Tra Scilla e Cariddi: diventare adulti in un reparto di medicina

Eugenio Zito

Università degli Studi di Napoli Federico II

Table of Contents

Premessa
Transitare verso la diabetologia dell’adulto
Tra Scilla e Cariddi: il dispositivo dell’ambulatorio congiunto e il rito della transizione
«Perché volete cacciarmi via proprio ora?». La storia di Khalid
Diventare adulti tra iniziazione e cronicità
Discussione e conclusioni
Riferimenti bibliografici

Abstract. In the article I present some anthropological reflections, with reference to ethnographic material collected on the field, the pediatric ward for the treatment of type 1 diabetes in a Neapolitan university hospital, about the transition rite of diabetic patients who had reached legal age from pediatric services to clinical units for adults. In particular the paper focuses, through the story of Khalid, a young diabetic immigrant of Moroccan origin, on the medical practice of joint outpatient clinic, drawn up to facilitate this complex passage and on the usefulness of a narrative approach to chronic disease in health settings.

Keywords. Body; chronic disease; medical anthropology; rites of passage; transition

Premessa

Navigammo addolorati intanto

Per l’angusto sentier: Scilla da un lato,

Dall’altro era l’orribile Cariddi,

Che del mare inghiottia l’onde spumose.

Sempre che rigettavale, siccome

Caldaja in molto rilucente foco,

Mormorava bollendo; e i larghi sprazzi,

Che andavan sino al cielo, in vetta d’ambo

Gli scogli ricadevano. Ma quando

I salsi flutti ringhiottiva, tutta

Commoveasi di dentro, ed alla rupe

Terribilmente rimbombava intorno,

E, l’onda il seno aprendo, un’azzurrigna

Sabbia parea nell’imo fondo: verdi

Le guance di paura a tutti io scôrsi […].

(Omero, Odissea, Libro XII, v. 307-321)

La mia esperienza con persone diabetiche e in particolare con la complessa questione assistenziale della transizione dei giovani divenuti maggiorenni verso i servizi diabetologici per adulti comincia nel 2006 con un incarico di psicologo clinico presso il Centro di Riferimento Regionale di Diabetologia Pediatrica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli, nell’ambito di un programma più ampio teso all’umanizzazione delle cure, cui ho affiancato una parallela attività di ricerca come antropologo. Le considerazioni[1] riportate nelle pagine che seguono sono infatti parte di un più ampio corpus di dati da me raccolti sul campo, tale contesto sanitario, con una metodologia antropologica applicata all’analisi dell’esperienza di vivere una malattia cronica come il diabete mellito di tipo 1[2]. In merito alla metodologia di ricerca adottata [Pavanello 2010; Signorelli 2011, 2015], è bene precisare subito che la raccolta dati con interviste e narrazioni di malattia si pone all’interno di un esteso processo di osservazione partecipante, continua per la specifica circostanza di una presenza ininterrotta nel reparto di diabetologia nel mio ruolo di operatore clinico oltre che di antropologo ricercatore. Ciò ha consentito, attraverso un’interrelazione quotidiana con i miei informatori e quindi per mezzo di un’immersione nei processi di cura, un vertice di conoscenza privilegiato intorno alle loro relazioni, rappresentazioni e pratiche, pur consapevole del dibattito in merito alla possibilità di conciliare ruolo clinico nell’istituzione sanitaria e funzione di ricerca nell’ambito dell’antropologia [Comelles 2002]. In merito a questo punto c’è da sottolineare che proprio il ruolo clinico può consentire alla parte ricercatore di lavorare con più tranquillità, senza sperimentare quel senso di intrusione ed estraneità che talvolta può rendere molto difficoltosa la pratica dell’osservazione partecipante, la raccolta di interviste e/o narrazioni nella ricerca antropologica [van der Gest e Finkler 2004] o più in generale una piena immersione compartecipata [Faeta 2011] nella vita quotidiana di un reparto ospedaliero con le relative interazioni. D’altro canto sempre Comelles fa notare come in passato, più che ora, la conoscenza da parte del medico/clinico dei suoi pazienti e delle loro malattie avveniva attraverso un’esperienza di osservazione e relazione caratterizzata da complesse transazioni [Comelles 1998, 2002], molto simile a quella che possiamo definire osservazione partecipante [Pavanello 2010].

La finalità di questa ricerca sul diabete è stata quella di esplorare più in profondità, a partire da una prospettiva fenomenologica, l’esperienza della malattia, il significato dell’essere diabetici, per ricostruire anche, in qualche modo, frammenti della “vita culturale” dell’ospedale intorno alla cronicità e alla sua cura, come nella circostanza della transizione dei pazienti dagli ambulatori pediatrici a quelli dell’adulto di cui si parlerà specificamente in quest’articolo. D’altro canto lo studio antropologico su salute, malattia e medicina in un definito contesto [Good 1995] ci offre un significativo spaccato per la comprensione delle relazioni tra individui, società e cultura [Zaman 2013]. Infatti la biomedicina e il luogo in cui essa prende forma, l’ospedale, riflettono strettamente i valori e le credenze di una determinata cultura e rinforzano i processi sociali e culturali dominanti delle rispettive società di appartenenza [van der Gest e Finkler 2004]. Per tale ragione l’ospedale costituisce, al giorno d’oggi, uno stimolante oggetto di ricerca antropologica per analizzare la biomedicina [Zito 2015] nelle sue interconnessioni sociali, economiche e culturali con una determinata società [Fortin 2013; Long et al. 2008]. Gli ospedali, non cloni identici di un modello biomedico globale, assumono piuttosto forme diverse in differenti culture e società [van der Gest e Finkler 2004]. In particolare nelle pagine che seguono si rifletterà anche, nella prospettiva dell’antropologia medica[3] e con riferimento a un preciso segmento dell’assistenza diabetologica, costituita dalla transizione dei pazienti dagli ambulatori pediatrici a quelli per gli adulti, sull’esperienza vissuta della malattia cronica come ferita del corpo e sulle potenzialità trasformative del processo di narrazione della malattia stessa [Good 2006; Kleinman e Kleinman 2006]. Nel contributo vengono infatti proposte, a partire da una lunga esperienza etnografica in un reparto pediatrico di cura del diabete di un ospedale universitario, alcune considerazioni antropologiche sul complesso processo della transizione dalla pediatria alla medicina dell’adulto e sull’utilizzo dell’ambulatorio congiunto come dispositivo per facilitarla all’interno di un approccio narrativo al paziente. L’articolato percorso di transizione, come verrà mostrato attraverso la storia di Khalid, giovane diabetico di origini marocchine, sembra richiamare in qualche modo, da un lato, certe forme rituali che accompagnano i momenti di passaggio del ciclo di vita nelle società tradizionali [Turner 1969, 2001; Van Gennep 1981] e dall’altro, su un piano metaforico, per complessità e implicazioni emotive e simboliche, il mitico e drammatico passaggio tra Scilla e Cariddi descritto da Omero nel XII libro dell’Odissea, parzialmente riportato in epigrafe.

Transitare verso la diabetologia dell’adulto

Dall’analisi della letteratura scientifica inerente la transizione dei giovani pazienti con una malattia cronica come il diabete mellito di tipo I[4] dalle strutture pediatriche a quelle dell’adulto ci si accorge subito che relativamente pochi lavori si sono occupati di questa delicata fase dell’iter terapeutico in cui vi è un elevato rischio di dispersione sanitaria, con il conseguente incremento della probabilità di insorgenza di pericolose complicanze secondarie, anche se diversi autori raccomandano di pianificarla e monitorarla in maniera scrupolosa [Adamo et al. 2011] e le ISPAD Clinical Practice Consensus Guidelines 2014 [Sperling et al. 2014] vi dedicano un’apposita sezione. La transizione dai reparti e ambulatori pediatrici a quelli per gli adulti risulta, per i giovani pazienti, difficoltosa per tutta una serie di motivi, raggruppabili intorno a due fattori principali: ambientali ed emozionali.

