Immagini del matrimonio ucraino in epoca sovietica tra tradizioni locali ed impronta comunista

Tamara Mykhaylyak

Dipartimento di Scienze Sociali – Università di Napoli Federico II

Indice

I contesti e le principali caratteristiche della cerimonia nuziale nel periodo sovietico
Matrimoni ucraini: il caso di Gorodok
La rappresentazione delle nozze nelle foto di matrimonio
Bibliografia

Abstract. This paper describes the major changes that have marked the wedding rituals at the dawn of the Communist regime in Russia. During this transition, the soviet weddings have inevitably drawn from the emerging local traditions reflecting the cultural diversity of the Soviet Union at that time. With specific focus on Ukraine, this paper seeks to show how pictures, thoroughly grouped in a photographic corpus, reveal evidence of that change as well as of those mixed cultural patterns characterising the Western Ukraine families during communism.

Keywords. Wedding; photography; tradition; Soviet Union; Ukraine

I contesti e le principali caratteristiche della cerimonia nuziale nel periodo sovietico

La rivoluzione bolscevica, nella sua essenza, ha trasfigurato in modo inequivocabile il volto della Russia, dando luogo a mutamenti epocali che hanno via via contraddistinto la vita di ogni classe sociale sia dei grandi centri urbani che delle aree più remote del paese. L’ideologia comunista, nel dettaglio, spinse verso una laicizzazione della vita quotidiana di cui fece le spese la dimensione cultuale ed ecclesiastica. In tal senso uno degli obiettivi del nuovo stato sovietico fu la soppressione della religione a favore di una dottrina di stampo ateistico. «La propaganda anti religiosa – scrive Gustave Welter - divenne metodica a partire dal 1925 […] e fu allora che venne creata la Lega dei senza Dio. […] Nel 1932, poi, un decreto istituì un «piano quinquennale dell’ateismo». […] l’intero paese sacrificava volentieri i propri agi a quell’ideale di felicità universale che il Vangelo gli aveva […] fatto intravvedere e che il socialismo ora sembrava fargli toccare con mano» [Welter 1961, 530-531; 542-543; Rjasanovskij 1968: 656-657]. In questo scenario, anche il rito del matrimonio ne subì le conseguenze e non senza stravolgimenti significativi: nei primi decenni sovietici infatti, scompare quasi del tutto la cerimonia delle nozze in chiesa che si riduce per lo più ad una semplice trascrizione dei dati presso gli organi preposti, così come accadeva già per le registrazioni delle nascite e dei decessi. Ce ne offre vivida testimonianza, sul piano visivo e documentale, Dziga Vertov che nel suo celebre lungometraggio “L’uomo con la macchina da presa” del 1929 inserisce alcune sequenze che riprendono gli essenziali momenti della registrazione di un matrimonio e di un divorzio negli uffici competenti. Ovviamente anche durante i tragici eventi della “Grande Guerra Patriottica”, ovvero del secondo conflitto, come nel successivo periodo di ricostruzione, a causa delle ristrettezze economiche nessuno dava particolare importanza alla celebrazione del rito nunziale.

Foto 1. Il momento dell’accensione della fiaccola (http://jurashz.livejournal.com/5093852.html).

