by step); 2. mimetizzazione della presenza (assumere una postura molta bassa, riducendo al minimo le relazioni con l’esterno, e privilegiando quelle face to face con rappresentanti istituzionali); 3. mistificazione identitaria (lasciar credere che la propria mission coincida con lo sviluppo del territorio e il benessere locale); 4. autoritarismo cognitivo e infallibilità tecnologica (assumere che i propri tecnici-consulenti siano detentori della verità assoluta e che la propria tecnologia sia perfetta e a prova di ogni tipo di incidente); 5. ambiguità terminologica (nascondersi dietro un linguaggio specialistico che occulta la realtà); 6. ricatto occupazionale (intimare la sospensione delle attività e la chiusura dei contratti in caso di rallentamenti posti agli iter autorizzativi); 7. forzatura giuridico-amministrativa; 8. minaccia del ricatto occupazionale.

[21] Un meccanismo piuttosto subdolo che ha generato molti fenomeni di conflittualità tra le diverse municipalità sta proprio nel sistema delle Royalties, ovvero nelle rimesse finanziarie trasferite dalle compagnie petrolifere allo Stato e da questo alle regioni e ai comuni coinvolti. La legge che stabilisce i criteri di suddivisione dei fondi, che ammontano in alcuni anni a varie centinaia di milioni di euro, prevede che a beneficiare di tali trasferimenti siano soltanto i comuni in cui sono collocate le piattaforme estrattive. Ciò ha determinato delle enormi fratture tra paesi confinanti, quelli in cui vi sono, appunto, pozzi estrattivi, e quelli invece che sono attraversati soltanto dagli oleodotti. In più occasioni nei territori di riferimento vari sindaci si sono mobilitati a partire dall’idea che, come l’inquinamento, anche i proventi debbano essere divisi equamente tra i diversi insediamenti.

[22] Negli studi socio-antropologici dedicati ai conflitti, soltanto in rarissimi casi l’attenzione del ricercatore è stata indirizzata ad analizzare le ragioni di quella parte della popolazione che pur coinvolta dalle opere e dagli investimenti, non prende parte alla contestazione o addirittura la osteggia più o meno apertamente. Un interessante studio socio-psicologico è stato realizzato per comprendere i motivi di una bassa frequenza alle azioni di protesta in Campania, nell’ambito delle problematiche legate allo smaltimento dei rifiuti. A tale riguardo cfr. Scafuto e La Barbera 2016.

[23] Può non essere fuori luogo richiamare il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 il quale prevedeva, tra l’altro, la riforma del titolo V della Costituzione, secondo l’idea di centralizzare le procedure autorizzative nel campo delle infrastrutture strategiche e dell’energia. Ciò avrebbe comportato l’eliminazione di qualsiasi residuo decisionale da parte delle istituzioni locali che tuttora persiste, essendo l’energia definita dalla Costituzione vigente “materia concorrente” tra Stato e Regioni.

[24] É in corso uno studio epidemiologico denominato V.I.S. (valutazione d’impatto sanitario) finanziato direttamente dai Comuni di Viggiano e di Grumento Nova. L’esigenza di svolgere specifici controlli ambientali e sanitari è stata discussa ed approvata inizialmente dal Comune di Viggiano con apposita delibera di Consiglio Comunale (d.c.c. n. 10, del 20 febbraio 2009, “Provvedimenti per il controllo ambientale, la scurezza e la salute pubblica”). Questo provvedimento, che segna un punto di svolta nelle politiche locali di salvaguardia dell’ambiente e della salute pubblica, emendato in alcune sue parti con una successiva delibera di consiglio comunale del 30 settembre 2009 (delibera che recepiva, inoltre, quella di giunta comunale n. 191 del 19 ottobre 2007 che istituiva la “Conferenza annuale su Salute e Ambiente” rimasta tuttora del tutto disattesa), è stato successivamente reso esecutivo dall'allora consigliere di minoranza, presidente protempore della V.I.S., dott. Giambattista Mele, oggi referente lucano per Medici per l’ambiente. Attualmente la V.I.S. è ancora in fase di realizzazione, e vede protagonista con un cofinanziamento il CNR di Pisa, l’Università di Bari e altri enti di ricerca.

[25] Su queste criticità e, in particolare, sulle anomalie dei sistemi di monitoraggio delle emissioni in atmosfera del Cova, si sono soffermati in conferenze pubbliche il WWW Basilicata e Libera Basilicata, specie il dott. Vito Mazzilli e le dott.sse Camilla Nigro e Rita D’Ottavio. Un’azione capillare di controllo e di denuncia è stato assicurato inoltre dalla Ola (Organizzazione Lucana Ambientalista), oggi non più attiva, da NO Scorie Trisaia, No Triv, da Legambiemte Basilicata e da altri comitati ed associazioni, oltre che dal segretario dei Radicali Maurizio Bolognetti e da Giuseppe Di Bello. Una denuncia sull’inquinamento in prossimità del pozzo di reiniezione nel Comune di Montemurro (PZ) è venuta invece dalla prof.ssa Albina Colella. Ad attestare uno stato di diffusa precarietà le ordinanze sindacali dei Comuni di Calvello, Marsico Nuovo, Grumento Nova, Pisticci, che hanno finanche impedito l’uso delle risorse idriche locali. Una sintesi efficace delle problematiche esposte e delle azioni di contrasto è nel docufilm Maldagri, di M. Nardozza, S. Laurenzana e M. Di Palo.