Tra i fattori ambientali il più evidente è costituito dalla netta differenza esistente tra il modello di cura pediatrico e quello per gli adulti. Infatti, mentre i Servizi per i bambini cercano di coinvolgere tutta la famiglia, quelli per gli adulti utilizzano un approccio esclusivamente individuale, poiché danno per scontata una consolidata indipendenza del giovane dal supporto familiare nella gestione della malattia [Adamo et al. 2011]. L’approccio nelle strutture pediatriche pone molta enfasi sul ruolo e sul coinvolgimento della famiglia dei pazienti nella gestione delle cure. Si viene a creare un’alleanza molto stretta tra i professionisti sanitari e i genitori che, nella maggior parte dei casi, permette di condurre un efficace gioco di squadra per far fronte alla cronicità del diabete. Negli ambulatori pediatrici, durante le visite di controllo, è sempre presente un genitore; ciò, tuttavia, a volte può costituire un fattore di rischio per la mancata autogestione della patologia da parte del paziente [Weissberg-Benchell et al. 2007]. Con la transizione i ragazzi passano da uno stretto e duraturo rapporto con il proprio pediatra a quello informale e discontinuo con il diabetologo che spesso non segue nel tempo lo stesso paziente, con il risultato che questi, di volta in volta, si trova di fronte un professionista diverso [Adamo et al. 2011]. L’approccio alla cura da parte dei medici dei reparti e degli ambulatori per adulti è di tipo direttivo e formale. Frequentemente i diabetologi scoraggiano i pazienti dal venire accompagnati da un familiare, ciò al fine di assicurarsi che il soggetto eserciti le capacità cognitive necessarie per gestirsi autonomamente. Inoltre, generalmente, viene posta molta attenzione sulle competenze pratiche e cognitive possedute dai giovani, ma non altrettanta su quelle emotive, come l’abilità di creare un nuovo legame di fiducia con il medico o la capacità di elaborare la separazione dalle figure di cura precedenti. È opinione diffusa, tra i membri delle équipe sanitarie della diabetologia per gli adulti, che i giovani che vi accedono possiedano le capacità e la maturità necessarie per pianificare il proprio futuro e abbiano una lucida consapevolezza delle possibili conseguenze derivanti da un cattivo controllo metabolico [Adamo et al. 2011]. Differenti ricerche hanno dimostrato che questo non sempre corrisponde alla realtà [Anderson e Wolpert 2004]. Viner avanza la convinzione che gli adolescenti con diabete non siano seguiti nella maniera ideale né presso i Servizi per l’infanzia né presso quelli per gli adulti [Viner 1999][5]. Altri raccomandano che la transizione tra i due ambienti sia un “affare di famiglia”, intendendo con questa espressione l’utilità del coinvolgimento delle famiglie dei ragazzi in questo cambiamento e aggiungendo che, per i giovani che attraversano questa delicata fase, l’ambito della salute è solo uno dei molteplici settori della vita caratterizzati da significativi mutamenti [Schidlow e Fiel 1990]. Altri ancora ritengono che spetti ai ragazzi stabilire chi può assistere alla visita di controllo, mentre i diabetologi degli adulti affermano che escludere i genitori può aiutare i giovani ad accelerare il processo di emancipazione dalla famiglia, oltre a essere utile al fine di valutare la presenza delle capacità cognitive necessarie per autogestirsi [Visentin et al. 2006]. Sebbene in letteratura esistano diversi lavori che sottolineano l’importanza di non lasciare al caso questa delicata fase evolutiva dei pazienti con diabete, ci sono purtroppo ancora pochi studi che riportino dati oggettivi a sostegno di uno specifico modello di transizione. I risultati di un’altra ricerca mostrano come la creazione di una struttura sanitaria ponte tra le due realtà, pediatrica e adulta, sia stata significativamente apprezzata dai giovani che l’avevano sperimentata [Kipps et al. 2002]. A una simile conclusione era già giunto un altro studio condotto con adolescenti di età compresa tra i quindici e i diciotto anni che avevano fatto esperienza di una “clinica di transizione” appositamente costruita [Court 1993]. Tra i progetti di intervento più recenti va citato il “Maestro Project”, messo a punto in Canada [Van Walleghem et al. 2008)], moderno sistema di comunicazione virtuale, a metà strada tra il social network, la community e il sito internet, rivolto a utenti affetti da diabete, di età compresa tra i diciotto e i venticinque anni, che stanno affrontando il passaggio dalla pediatria alla diabetologia dell’adulto nel territorio del Manitoba.

Tra i fattori emozionali che possono complicare il processo di transizione si può annoverare la tendenza delle équipe mediche a privilegiare l’organizzazione del Servizio e delle modalità di transizione piuttosto che considerare gli aspetti emozionali connessi a queste variabili e quelli specifici del diabete in adolescenza. Favorire la dimensione cognitiva e pragmatica nella relazione con il nuovo paziente ne è un esempio. Non attribuire sufficiente importanza ai genitori che, dal canto loro, temono di essere esclusi dal processo terapeutico del figlio, ne è un altro, così come il non farsi carico delle ansie che genitori e adolescenti, approdati a un’Unità per adulti, possono sperimentare a contatto con pazienti con complicanze fisiche secondarie al diabete e con l’idea della morte. I medici stessi rischiano di affrontare il processo della transizione con difficoltà. Il pediatra, un po’ alla stregua dei genitori, teme che una volta lasciato andare il paziente possa non essere più collaborativo senza il suo aiuto. Il diabetologo dell’adulto può avere difficoltà a collegarsi con gli altri medici in possesso di altre metodologie e con un’utenza complessa da gestire dal punto di vista emozionale. Court [1993] è tra i pochi ricercatori che si sono occupati di analizzare il vissuto dei ragazzi affetti da diabete rispetto alla transizione all’interno dei diversi sistemi di cure sanitarie. Il questionario da lui somministrato ad adolescenti e giovani tra i diciassette e i ventisette anni evidenziò come questi ritenessero opportuno che la transizione avvenisse quando il paziente ha un’età compresa tra i diciassette e i venti anni; che il Servizio avesse caratteristiche quali riservatezza, confidenzialità e tempi brevi d’attesa; che i medici si ponessero come persone con le quali parlare. Anche altre ricerche evidenziano la preferenza per un passaggio di consegne graduale che si affianchi a un coinvolgimento della famiglia del giovane adulto per rendere possibile stabilire da subito un rapporto informale con il medico in un clima di collaborazione tra pediatri e diabetologi per l’adulto [Adamo et al. 2011]. Altri, oltre ad affermare la centralità di una comunicazione anticipata del passaggio e di un tempo sufficiente per poter accettare il cambiamento, al di là della raggiunta maturità psicofisica del ragazzo e della sua autonomia nella gestione della cura, ritengono molto utile che la transizione avvenga in un periodo di salute stabile e che ben si armonizzi con gli altri cambiamenti tipici dell’età[6] [Adamo et al. 2011]. Altri autori ancora, nella loro revisione critica della letteratura, individuano le seguenti criticità da affrontate al fine di poter garantire al giovane diabetico una buona transizione: valutare le aspettative del paziente sul passaggio; costruire la relazione; lavorare con i familiari e i partner affettivi; valutare l’esistenza di altre complicazioni; formulare un piano di cura e degli obiettivi concordati con il paziente [Anderson e Wolpert 2004]. Infine interessanti appaiono i risultati di uno dei pochi studi italiani sull’argomento relativo all’efficacia di un protocollo assistenziale di transizione [Vanelli et al. 2004], secondo il quale gli elementi responsabili del suo successo sarebbero: l’età dei soggetti (dopo i venti anni), la graduale preparazione al cambiamento (che ha luogo previo consenso del paziente), lo svolgimento della transizione all’interno della stessa struttura ospedaliera, il coinvolgimento dei familiari, la presentazione preliminare del diabetologo dell’adulto, la presenza del pediatra alla prima visita presso il nuovo reparto, la garanzia della presenza dello stesso medico ai successivi controlli.

Tra Scilla e Cariddi: il dispositivo dell’ambulatorio congiunto e il rito della transizione

Come visto diventare adulti in diabetologia significa innanzitutto prepararsi alla separazione dai pediatri e dal personale sanitario e quindi dal mondo che essi rappresentano, conosciuto a partire dal drammatico momento dell’esordio della malattia. A volte quest’operazione risulta molto complicata per tutta l’articolata rete di rapporti affettivi che si sono intrecciati nei diversi anni di cure, in alcuni casi veramente molti, come quando la diagnosi avviene, addirittura, nei primi mesi di vita di un bambino. Il legame sia dei ragazzi che dei genitori per i pediatri diabetologi e per il contesto frequentato durante il processo di crescita può essere molto forte, pur con qualche ambivalenza e si evidenzia in diverse circostanze, come quelle delle festività tradizionali. Il periodo che precede Natale e Pasqua, per esempio, si caratterizza, nella mia esperienza sul campo, per un andirivieni di pazienti che recano i loro doni alla responsabile del Centro e al suo staff, in segno di gratitudine, ma anche di fiducia e affetto, sentimenti e rituali duraturi negli anni. In proposito spesso ho notato, in particolare, tra gli altri, riportandolo nel mio diario di campo in tutte le circostanze in cui mi è capitato di osservarlo, un ragazzo oramai più che trentenne. Questi, periodicamente, nonostante sia già da anni seguito in un altro Centro di diabetologia dedicato a un’utenza adulta, si presenta nel reparto di pediatria in occasioni specifiche con un mazzo di fiori o altri affettuosi doni per la sua dottoressa, che molti anni prima diagnosticò e curò il suo diabete, mostrando sincere e intense manifestazioni di forte affetto e legame per lei. Questo giovane adulto non è l’unico a essere rimasto molto attaccato alla struttura pediatrica e ai suoi operatori. Altri continuano a mantenere il rapporto per anni, come possono, scrivendo e-mail per consigli alla responsabile del Centro, anche quando oramai sono andati via da molto tempo, hanno costruito una propria famiglia e la loro vita dai tempi della pediatria è decisamente cambiata. Altri ancora la contattano telefonicamente, per suggerimenti in merito alla risoluzione di qualche problemino e non necessariamente di salute. Spesso sono i genitori che, dopo il passaggio a un’altra struttura, non fidandosi dell’andamento terapeutico dei loro figli su cui in molti casi, data l’età, oramai hanno perduto qualsiasi capacità di controllo, preoccupati, ricorrono alla loro storica pediatra-diabetologa per capire come comportarsi. Penso in particolare a una coppia di genitori la cui figlia diabetica si è trasferita, già da qualche anno, in una città del Nord Italia per motivi di studio e che periodicamente contattano la responsabile del Centro per sottoporle, anche solo telefonicamente, dubbi in merito all’andamento del diabete e/o ad altre problematiche di salute intercorrenti anche banali, come se avessero bisogno, indipendentemente dalla maturità e maggiore età raggiunta dalla ragazza e dalla presenza di un valido diabetologo dell’adulto che la segue con puntualità, di un rassicurante consiglio della pediatra che per anni ha curato in modo eccellente la loro bambina divenuta oramai una studentessa universitaria di successo. Non c’è dubbio che i legami sono forti, molto forti. La malattia occorsa in un’età in cui il paziente è piuttosto piccolo rende ancora più intensi e vigorosi tali legami che, come una sorta di imprinting, si fissano, associandosi a un senso di fiducia profondo, nella mente di quei bambini - e in molti casi, come appena visto, anche dei loro genitori - improvvisamente ammalati e futuri giovani e adulti che conservano dentro di loro un’immagine positiva e affidabile della loro prima dottoressa e del Centro che li ha accolti e curati. Bowlby, ispirato anche dalle ricerche dell’etologo Konrad Lorenz, la chiama base sicura [Bowlby 1972].