A partire dalla fine degli anni Cinquanta, quando il fascino della rivoluzione bolscevica e il conseguente impulso culturale che la alimentava prese a calare inesorabilmente, nell’URSS nasce il bisogno di creare nuovi riti grazie ai quali ogni cittadino sovietico avrebbe potuto stigmatizzare le tappe più significative della sua esistenza. Con Chruščev, in piena destalinizzazione, «la distensione si fece particolarmente sentire nel settore religioso. Se nella Russia zarista si erano contate circa 54.000 chiese ortodosse e se nell’anno 1939 ne esistevano solo 4225, da allora tale numero è lentamente cresciuto, tanto da raggiungere oggi le 20.000 unità. Esse sono molto frequentate, e non solo da persone vecchie. Le più belle ricevono molte cure e le loro cupole vengono rindorate» [Welter 1961, 568]. Sono gli anni in cui anche le nozze tornano ad arricchirsi di una molteplicità di usi e pratiche nell’evidente intento di riorganizzare il consenso recuperando dal passato tradizioni da celebrare nuovamente e solennemente benché in chiave laica. Così, nel novembre 1959, a Leningrado, fu inaugurato il primo Palazzo dello Sposalizio per la registrazione delle unioni civili. Tali strutture, istituite dal regime e diffuse via via nel paese, accoglievano sontuosamente le coppie che volevano unirsi in matrimonio. In ambito rurale, in mancanza di un’apposita struttura destinata all’officio del matrimonio, supplivano più modesti locali pubblici. La chiesa veniva dunque rimpiazzata dalle ampie sale di questi palazzi e la figura del prete sostituita da eleganti funzionari statali che accoglievano gli sposi in pompa magna con le note di sottofondo della marcia di Mendelssohn al posto del rintocco delle campane. Per il personale incaricato di organizzare i festeggiamenti si mise a punto inoltre uno specifico protocollo che spiegava passo dopo passo l’iter da seguire nell’allestimento e nello svolgimento della cerimonia [Orlik 1986]. In alcuni palazzi fu introdotto un braciere in cui ardeva il “fuoco di eterna gloria” dedicato, come sovente ricordava un’iscrizione posta in corrispondenza della fiamma agli “eroi caduti nella difesa della patria”: i novelli sposi vi accendevano una torcia[1], che successivamente sarebbe stata conservata dalla coppia come una reliquia, nuovamente fatta ardere durante importanti ricorrenze familiari (foto n. 1). In questa relazione tra una famiglia che nasce ed un passato di combattenti morti sui campi di battaglia da onorare debitamente, si inserisce un’altra consuetudine, quella di visitare i memoriali militari il giorno stesso del matrimonio (foto n. 2). Codesta tradizione si riallaccia a quella dei figli dei caduti in guerra che andavano a deporre fiori su lapidi e monumenti funebri per commemorare i genitori scomparsi [Gromov 2012].

Foto 2. I coniugi Kalaulin sullo sfondo del memoriale della seconda guerra mondiale a Omsk, 1984 (raccolta di Sergej Kalaulin).

Col passare del tempo le nozze diventano dunque un evento inobliabile per la maggioranza della popolazione sovietica e all’obiettivo fotografico spetta il compito di immortalare e raccontare i suoi momenti salienti. In linea di massima ricordiamo l’arrivo degli sposi nel palazzo, il momento di sottoscrizione dell’atto matrimoniale, la foto dell’officiante al cospetto dell’immancabile simbolo con falce e martello, l’uscita della coppia contornata da familiari ed amici, il ritratto dinnanzi a monumenti ed edifici storici della città, la foto accanto all’auto addobbata con nastri policromi che porterà gli sposi al rinfresco e qualche più rara immagine delle libagioni quando possibili, quando previste.

Se inizialmente la foto si propone soltanto come una sorta di registratore del rito, successivamente ne diventa essa stessa parte integrante modificandolo ed introducendo alcuni cambiamenti. Ad esempio nasce l’usanza di recarsi subito dopo la sottoscrizione dell’atto nell’atelier fotografico per una foto di gruppo: tale consuetudine diviene con il tempo una delle “stazioni” obbligatorie del rito con cui si salda in modo visivamente patente la coppia appena formatasi al più ampio consesso sociale di provenienza ed appartenenza, familiare, amicale, istituzionale, lavorativo. Altre occasioni divenute imprescindibili prevedevano che fosse il fotografo stesso ad accompagnare sposi ed ospiti in luoghi panoramici o monumentali davanti ai quali ritrarre prevalentemente la coppia. L’auspicio di una vita “moderna” e dinamica, al passo con i tempi, e parimenti di un’unione fertile è suggellata da quelle immagini che ritraggono gli sposi davanti all’auto che li ha condotti nel palazzo del matrimonio, quasi sempre una vistosa berlina tirata a lucido e, come detto, appositamente “decorata”, ma, inoltre, con la presenza di una appariscente bambola, anch’essa in abito nuziale, collocata sul cofano (foto n. 3)[2].