Il periodo della tardo-adolescenza in diabetologia pediatrica è tuttavia proprio il tempo in cui ci si prepara istituzionalmente alla separazione. I Centri di diabetologia pediatrica per disposizioni del Servizio Sanitario Nazionale possono tenere in carico pazienti fino massimo al complimento dei diciotto anni di età[7]. Successivamente anche al Centro di Napoli ci si deve organizzare a rendere operativo, proprio per la condizione di cronicità e quindi, anche nonostante essa, il passaggio alla diabetologia dell’adulto. Nell’ambito dell’articolata attività assistenziale[8] del Centro questa è l’ultima tappa di un processo di transizione inteso come una graduale preparazione, nel biennio precedente, a passare, anche con il coinvolgimento dei genitori. In particolare, negli ultimi anni, allo scopo di facilitare entro i diciotto massimo venti anni la necessaria transizione dei pazienti verso le strutture dell’adulto, più adeguate per le esigenze di soggetti oramai cresciuti, il Centro ha allestito, nell’ambito della sua attività ambulatoriale e all’interno di un programma più ampio di umanizzazione delle cure, il dispositivo dell’ambulatorio congiunto, in collaborazione con un gruppo di diabetologi dell’adulto, tutti della medesima azienda ospedaliera. Questi ultimi si occupano prevalentemente di pazienti della fascia diciotto/trent’anni per i quali hanno attivato a loro volta un ambulatorio specifico dedicato esclusivamente a giovani adulti di tale età, dove transitano coloro che lasciano la pediatria, dopo però almeno un ambulatorio congiunto. A traghettare i giovani tra Scilla (la pediatria) e Cariddi (la diabetologia dell’adulto con lo specifico ambulatorio destinato ai diciotto-trentenni), per restare nella rappresentazione mitica di Omero, ci pensa l’originale dispositivo dell’ambulatorio congiunto, attivo con una cadenza media bimestrale, per il quale vengono raggruppati tutti i ragazzi più o meno pronti per età e maturità alla transizione, alla quale, nei tradizionali ambulatori precedenti, sono stati a poco a poco preparati, anche in termini di autonomia e assunzione di responsabilità, con conseguente incoraggiamento a una riduzione della delega ai genitori in merito alla propria cura. L’ambulatorio congiunto si configura come un’utilissima pratica medica che, nella ritualità di un processo di transizione ben strutturato, prevede una prima tappa in pediatria, la base sicura, sempre ricordando l’importante contributo di Bowlby [1972] in materia di attaccamento e perdita. Qui i giovani pazienti, alla presenza del diabetologo pediatra, incontrano per la prima volta quello dell’adulto ospite in pediatria che li prenderà definitivamente in carico appena possibile nella sua struttura disposta in un altro edificio dello stesso policlinico universitario, non prima però di aver espletato tutti insieme la seconda tappa dell’ambulatorio congiunto, che si terrà, a distanza di un paio di mesi dalla prima, sempre con lo stesso staff, questa volta proprio in diabetologia dell’adulto. In particolare durante gli ambulatori congiunti in pediatria la visita è divisa, in via del tutto eccezionale rispetto alla comune prassi ambulatoriale a cui bambini e adolescenti con diabete sono abituati nel Centro, in due fasi. La prima è svolta dai medici specializzandi in pediatria, di turno nel corso del semestre, che prendono in carico il paziente e si occupano di effettuare la visita pediatrica generale; la seconda è affidata al piccolo team dell’ambulatorio congiunto composto da almeno un diabetologo pediatra e un diabetologo dell’adulto, entrambi strutturati e più esperti, che valutano insieme l’andamento del diabete e la gestione della terapia insulinica. È in questa seconda parte che si verifica il passaggio di consegne in cui il pediatra illustra al diabetologo per l’adulto la situazione clinica del ragazzo e concorda il piano terapeutico da seguire dopo aver invitato i genitori, presenti alla prima parte della visita, ad uscire. Successivamente il diabetologo per adulti presenta al giovane la nuova struttura e i cambiamenti che il passaggio comporta, come l’approccio e la gestione della cura, concordando infine, ove possibile, l’appuntamento relativo alla seconda e conclusiva tappa dell’ambulatorio congiunto che si terrà, questa volta, come si è detto, in diabetologia dell’adulto alla presenza anche del pediatra per il saluto definitivo dopo la consegna della relazione finale recante l’intera storia clinica dall’esordio.

«Perché volete cacciarmi via proprio ora?». La storia di Khalid

Da quando nel 2010 il dispositivo dell’ambulatorio congiunto è stato allestito ed è operativo in modo continuativo presso il Centro, molti giovani sono aiutati e facilitati nel delicato processo di transizione verso gli ambulatori dell’adulto entro una fascia d’età adeguata alle loro necessità, evitando al contempo di prolungare a oltranza la loro permanenza nel reparto pediatrico non più adatto a gestire le esigenze sanitarie e di cura di pazienti divenuti oramai adulti. Così ogni due mesi circa, sei-sette ragazzi giudicati più o meno pronti, non solo per età, ma soprattutto per maturità, autonomia nella cura e atteggiamenti mentali, sono raggruppati nella giornata speciale dell’ambulatorio congiunto per avviare, in compagnia dei diabetologi dell’adulto, l’ultima delicata fase del processo di transizione a cui sono stati gradualmente preparati. Con questa organizzazione, che come vedremo sembra richiamare alcune delle caratteristiche di un rito di passaggio [Turner 1969, 2001; Van Gennep 1981], ogni anno trentacinque-quaranta giovani di fatto transitano in maniera guidata dalla pediatria, che segue in follow-up circa cinquecento pazienti in età evolutiva con una media di quaranta nuovi esordi l’anno, verso i centri per l’adulto con cui si è stabilita una rete assistenziale nel tentativo di evitare pericolosi fenomeni di dispersione sanitaria piuttosto frequenti in questa fase del ciclo di vita. Ognuno di questi giovani ha una storia e un vissuto personale molto differenti, ma soprattutto ha costruito negli anni, nella relazione con la propria famiglia e il personale sanitario pediatrico, un modo tutto suo di vivere la cronicità del diabete e la sua cura, con il suo peso e le sue difficoltà. Per alcuni di questi giovani piuttosto complesso e pieno di articolate implicazioni affettive risulta, in particolare, il rapporto con i propri genitori, come emerge, spesso in modo prepotente, proprio durante la fase di transizione. I genitori, infatti, possono avere, talvolta, grosse difficoltà a riconoscere una piena autonomia dei propri figli rispetto alla malattia e quindi a lasciarli andare, dovendo rinunciare a una funzione di cura così consolidata e strutturata dal momento drammatico della diagnosi spesso avvenuta molti anni prima e che ha condizionato profondamente le più ampie dinamiche familiari e con esse la loro profonda identità di caregiver. Per altri ragazzi, invece, i genitori sono già usciti di scena da un po’ di tempo, per varie ragioni non sempre positive e con esiti diversi come vedremo nel caso di seguito esposto.

Quando in clinica pediatrica incontro Khalid, un ragazzo marocchino originario di un paesino non lontano dalla più famosa e cosmopolita città di Marrakech, introverso e molto silenzioso, questi ha già compiuto ventuno anni ed è diabetico dall’età di quattordici anni, essendosi ammalato pochi mesi prima del suo arrivo in Italia. È alto e magro, tipo longilineo, ha fitti capelli scuri corti e un filo di barba sottile, naso dal profilo affilato su un viso lungo ma regolare su cui spiccano due grandi occhi scuri e profondi e un sorriso appena accennato e malinconico quando saluta. Già in sala di aspetto mi appare piuttosto taciturno e visibilmente introverso rispetto agli altri ragazzi convenuti per l’ambulatorio congiunto, i quali, pur non conoscendosi già da prima, se non qualcuno di loro forse solo di vista, hanno tuttavia familiarizzato velocemente, socializzando in attesa di essere chiamati per la visita in cui conosceranno per la prima volta, alla presenza dei pediatri, i loro futuri diabetologi. Questa mattina, forse per via della stagione invernale, anche se non particolarmente rigida, Khalid presenta un abbigliamento a strati piuttosto pesante, indossando un maglione a collo alto di colore beige con sopra una camicia in flanella molto spessa a quadri marrone chiaro e blu, un pantalone in velluto blu e un lungo giubbotto scuro molto voluminoso, che toglie qualche secondo dopo essersi accomodato nella stanza dell’ambulatorio troppo calda per il riscaldamento intenso. Sulla sedia accanto a lui di fronte ai diabetologi pronti a visitarlo, non essendo accompagnato da nessuno, ha poggiato insieme al giubbino e a un berretto in lana scura tolto dal capo appena è entrato nella stanza per sedersi, i fogli di carta, tutti sgualciti e macchiati, che compongono il suo diario glicemico dove ha appuntato, in modo piuttosto disordinato, molti dei valori glicemici degli ultimi tre mesi per poterne discutere con i medici. Nel corso di questo primo ambulatorio congiunto nel familiare reparto pediatrico, che osservo con molto interesse, Khalid, nel suo essere estremamente chiuso e impenetrabile, mi incuriosisce particolarmente. Dopo le presentazioni della diabetologa dell’adulto come clinico e di me come ricercatore interessato a capire meglio il vissuto dei ragazzi rispetto al diabete al momento del passaggio per aiutare i medici nel loro delicato compito, e dopo alcuni convenevoli, sollecitato dalla pediatra a esprimere i suoi sentimenti rispetto alle novità che lo attendono, prologo alla valutazione sanitaria che sta per iniziare, afferma con forza di non voler transitare, in quanto la pediatria è stato il primo posto ad accoglierlo al momento della diagnosi. È affezionato ai suoi medici e durante la visita, anche in risposta alle domande che gli vengono rivolte secondo la prassi clinica, piuttosto sommessamente parla di sé e della sua malattia in un italiano quasi perfetto se non per qualche accento fuori posto e qualche articolo in meno o non perfettamente concordato. Poi chiede a voce alta alla presenza della pediatra e della diabetologa dell’adulto: «perché volete cacciarmi via proprio ora?». Registro nel mio diario di campo le sue forti parole, in questo caso correttamente pronunciate in italiano, perché mi colpiscono molto anche sul piano emotivo per il tono intenso che le accompagna e non voglio perderne il significato. Nonostante le spiegazioni fornite dai medici sulla necessità, considerata la sua età oramai adulta, di essere seguito in un luogo più adatto alle sue esigenze di giovane uomo, il ragazzo sta cercando con tutte le sue energie di dare un senso a quanto gli sta accadendo e la sua confusione risuona precisa nell’eco di queste parole così chiare. «Perché devo andare con altri dottori se mio diabete è sempre lo stesso?» incalza più deciso che mai a difendere la sua volontà di restare dove si trova, sottolineando esplicitamente la pesantezza di una malattia cronica. Nessun cambiamento nel processo di cura sembra per lui tollerabile in questo momento, men che meno un passaggio altrove. Forse Khalid sta vivendo dentro di sé un doppio “espatrio”. Per lui transitare vuol dire non solo lasciare il mondo della pediatria, ma rientrare in contatto con la sua precedente esperienza di espatrio vissuta nel momento in cui ha dovuto lasciare il Marocco natio, probabilmente ancora troppo dolorosa per lui e di cui si sa molto poco se non che è avvenuta pochi mesi dopo il drammatico esordio della sua malattia in condizioni di coma, come riportato in cartella clinica. La diabetologa dell’adulto, sostenuta in questa circostanza con grande sintonia dalla pediatra che le è seduta accanto, avendo entrambe colto la delicatezza del momento, cerca di aiutare Khalid a trovare elementi di familiarità nel “nuovo” continente della diabetologia dell’adulto dove si sta tentando di traghettarlo, rendendolo meno estraneo e discontinuo. In proposito gli parla della presenza di un altro ragazzo di origini marocchine della sua stessa età con cui potrà confrontarsi, ma Khalid non sembra lasciarsi convincere. Resta impenetrabile, con la mimica del viso come disturbata, la fronte arricciata, gli occhi aggrottati e i pugni delle mani contratti, tutto il corpo è rigido, come a dichiarare un “NO” secco. Il linguaggio del suo corpo rinforza quello delle sue parole, come insegna la lezione della cinesica [Birdwhistell 1970], sciogliendo ogni dubbio nelle sue interlocutrici. Pediatra e diabetologa dell’adulto comprendono questo linguaggio così forte e concreto, si rendono conto che il tempo della transizione per Khalid deve essere un po’ più lungo e meno brusco. Il ragazzo non è pronto, ha bisogno di un passaggio più graduale, perché non sembra ancora in grado di separarsi con serenità dalla base sicura [Bowlby 1972] rappresentata dal mondo della pediatria. Non è ancora il momento di disporsi a un nuovo ordine della sua vita rispetto alla malattia del diabete e alla sua cura. Non è ancora pronto a incontrare i diabetologi dell’adulto nel nuovo Centro verso cui si sta tentando di traghettarlo. Perciò, in questa circostanza, i medici gli propongono un tempo maggiore per prepararsi al cambiamento e gli garantiscono la possibilità di effettuare, a distanza di due mesi, un altro ambulatorio congiunto in pediatria, così da poter familiarizzare ulteriormente, in un contesto noto e per lui sicuro, con la diabetologia dell’adulto. Al termine della visita, prima che Khalid ritorni a casa, ho la possibilità di parlare un po’ con lui da solo, in una stanza distinta da quella dell’ambulatorio. Questi ha accettato la mia proposta di dare il suo contributo e farsi intervistare[9] nell’ambito della ricerca antropologica sull’esperienza di malattia cronica che sto svolgendo in collaborazione con i diabetologi pediatri e quelli dell’adulto in merito alla possibilità di migliorare la pratica medica relativa al processo di transizione dei giovani pazienti con diabete seguiti al Centro. Dopo ulteriori indicazioni più specifiche sulle modalità e finalità della ricerca e una volta raccolto il suo consenso informato, segue qualche secondo di silenzio e imbarazzo da parte di Khalid mentre sistemo il registratore sul tavolo che ci separa. Forse prova un po’ di diffidenza nei miei confronti legata al fatto di non conoscermi ancora, poi, sollecitato con qualche domanda di carattere generale sulla sua vita quotidiana, Khalid si rilassa. Comincia a parlarmi di sé, della sua attività di carpentiere, lavoro che ha imparato dal padre scomparso da un paio di anni. «Era più vecchio di mia madre di sedici anni e già era venuto a lavorare all’Italia per qualche anno, all’inizio solo, poi con Omar, mio fratello più grande, mentre stavo a Marocco con mia madre e le mie sorelle più grandi di me Malika e Khadija», precisa mentre gli occhi si fanno visibilmente lucidi ma non esplodono in un pianto franco. «Poi è morto all’improvviso, una mattina, è stato il cuore, stavamo tutti a casa a San Marzano, solo Omar non c’era, stava a lavorare». Turbandosi in volto mi ripete che non vuole andare via in un altro reparto ospedaliero. Mi dice che non c’è bisogno, che con le dottoresse in pediatria si trova molto bene, perché ora si è abituato a loro, aggiungendo che per lui è stato difficile adattarsi a vivere in Italia, nonostante l’Italia gli sia piaciuta tanto, subito, anche il paese di San Marzano sul Sarno in provincia di Salerno dove risiede dal momento del suo arrivo e dove ha qualche amico, non solo nell’ambito della comunità marocchina locale. Così di seguito continua la sua narrazione da me registrata e di cui riporto una parte.

Però quando sono arrivato qui all’Italia è stato tutto difficile, a scuola è stato difficile, molto difficile, ero più grande di altri ragazzi e non andavo bene alla scuola, a volte mi sentivo confuso perché all’inizio non capivo sempre italiano e perché altri vivevano in modo diverso da me, […] le cose che facevo io erano diverse, i vestiti che tenevo, quello che dicevano mio padre e mia madre era diverso da quello che vedevo nelle famiglie dei miei compagni alla scuola che non sempre volevano stare con me […]. A casa mio padre e mia madre parlavano arabo e pure Omar e le mie sorelle, però io dovevo imparare italiano per la scuola e poi c’erano le regole della nostra religione e mio padre e mia madre erano molto severi e non capire e io ero curioso della vita dei miei compagni però non dovevo far dispiacere ai miei genitori e poi pensavo sempre ai cugini e amici che avevo lasciato al mio paese a Marocco e alle cose che facevamo là tutti insieme prima che partivo. Pensavo anche alla nonna, la madre di mia madre che viveva vicino a noi e che avevo lasciato quando siamo partiti ma non ho visto più e poi c’era diabete che non andava bene e io che non andavo bene con glicemie, con quello che mangiavo […]. Qui dai dottori all’inizio mi accompagnava mio padre e qualche volta, se lui non poteva, veniva Omar, e a volte i dottori si arrabbiavamo perché cose non andavano bene con diabete, si arrabbiavano un po’ anche con mio padre e lui poi a casa si arrabbiava con me e con mia madre perché diceva che io non mangiavo bene e poi per un po’ non venivamo pure per paura di dottori. Mia madre non è mai voluta venire, mi diceva che non capiva italiano, che era meglio che stava a casa a sistemare cose per noi e per cucinare, ma mia madre non ha capito bene le cose di diabete e io mi vergognavo a dire di diabete agli altri, anche a scuola agli altri ragazzi perché già mi sentivo che non ero come loro perché venivo di Marocco e poi c’era diabete […].Poi ho lasciato scuola professionale che avevo cominciato perché non studiavo bene, anche mio fratello mi ha detto che dovevo andare a lavorare come lui che già a Marocco lavorava e poi era andato a raccogliere pomodori appena arrivato all’Italia, che nostro padre era vecchio e io dovevo andare a lavorare e pensare a matrimonio […] mio fratello e mia madre mi hanno fatto conoscere mia moglie. Si chiama Ghizlane, pure lei viene di Marocco, di paese vicino a mio, ha diciannove anni, però è arrivata all’Italia, a Sarno, a sette anni […]. Dal matrimonio noi abitiamo in una casa vicino a quella di mia madre e a quella di Omar. È casa piccola ma va bene per noi, non spendere molti soldi per casa, è a piano basso e poi Ghizlane non lavora e non c’è molti soldi […]. Ma poi c’è diabete che ancora non va bene e devo stare attento, devo imparare a tenerlo meglio, me lo hanno detto dottoresse, anche oggi me lo hanno detto che così non va bene, ma con lavoro non riesco a controllarmi bene, non ho tempo di tutti controlli e di mangiare sempre bene e qualche volta pure ho dimenticato di fare insulina, solo qualche volta però, problema è quello di mangiare […]. Non voglio andare via con altri dottori perché qui sto bene e le dottoresse mi conoscono bene, sanno tante cose di me, dopo tanti anni mi conoscono bene, prima glielo ho detto non voglio andare via, non ora. Questa è la mia vita.