Foto 3. L’automobile a noleggio per gli sposi addobbata di nastri e con la bambola augurale ben in vista all’altezza del radiatore, anni Settanta. (http://www.kultu-rolog.ru/blogs/svadba-v-sssr-kak-eto-byilo/).

Rito del matrimonio e della sua relativa documentazione fotografica, quest’ultima quale rito nel rito, sempre debitamente iscritti nell’ambito di pratiche definite e controllate dal partito, ove la dimensione liturgica e “festosa” transita dall’antica cornice religiosa ad una laica ma altrettanto enfatica e coagulante, si fa efficace strumento identitario e di coesione sociale. La fotografia, oltre ad essere uno specchio della memoria, diviene oggetto di scambio, un mezzo di comunicazione tra parenti e amici che possono così ribadirsi in un hic et nunc di cui sono stati partecipi o, se lontani e non presenti al matrimonio, essere informati dell’evento mediante una condivisione “visiva” e metastorica. Ai familiari impossibilitati a intervenire allo sposalizio venivano infatti spedite le foto del matrimonio accompagnate da lettere e brevi annotazioni sul retro dell’immagine. La finalità intrinseca della fotografia in questi casi era quella di creare e rafforzare i legami all’interno dei gruppi sociali [Bojcova 2013, 71-72].

Alla luce di quanto esposto, si può ritenere che le nozze, dopo decenni di coartante oblio, sono tornate ad essere uno dei riti più amati e più frequentemente rappresentati nella vita dei cittadini sovietici pur se negli occhiuti confini previsti dalle autorità che contano sulle capacità coinvolgenti ed agglutinanti di rituale e sua documentazione.

Alla fotografia e, più nel dettaglio, all’uso di album di matrimonio il compito di sacralizzare e conservare una molteplicità di situazioni, di contesti ma pure di atmosfere destinate a farsi potente finestra rimemorativa ed emozionale su un passato in base al quale vivere ed inquadrare il presente nel segno di una rassicurante continuità “sponsorizzata” dal partito. Saltano subito all’occhio le vesti delle persone, i luoghi dell’evento, i contesti, il clima, ma ancor di più, le espressioni dei volti, i vezzi e gli atteggiamenti dei soggetti. Alcuni studiosi russi si sono soffermati ad esaminare, appunto, il lato “emotivo” della foto, come Viktor Krutkin, sociologo visuale, che in una ricerca sulle nozze in ambito rurale, tenta di indagare le reazioni che provocano le foto di un matrimonio contadino celebrato in un piccolo villaggio nella regione di Kaliningrad su osservatori interni ed esterni a quel contesto, per provenienza ed anagrafe. Più precisamente, il sociologo si è proposto di analizzare le reazioni a tali immagini sottoponendole ai partecipanti ad un forum online [Krutkin 2010]. Pur nella inevitabile eterogeneità delle valutazioni espresse in seno al forum, lo studioso mette in rilievo come i giudizi espressi siano assai frequentemente di natura emotiva: c’è chi si fa prendere dalla nostalgia, chi prova tristezza nel constatare la povertà dei contesti, chi si meraviglia della loro esistenza ancor oggi[3].

Tornando al matrimonio comunista, da noi sin qui brevemente descritto, va ovviamente ricordato come esso si connoti inevitabilmente di ulteriori e numerose tradizioni locali che rispecchiavano la molteplicità culturale dell’URSS. Ciò accade anche in Ucraina Occidentale, dove le usanze popolari si sono intrecciate con le volontà del partito e su cui qui di seguito più specificamente ci soffermiamo.

Matrimoni ucraini: il caso di Gorodok

Abbiamo avuto la possibilità di effettuare alcuni sondaggi su modelli e valori di un contesto sociale, al contempo urbano e rurale, quello della città di Gorodok con un passato complesso e tormentato[4] intorno al quale si è andato sedimentando un rapporto con le proprie tradizioni alquanto rilevante, rapporto rivisto e corretto dall’avvento del regime sovietico. In questa condizione di obbligatorio ma mai definitivo trapasso alla laicizzazione abbiamo cominciato ad analizzare lo strutturarsi di certuni fondanti istituti, tra i quali il matrimonio su cui qui di seguito specificamente ci soffermiamo.