Prima di uscire dalla stanza per ritornare a casa, alla “sua vita”, mi stringe la mano che gli porgo e io sento tutta la ruvidezza della sua pelle e con essa il peso e la fatica del lavoro impresso sul suo corpo, mentre mi guarda con occhi intensi e uno sguardo malinconico di chi sta pensando a un nuovo doloroso addio.

Nei successivi e consecutivi due ambulatori congiunti che precedono il suo effettivo e definitivo passaggio al reparto per adulti e che ho la possibilità di osservare, si comprende ancora meglio la complessità della vicenda esistenziale di Khalid e l’origine delle difficoltà che sta vivendo rispetto alla transizione. Dopo essersi sposato piuttosto giovane secondo la tradizionale cultura del suo paese di origine nonostante la sua condizione di migrante, come mi ha raccontato la volta precedente durante il nostro incontro, ha da poco scoperto di aspettare un figlio dalla giovanissima moglie, anche lei immigrata dal Marocco. La transizione viene caricata, per lui, in questa specifica contingenza, di ulteriori elementi simbolici, poiché Khalid non deve solo affrontare il passaggio fisico da un ambulatorio all’altro con i conseguenti cambiamenti nelle relazioni di cura, ma deve anche gestire il cambio di status interno dall’essere figlio all’essere marito e padre con tutto il peso delle responsabilità che un tale passaggio può comportare, considerando inoltre l’esperienza di lutto del padre vissuta relativamente di recente. Così Khalid si esprime con i diabetologi durante la nuova visita che osservo e di cui registro una parte:

sono felice di aspettare bambino da mia moglie, ma sono preoccupato, per lavoro, se riesco con soldi, non sempre lavoro c’è e poi c’è sempre diabete che non va, che non mi controllo bene, e qualche volta sto male con glicemie, non mi sento bene a lavoro e non riesco ad aggiustarle, non capisco bene come devo fare, ho paura di glicemia troppo bassa quando mi viene e quando mi viene sto male a lavoro e non riesco a fare quello che devo fare, qualche volta mi dimentico di fare insulina perché non ho tempo oppure sto troppo stanco. Dottoressa solo qualche volta però, perché so che la devo fare sempre per non stare male come all’inizio che ho avuto coma e stavo a Marocco, ma a Ghizlane non dico niente per non farla preoccupare ora che sta aspettando bambino, anche se Ghizlane mi chiede come va diabete quasi tutti giorni, e io dico bene, non preoccupare tu di mio diabete, pensa a bambino.

Il raggiungimento di nuovi compiti evolutivi, in questo particolare momento del ciclo di vita, mostra quanto possa essere emotivamente difficile abbandonare la propria struttura medica di riferimento e aprirsi al nuovo e ciò ancora di più quando altri cambiamenti culturali e transizioni più o meno traumatiche sono già avvenute nella vita di una persona. Il pensiero va indietro nel tempo a Khalid adolescente con la sua rete di rapporti già consolidata e con le sue certezze culturali, ma con la confusione emotiva della malattia appena scoperta, che deve lasciare la terra in cui è nato e cresciuto fino a quel momento, vivendo una lacerazione nel mondo delle sue relazioni, probabilmente per un progetto migratorio deciso dalla famiglia, costretto così dalle circostanze a ricominciare tutto daccapo con il diabete che incalza in un paese nuovo in cui non conosce nessuno e di cui ancora non comprende lingua e cultura. Quanto deve averlo spaventato, in occasione del suo primo ambulatorio congiunto, l’idea di dover lasciare i pediatri che lo conoscono da quando è arrivato in Europa e fare un altro cambio! Appare chiaro che non è il semplice trasferimento fisico da un edificio all’altro a terrorizzarlo e bloccarlo, generando in lui un rifiuto secco del passaggio guidato[10]. Possiamo immaginare piuttosto che sia riattivata, nel suo vissuto, l’esperienza di migrazione dal Marocco natio all’Italia sconosciuta vissuta qualche anno prima, le sue Scilla e Cariddi, per restare ancora nella suggestione mitica di Omero.

Diventare adulti tra iniziazione e cronicità

Come mostra la storia di Khalid diventare adulti in diabetologia, e quindi transitare, significa affrontare una serie di cambiamenti del ciclo di vita come la fine della scuola, l’inizio del lavoro e/o dell’università, l’eventuale morte del padre o della madre, una nuova qualità e intensità dei rapporti affettivi, il matrimonio, la possibilità di diventare genitore mentre si è ancora, da molti punti di vista, figlio. Tutto questo va conciliato, da un lato con una nuova assunzione di responsabilità che l’età e la società impongono su tutti gli aspetti della vita e dall’altro con le esigenze che la cronicità del diabete comporta. Transitare significa separarsi. Il verbo separare deriva dal latino sepărare, composto di se-: a parte e parare: fare, approntare, e perciò vuol dire “apprestare, preparare in un altro posto”. Può significare ancora “disporsi a un nuovo corso”. La separazione non è necessariamente vuoto, assenza e vacanza (da vacuum) e quindi non implica necessariamente caos, piuttosto un ordine diverso, ma tale passaggio, anche semantico, può risultare difficile se i cambiamenti da sostenere sono tanti e si verificano tutti insieme o se, come Khalid, si è già dovuto affrontare attraverso la migrazione, non senza traumi, l’esperienza di “preparare in un altro posto”. Non a caso, tradizionalmente, le varie società hanno elaborato tutta una serie di attività rituali per facilitare, socialmente e culturalmente, i passaggi importanti del ciclo di vita all’interno dei vari gruppi umani, aiutando il singolo a dare un senso al cambiamento, anche nel rapporto con la natura non sempre controllabile e assicurando alla società stessa uno strumento utile per il mantenimento di quella coesione necessaria alla vita sociale [Turner 1969, 2001; Van Gennep 1981]. Van Gennep [1981], in particolare, ha analizzato il fenomeno dei riti di iniziazione, esempio paradigmatico della più ampia categoria dei riti di passaggio, intesi come rituali che segnano il cambiamento di un individuo da uno status socio-culturale a un altro, in corrispondenza degli avvenimenti che occorrono nel ciclo di vita della persona stessa (quali nascita, pubertà, matrimonio, malattia e morte). I riti di passaggio, nelle società tradizionali, svolgono l’importante doppia funzione di legare l’individuo al gruppo, promuovendo così un’adeguata coesione sociale necessaria al funzionamento di tutte le comunità, strutturandone al contempo la vita in tappe ben definite. In riferimento ai riti di iniziazione Van Gennep [1981] ha così descritto i tre stadi che li caratterizzano: separazione (fase pre-liminale; dove limen dal latino significa confine) in cui l’individuo viene separato dal suo abituale contesto; transizione (fase liminale), durante la quale il soggetto attraversa un passaggio simbolico, culmine della cerimonia, superando per esempio un’ardua prova; reintegrazione (fase post-liminale) in cui ritorna alla sua esistenza nel gruppo sociale, avendo però, a questo punto, acquisito un nuovo e diverso status sociale. La liminalità che caratterizza la fase di transizione di un rito di passaggio è stata analizzata anche da Turner [1969, 2001], il quale si sofferma in particolare sul peculiare cameratismo tra coloro che sperimentano tale condizione, definendo questo fenomeno communitas. Quest’ultima si configura come una modalità d’interazione sociale di sostanziale egualitarismo, fondata su un reciproco adattamento empatico e non su un sistema di regole sociali imposte. Interessante appare, oltre al suo approfondimento sulla liminalità nelle società tradizionali, anche l’introduzione del concetto di fenomeni liminoidi con riferimento invece, nelle società complesse, a una dimensione in cui avvengono le novità, la sperimentazione del diverso, l’introduzione di una nuova conoscenza del mondo, la ricombinazione libera di elementi familiari e non familiari, la produzione di uno spazio creativo - ciò in analogia anche a quanto mostrato dallo psicoanalista inglese Donald W. Winnicott [Zito 2013b] - spesso con una sovversione degli ordini costituiti dalle classificazioni e opposizioni sociali [Turner 1983]. Ovviamente è importante riconoscere che i riti di passaggio costituiscono dei potenti atti sociali finalizzati a ristabilire l’ordine in seguito a un cambiamento che è avvenuto, ricreando, in modo controllato, un nuovo status sociale. Essi al contempo sono atti performativi che consentono pure, entro definiti confini, una certa elasticità e creatività agli attori sociali coinvolti. Anche in una società complessa come la nostra e in condizioni di malattia si possono ritrovare interessanti analogie con quanto è stato descritto a proposito dei riti di passaggio. La malattia, infatti, implica una sorta di iniziazione, segna un cambio di status e l’ospedalizzazione, con la sospensione del tempo ordinario e l’allontanamento dalla vita sociale di tutti i giorni, nonché il pieno coinvolgimento della fisicità del paziente ammalato, richiama la fase liminale [Honkasalo 2001] descritta da Turner [1969, 2001] e da Van Gennep [1981], così come il rientro a casa con il nuovo status di malato cronico si presenta come una vera e propria fase di reintegrazione nella società dopo l’iniziale separazione causata dallo stato di malessere all’esordio. In questa direzione, come si può notare dal materiale etnografico appena commentato, sembrano andare anche le osservazioni da me raccolte sulla vicenda esistenziale di Khalid e più in generale sulla dimensione transizionale legata alla pratica medica dell’ambulatorio congiunto nell’ambito del più complesso processo di transizione dei pazienti diabetici dalla pediatria alla medicina dell’adulto. Infatti un giovane come Khalid che transita dalla pediatria alla diabetologia dell’adulto, attraverso l’ambulatorio congiunto con tutto l’apparato rituale prima descritto e che ruota intorno alle due principali tappe del processo di transizione tra la clinica di partenza (mondo dell’infanzia) e quella di arrivo (mondo adulto), collocate in due edifici molto distanti del medesimo policlinico universitario, sembra vivere, in qualche modo, per analogia, anche i tre momenti tipici di un rito di iniziazione come è stato appena ricordato con riferimento al lavoro di Van Gennep [1981]. La separazione o fase pre-liminale coincide con quel momento in cui il giovane diabetico, avendo raggiunto l’età del passaggio viene, previa preparazione, inserito in un gruppo di altri giovani adulti non più destinati ai normali ambulatori pediatrici e quindi di fatto fisicamente separato dagli altri bambini e ragazzi più piccoli che sono invece seguiti con la modalità dell’ambulatorio tradizionale caratterizzato inoltre da un’attiva partecipazione dei genitori. Alla separazione segue la fase liminale, o di transizione vera e propria, che si svolge durante i successivi due o più ambulatori congiunti (rispettivamente in pediatria e diabetologia dell’adulto), in cui il giovane non è più un paziente pediatrico ma non è ancora completamente un paziente adulto. Questa intermedia è una fase in cui c’è una grossa concentrazione di tutti gli attori sociali implicati (pediatri, diabetologi, infermieri, familiari) sul corpo del ragazzo e quindi un pieno coinvolgimento della sua fisicità, attraverso controlli più serrati mediante i quali, come in una sorta di prova rituale, questi deve dimostrare la sua capacità di autogestione e la sua maturità rispetto alla complessità della cura e dello stile di vita imposto dalla malattia. Si tratta di un momento molto complesso e anche difficile, poiché non sempre la prova viene superata e il drop-out del paziente che non regge il processo di transizione e si perde nel passaggio o più semplicemente si scompensa dal punto di vista metabolico ricorda il fatto che nelle società tradizionali spesso la prova di iniziazione molto dura poteva addirittura, in qualche caso non poco infrequente, concludersi con la morte dell’adolescente. Anche la distanza fisica tra le due cliniche, pediatrica e dell’adulto, seppure disposte all’interno dello stesso policlinico universitario ma collocate in due padiglioni quasi agli antipodi della collina che ospita l’intera struttura sanitaria, alimenta simbolicamente la complessità della prova, le difficoltà connesse al passaggio, la necessità di una buona dose di coraggio per affrontare l’ignoto, richiamando nuovamente i pericoli dello stretto marino tra Scilla e Cariddi dell’immagine poetica di Omero. D’altra parte questa liminale è anche una fase in cui proprio e a causa della sospensione dell’ordinario, e quindi in attesa di acquisire un nuovo status, il giovane può anche, ricombinando vecchio e nuovo dentro e fuori di sé, sperimentare un’esperienza creativa che riguarda il suo rapporto con il mondo ma anche il processo di cura e così accedere gradualmente a una nuova modalità, quasi adulta e sicuramente inedita, di fronteggiare il diabete. Relativamente a quest’ultimo punto il riferimento è all’area dei fenomeni liminoidi come approfonditi da Turner [1983] specifici delle società complesse della contemporaneità. Al tempo stesso, sempre nella fase liminale, si assiste a una progressiva scomparsa dei genitori (ove presenti) dalla scena clinica come preludio a una gestione più adulta e autonoma della propria malattia, partecipando essi solo alla prima parte della visita. Inoltre ancora in questa fase sono particolarmente evidenti fenomeni di cameratismo - communitas [Turner 1969, 2001] - tra i ragazzi che vivono insieme l’esperienza della transizione e si incontrano in sala d’attesa e prima della visita in cui conosceranno insieme ai pediatri i nuovi diabetologi, scambiano idee e si confidano, esprimendo anche dubbi e paure rispetto al cambiamento che sta per avvenire. Essi condividono così un’esperienza tanto significativa sul piano emotivo da sentirsi fortemente accomunati tra loro su quello umano dalla condizione di cronicità. Tale particolare e intensa condivisione spesso accomuna anche i genitori. Questi, avendo accompagnato i loro figli, ma partecipando solo alla prima parte della visita, come vuole il nuovo protocollo improntato al modello dell’adulto, esorcizzano così, nell’attesa della sua conclusione, le ansie e le paure connesse al passaggio dei loro figli verso il mondo adulto anche in termini di auto-cura, dimenticando talvolta il loro ruolo sociale. In quel momento, indipendentemente da affinità e differenze caratteriali e/o sociali con gli altri, sono tutti genitori più o meno emozionati per i cambiamenti in atto nella vita dei loro figli. Questo è sufficiente, proprio per l’intensità del vissuto sperimentato, a creare anche tra loro un vero e proprio spirito comunitario. Nel caso di Khalid, tuttavia, questa dimensione di communitas sembra sia stata preclusa, forse a causa del suo vissuto di migrante, degli scarti legati alle differenze culturali e del suo stile di vita molto diverso da quello degli altri ragazzi presenti, ma anche per motivi evidentemente caratteriali legati alla sua introversione, elementi che tutti insieme lo hanno tenuto, anche in sala di attesa, molto distaccato rispetto agli altri pazienti dell’ambulatorio congiunto pur essendo egli completamente solo, perché non accompagnato ne dai familiari ne da sua moglie. La mancanza nel suo caso di questa dimensione di condivisione comunitaria ha probabilmente aumentato le sue ansie di separazione rendendo più difficile tollerare il necessario e graduale allontanamento dai suoi pediatri. Infine il rito si chiude con la fase di reintegrazione, quando a conclusione dei due o più ambulatori congiunti resi necessari dalle specifiche circostanze[11] e con tutta la ritualità che li caratterizza attraverso il coinvolgimento delle due équipe mediche, avendo dimostrato di aver superato pienamente l’ardua prova dell’autonomia nel processo di cura, non solo rispetto ai pediatri ma anche ai diabetologi dell’adulto, il giovane passa definitivamente nel nuovo ambulatorio destinato a un’utenza adulta con modalità cliniche diverse da quelle pediatriche, ivi inclusa la scomparsa definitiva dei genitori dal setting clinico. A questo punto il paziente che ha superato le prove stabilite, acquisisce un nuovo status, diviene a tutti gli effetti un adulto, sul versante della gestione della sua malattia e cambia più o meno definitivamente il management del diabete, staccandosi dai pediatri e dai genitori. L’ultimo atto simbolico che sancisce la fine del rito-processo di transizione è rappresentata dalla consegna, da parte dei pediatri ai diabetologi dell’adulto, di una relazione scritta recante in versione sintetica la storia clinica del ragazzo dal momento dell’esordio della malattia. Questa rappresenta una sorta di memoria del suo passato di paziente pediatrico e al tempo stesso è un lasciapassare che segna in continuità uno spartiacque tra due mondi e consente di iniziare una nuova relazione sanitaria da adulto resa necessaria dalla condizione di cronicità. Nel caso di Khalid c’è stato il tentativo forte di prolungare il più possibile, a causa della sua complessa vicenda esistenziale e del conseguente forte attaccamento alla pediatria, la fase liminale del rito di transizione, in modo da impedire la chiusura del processo di transizione stesso con la separazione definitiva dai pediatri e quindi implicitamente dal mondo dell’adolescenza, ritardando così la conseguente piena assunzione di un ruolo adulto rispetto al processo di cura.

A questo punto si può decisamente pensare che per la tardo adolescenza in diabetologia al Centro pediatrico dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli quello appena descritto della transizione, con la sua principale materializzazione nell’innovativa e preziosa pratica medica dell’ambulatorio congiunto, si configuri come uno speciale rito di passaggio per diventare realmente adulti rispetto alla malattia cronica e alla sua cura. Attraverso questa pratica, mediante uno scambio relazionale ritualizzato e adeguatamente strutturato tra medici e giovani pazienti, diviene possibile, per i primi, congedare o accogliere i secondi, in base al vertice e, per questi ultimi, disporsi a un nuovo corso nella cura di sé.

Discussione e conclusioni

La storia di Khalid mostra chiaramente che la malattia è sempre un’esperienza culturalmente plasmata, al pari di ogni altra esperienza umana e pertanto risulta organizzata simbolicamente [Quaranta 2012]. Spesso, però, proprio quella di malattia si può caratterizzare per la difficoltà della persona sofferente di collocarsi all’interno di uno scenario che abbia un senso [Zito 2016c], così come accade a Khalid adolescente che deve integrare l’esperienza di malattia cronica con quella di migrazione dal Marocco natio all’Italia. D’altra parte, in un’ottica antropologica, l’esperienza può essere intesa come quel terreno di mediazione tra dimensioni personali e processi storico-sociali. Inoltre il corpo come prodotto storico è esposto all’influenza delle forze politiche e sociali che plasmano le vite umane. Per tutto quanto detto la narrazione relativa alla storia della propria malattia costituisce quindi un prezioso esempio del modo in cui gli esseri umani strutturano linguisticamente il loro mondo e al contempo ne ricostruiscono il senso nel rapporto con i contesti abitati [Good 2006; Kleinman e Kleinman 2006][12]. Infatti, come in particolare ha evidenziato Good [2006], la malattia non si manifesta solo al livello dell’organismo che abbiamo, ma anche al livello del corpo che siamo[13], del corpo nel mondo, in un’accezione fenomenologica. Il corpo[14], oltre ad avere un’indiscutibile natura storico-sociale, è, in questa prospettiva teorica, anche il soggetto attivo della nostra esperienza e quindi, in quanto esseri umani, più che avere un corpo, siamo corpi [Quaranta 2012]. Il corpo così concepito, inoltre, non è mero oggetto del processo di plasmazione culturale, in cui siamo completamente immersi, ma è anche e soprattutto soggetto attivo nel produrre significati culturali ed esperienze [Zito 2013a, 2015, 2016a, 2016c] e la malattia stessa emerge come una particolare tecnica del corpo [Pizza 2005]. La malattia, come ferita del corpo, implica una vera e propria frattura nel nostro esserci al mondo, compromettendo di conseguenza le radici corporee della significazione [Becker 1999; Garro 1992; Good 2006; Quaranta 2012; Scarry 1990; Toombs 2001], come bene si evidenzia negli snodi della vicenda esistenziale di Khalid. Sull’altro versante, come emerge dalla descrizione della relazione clinica di Khalid con i suoi diabetologi, prendersi cura della persona sofferente e non semplicemente curare le alterazioni a carico di organi e funzioni del suo organismo, significa riconoscere l’importanza e l’utilità, anche nel lavoro clinico, delle percezioni e delle emozioni soggettive, delle interpretazioni e delle storie personali, nonché dei significati di malattia che ciascuno, in quanto malato, vi attribuisce dal suo punto di vista [Del Vecchio Good, Good 2000]. L’antropologia medica, fin dalla sua nascita negli anni Settanta del Novecento, ha evidenziato quanto sia importante predisporre una sistematica esplorazione della prospettiva del paziente come fulcro dell’incontro clinico e come necessaria guida per potersi orientare nella relazione [Quaranta 2006]. Per fare ciò è fondamentale riconoscere una sostanziale dignità alla prospettiva del paziente, avendo contestualmente piena consapevolezza della natura culturale delle proprie pratiche biomediche e conseguire una visione della malattia più ampia rispetto a quella ridotta e parziale propria dell’impostazione biomedica. Tale diversa concezione dovrà integrare la dimensione biologica relativa all’alterazione della struttura o della funzione in cui si concretizza l’anomalia a livello dell’organo, cioè la patologia, con l’esperienza vissuta dalla persona e quindi con i significati soggettivi e la dimensione storica e sociale in cui la malattia stessa prende corpo [Pizza 2005] che, per esempio, nel caso di Khalid sono particolarmente complessi e articolati. In proposito rilevante appare la distinzione proposta da Mol e Law [2004] che, proprio ricostruendo l’esperienza del vivere una malattia cronica come il diabete, parlano di corpo-oggetto e di corpo-soggetto. Abbiamo cioè un corpo che può essere l’oggetto della pratica medica, come mostra la rilevazione del livello ematico dell’emoglobina glicosilata[15], per esempio nel caso del diabete, ma siamo anche, in quanto corpi, i soggetti attivi della nostra stessa esperienza nel mondo e come tali partecipiamo attivamente alla produzione di tutti quei significati attraverso i quali interpretiamo la realtà e conseguentemente qualifichiamo la nostra esperienza di essa [Quaranta 2012]. Un tale approccio, in grado globalmente di considerare accanto alla natura biologica della malattia le sue dimensioni storiche, culturali e sociali, per altro inseparabili, all’interno di una concezione più complessa della corporeità stessa [Leder 1990], richiede proprio di considerare attentamente emozioni, desideri, aspettative e ovviamente il contesto sociale del paziente. Un tale approccio si basa sull’utilizzo di strumenti specifici e mirati a indagare la malattia nella sua complessa realtà di esperienza esistenziale, nella cui trama poter ricercare e decodificare significati [Toombs 1992; Quaranta 1999]. Nel corso dell’attività assistenziale con persone ammalate, affiancare a quella tradizionale questa prospettiva di tipo qualitativo, significa riconoscere l’altro e il senso che questi attribuisce a ciò che gli sta accadendo. Tali elementi risultano necessari e da attivare all’interno della relazione clinica al fine di poter costruire un progetto terapeutico che sia al contempo personalizzato a partire dalle esigenze specifiche dell’altro, ma anche pienamente condiviso, come sembra essere accaduto ai diabetologi nel corso della complessa interazione con Khalid. Così la persona ammalata non è più e soltanto un oggetto passivo a cui applicare il sapere di una quasi infallibile scienza biomedica, ma è innanzitutto un soggetto attivo, anche nella sua sofferenza[16], portatore di una specifica dimensione di significato da decodificare e utilizzare come risorsa preziosissima, a più livelli, all’interno della relazione. Tale dimensione del significato, nella sua articolata complessità, intreccia al suo interno rappresentazioni, simboli ed emozioni che fanno parte integrante della storia della persona. La raccolta di narrazioni di malattia, come hanno mostrato Good [2006][17] e i Kleinman [2006][18], costituisce un’occasione ineludibile per poter ricostruire la complessa trama esistenziale del soggetto ammalato. Così intesa essa non può essere ridotta alla semplice produzione/ricezione di una storia di malattia: in quanto esperienza relazionale richiede adeguate competenze interpretative, cioè di corretta attribuzione di significato e anche adeguate capacità di rispondere sul piano narrativo, all’interno della relazione assistenziale, che nel caso dell’esperienza di Khalid è stata resa possibile da un particolare coinvolgimento dei diabetologi nel programma di umanizzazione delle cure già da tempo avviato in quel reparto. Infatti la narrazione non deve essere considerata come il prodotto del solo soggetto narrante, ma va intesa, piuttosto, come una co-costruzione caratterizzata da una grossa reciprocità tra chi racconta (nel nostro caso Khalid) e chi ascolta (i suoi diabetologi e l’antropologo). Da questo punto di vista non esiste, ovviamente, un osservatore che è in qualche modo completamente distaccato dal processo di costruzione della conoscenza che sta avvenendo, perché colui che ascolta, il medico o in generale la figura dell’operatore sanitario, o ancora l’etnografo al momento della sua ricerca, che è il soggetto conoscente sul versante del processo clinico, e il soggetto conosciuto, cioè l’ammalato, concorrono, entrambi e insieme, alla creazione del significato specifico relativo a quella stessa esperienza. L’importanza della narrazione per chi la produce consiste anche nella possibilità che essa, nel suo dispiegarsi, consente una migliore conoscenza della propria situazione, la quale, divenuta più comprensibile, potrà diventare anche più sopportabile e quindi elaborabile. Come sembra mostrare l’esperienza di Khalid, l’incontro tra clinico e paziente può divenire un’occasione di co-costruzione di significati che, nell’ambito di una co-costruzione di una narrazione, si arricchisce di elementi del mondo della vita[19] che altrimenti non sarebbero mai emersi. D’altro canto il lavoro della cultura è proprio quello di radicare la presenza in un mondo dotato di senso [Quaranta e Ricca 2012]. Se la malattia è quell’esperienza in grado di minare la nostra abituale e inconsapevole capacità di collocarci in termini significativi nel mondo, essa implica anche la possibilità di un processo di reintegrazione e di produzione di significato, mediante cui poter essere soggetti attivi nel mondo [Quaranta 2012]. La relazione di cura può facilitare tutto ciò attraverso una reale alleanza terapeutica, quando, come operatori sanitari, si è impegnati nel comune processo di co-costruzione di significati per l’esperienza di malattia. Alla luce di questo processo la persona conquista la sua capacità di esserci come soggetto attivo nel mondo, pur nel terremoto esistenziale della malattia che lo aggredisce. Essa, nel caso di Khalid, come si è evidenziato precedentemente, appare ancora più complicata dal complesso intreccio con le vicende migratorie e culturali della sua famiglia. Infine, attraverso le parole e il vissuto di Khalid, appare più chiara anche la natura della malattia, definita in chiave culturale, come una realtà sintetica che incorpora, nell’immediatezza dell’esperienza vissuta, oltre alle ben note dimensioni individuali legate al livello organico, rapporti simbolici, processi sociali e dinamiche economiche e politiche [Quaranta 2001; Pizza 2005].

In conclusione questa esperienza sembra suggerire che il valore di una ricerca etnografica radicata nel contesto ospedaliero consiste nella possibilità di restituire la complessità della vita relazionale e culturale dell’ospedale, specchio della società e cultura di appartenenza, pur nella sua potenziale conflittualità, evitando di dare rilevanza in un rapporto di contrapposizione politica ai pazienti e familiari contro i medici o gli amministratori, e promuovendo possibilmente un modello che sia realmente collaborativo tra i vari attori sociali coinvolti, come accade nella delicata fase esistenziale di passaggio vissuta da Khalid. Appare chiaro che grazie al suo approccio intrinsecamente critico, attento ai significati culturali, ai contesti e alle relazioni sociali, l’antropologia può certamente accrescere più in generale le capacità conoscitive e operative della medicina, specificamente all’interno della complessità delle società contemporanee [Lupo 2014; Seppilli 2014], aiutando a co-costruire quei necessari ponti di senso in grado di rendere meno spaventosi gli inevitabili cambiamenti connessi allo stare al mondo.

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[1] Questo articolo è stato inviato alla redazione di EtnoAntropologia nel mese di settembre 2016.

[2] È una malattia cronica che colpisce prevalentemente la popolazione al di sotto dei trent’anni e prevede la distruzione autoimmune delle beta cellule pancreatiche produttrici di insulina, con insulino-deficienza e relativi problemi di equilibrio glicemico. Tale malattia rappresenta, per le sue complicanze, uno dei maggiori problemi sanitari dei paesi economicamente più sviluppati e la sua prevalenza in continuo aumento, ha indotto, negli ultimi anni, a considerarla una vera e propria epidemia mondiale.

[3] L’antropologia medica ha sempre mostrato una grande attenzione verso il ruolo dei processi socio-culturali nei contesti di cura, oltrepassando l’idea di una pertinenza delle variabili culturali solo quando si affrontano problemi di natura mentale, oppure si ha a che fare con pazienti stranieri, mostrando piuttosto che il pensiero e le categorie diagnostico-terapeutiche della biomedicina non sono libere da connotazioni culturali [Quaranta 2012]. Per approfondimenti in merito alla nascita e allo sviluppo dell’antropologia medica si rimanda all’antologia curata da Quaranta [2006].

[4] Tale patologia insorge più frequentemente nel periodo compreso tra la seconda infanzia e l’adolescenza, soprattutto intorno agli otto/nove anni di età e nella pubertà. Il suo esordio è rapido e ingravescente. La terapia, finalizzata a consentire l’utilizzazione del glucosio nel modo più appropriato durante le ventiquattro ore, è imperniata sull’insulina, la dieta e l’esercizio fisico. Il buon controllo della malattia diabetica dipende dall’equilibrio tra i fattori che abbassano il valore della glicemia (insulina e attività fisica) e quelli che lo innalzano (pasti ed emozioni) [Zito et al. 2012].

[5] In particolare questi ritiene che nei primi gli operatori possono presentare resistenze nel riconoscere la crescente indipendenza del soggetto da loro seguito, mentre nei secondi vi è scarsissima attenzione per la storia evolutiva del paziente e per la sua situazione familiare [Viner 1999].

[6] Infatti il transitare tra i due sistemi di cura in un periodo di adeguato controllo metabolico e di “buona salute” permette ai medici di stabilire gli standard a cui puntare dal punto di vista sanitario, ma anche di evitare che i ragazzi e i loro genitori attribuiscano l’instabilità e il cattivo andamento del diabete alla transizione.

[7] I pediatri di famiglia, invece, lasciano normalmente i loro pazienti già a quattordici massimo sedici anni, con un’estensione speciale di questi ulteriori due anni per necessità contingenti.

[8] L’attività assistenziale del Centro risulta così schematicamente organizzata: 1) un primo ricovero ospedaliero, della durata variabile di una/due settimane, rivolto a tutti i bambini e adolescenti che hanno appena ricevuto diagnosi di diabete, per trattare le iniziali condizioni cliniche, per individuare un appropriato piano di insulinoterapia e per fornire un’educazione alimentare e di autocontrollo; 2) eventuali successivi ricoveri in caso di scompenso glico-metabolico; 3) follow-up attraverso visite ambulatoriali trimestrali e day-hospital annuali con valutazione della crescita e dello stato di salute generale, del controllo metabolico e con screening delle complicanze legate al diabete e/o di eventuali patologie a esso associate.

[9] L’intervista cui si fa riferimento, svolta nel gennaio 2010, è iniziata strumentalmente come semi-strutturata, prevedendo alcune domande di carattere generale sulla sua attuale condizione, anche in termini clinici, di gestione della malattia e di rapporto con l’équipe medica e sulla sua più ampia vicenda personale di giovane adulto, ma con l’obiettivo di stimolare, come pure è accaduto, una vera e propria narrazione più libera di cui nel testo si è riportato uno stralcio. Come si può notare tale narrazione ha toccato non solo la sua esperienza di malattia, ma anche aspetti significativi della sua più ampia vicenda biografica con particolare attenzione alla collocazione in essa del diabete e della sua cura e all’intreccio tra malattia, relazioni e vicenda migratoria.

[10] Ho recentemente saputo dalla diabetologa che ha preso in carico Khalid dal giorno del suo effettivo passaggio al reparto per adulti avvenuto alla fine di luglio 2010, in seguito all’articolato processo di transizione descritto, che, dopo alcune difficoltà nel management del suo diabete durante il primo anno di cura, nonostante qualche assenza alle visite di controllo programmate, motivata per ragioni di lavoro (cosa che accadeva periodicamente anche in pediatria), l’andamento della sua malattia è tutto sommato discreto, il legame con i nuovi medici positivo e la sua famiglia, nel frattempo, si è allargata ulteriormente con la nascita anche di un secondo figlio, questa volta una bambina.

[11] Nel caso di Khalid, come si è già accennato, si sono resi necessari tre ambulatori congiunti in pediatria e uno in diabetologia dell’adulto con cadenza bimestrale e svolti tra gennaio e luglio 2010, prima di sancire in modo definitivo il passaggio, avvenuto poco dopo la nascita del piccolo Ahmed, il suo primo figlio. Per tale motivo si è scelto di raccontare proprio questa esperienza, in particolare per la notevole complessità di piani e livelli implicati nella sua vicenda esistenziale e clinica come si evince dal materiale etnografico presentato.

[12] Nell’ambito dell’antropologia interpretativa Good [2006] e i Kleinman [2006] hanno posto l’accento sull’importanza della dimensione culturale dei racconti relativi all’esperienza di malattia. La loro rilevanza deriva dal fatto che la malattia stessa determina nel malato un cambiamento della sua personalità e del suo modo di stare al mondo.

[13] Come esplicitamente sottolinea Good [2006], per il malato il corpo è una parte essenziale del suo sé, qualche cosa di più di un semplice oggetto fisico e della conoscenza biomedica.

[14] Prezioso nella sua originalità e radicalità è il contributo degli studi antropologici intorno al tema della corporeità oltre il dualismo cartesiano [Zito 2015, 2016b], attraverso una tradizione che comincia con le "tecniche del corpo" [Mauss 2000] e, passando per il concetto di "presenza" [De Martino 1948, 1959, 1961] e di "habitus" [Bourdieu 2003], arriva fino a quelli di "mindful body" [Sheper-Hughes e Lock 1987] e di "incorporazione" [Csordas 1990]. Tale tradizione di studi, considerando il corpo non tanto come un oggetto “naturale”, ma come un prodotto storico, cioè una costruzione culturale variabile a seconda dei diversi contesti sociali, apre la strada a nuove modalità di leggere salute, malattia e relativi processi di cura [Pizza 2005].

[15] Indica il valore glicemico medio del paziente relativo agli ultimi tre mesi precedenti la rilevazione.

[16] Si ricorda che il termine paziente deriva dal latino patior e significa colui che soffre, nel senso attivo dell’esperienza di sofferenza.

[17] Good [2006] introduce un’idea del corpo come attore dell’esperienza e propone un approccio narrativo allo studio della sofferenza. Secondo lui, attraverso le narrazioni di malattia (illness narratives), si possono cogliere sia lo specifico processo di dissoluzione del mondo vissuto di chi soffre, sia il tentativo di ricomporlo [Quaranta 2006].

[18] In particolare Arthur Kleinman con la moglie Joan si sono concentrati sull’analisi dell’esperienza intersoggettiva di sofferenza all’interno di specifici mondi morali locali, dove nulla è esclusivamente individuale, ma tutto profondamente collettivo [Kleinman e Kleinman 2006].

[19] Il concetto di “mondo” [Good 2006] rimanda alla tradizione fenomenologica di Husserl e Merleau-Ponty. Per Husserl [1965] il “mondo della vita” è il mondo delle nostre esperienze vissute, comuni, immediate che è in contrasto con il mondo oggettivo della scienza. Inoltre tale “mondo della vita”, sebbene possa essere investigato in relazione all’esperienza individuale, è intersoggettivo, sociale, culturale. L’etnografia può esplorare l’organizzazione e la costruzione dell’esperienza [Good 2006].