Iniziamo descrivendo a grandi linee i preparativi del matrimonio ucraino e lo svolgimento di quello di Gorodok che presenta alcune peculiarità.

La celebrazione delle nozze in Ucraina si sostanzia in una vera e propria “performance” popolare caratterizzata da musica, balli, canti ed elementi recitativi che variavano e variano da regione a regione. A tal proposito la poetessa Marija Čumarna scrive che «le nozze sono contraddistinte da grande sacralità, ed è per questo che sin dall’antichità i riti matrimoniali in tutta l’Ucraina conservano il proprio tipico corpus simbolico, dove ogni dettaglio ha il suo rilevante peso» [Čumarna 2008, 31]. Tale evento può essere suddiviso in più fasi che qui di seguito verranno brevemente delineate nei loro aspetti peculiari[5].

Tutto aveva inizio con la proposta di matrimonio e il fidanzamento. Il futuro sposo sceglieva tra i suoi parenti ed amici i pronubi che sarebbero andati a casa della ragazza portandole dei doni. Se la giovane rifiutava la proposta di unirsi in matrimonio, ai messaggeri, in segno di rifiuto, veniva donata una zucca [Vovk 1928, 229]. Nel caso contrario, si organizzava il pranzo di fidanzamento dove si sarebbero incontrati i futuri suoceri, la madre della sposa e in alcuni casi anche il padre che, per sigillare l’unione della nuova coppia avrebbe legato le mani dei due giovani con un asciugamano bianco prima di mettersi a tavola. In alcune regioni dei Carpazi la madre della ragazza ricopriva di grano e di batuffoli di lana i fidanzati, offrendo del miele a sigillo del loro legame e di quello delle rispettive famiglie. Una volta fidanzatasi, la ragazza non poteva più cambiare idea, pena il disonore della famiglia e un’ammenda a favore della parte lesa. Le partecipazioni al matrimonio venivano fatte verbalmente e direttamente dagli sposi. Questi si recavano di persona presso le case degli invitati ed inchinandosi tre volte pronunciavano: «Vi invitiamo da parte dei nostri padri, delle nostre madri e da parte nostra». Questa usanza è diffusa ancor oggi e particolarmente praticata nei villaggi.

Arrivati alla vigilia delle nozze le amiche della sposa addobbavano un ramo di pino o amareno con fiori, nastri colorati e spighe di grano, a simboleggiare la verginità, la bellezza e la fertilità. Tale composizione veniva poi esposta nel giardino di casa. Nel frattempo le donne sposate si occupavano della preparazione di uno dei principali simboli del matrimonio ucraino il korovaj[6], un pane che richiedeva l’osservanza di una particolare procedura per la sua preparazione. Le massaie, le amiche di famiglia, si recavano a casa della sposa portando farina, uova, sugna ed altri alimenti per la realizzazione del korovaj e durante l’impasto erano solite intonare le canzoni tradizionali. La compartecipazione di più donne alla preparazione di questa pagnotta stava a rappresentare l’unione della futura famiglia. Cattivo segno era quando l’impasto si spaccava durante la cottura oppure non lievitava a dovere quasi a voler presagire la separazione. Il korovaj veniva poi riposto sul tavolo degli sposi come augurio di prosperità e alla fine dei festeggiamenti veniva condiviso con tutti gli altri invitati.

Grazie all’intervista a Nadija Paraščič, conoscitrice delle tradizioni locali di Gorodok, è stato possibile ricostruire una giornata tipica del matrimonio ucraino così come veniva festeggiato nella regione di L’viv nell’ultimo periodo dell’epoca sovietica. Come si vedrà le componenti tradizionali intersecano i “voleri” introdotti dal regime comunista.

Il giorno delle nozze, lo sposo prima di uscire di casa invocava la benedizione dei genitori inchinandosi tre volte per poi lasciare l’abitazione accompagnato dai suoi testimoni. Nel cortile, la madre benediceva lui e il suo mezzo di trasporto con l’acqua santa e un mazzetto di mirto. L’acqua restante veniva versata ai piedi del ragazzo, mentre il recipiente che la conteneva doveva essere rotto sulla soglia di casa.

Tutti quindi si recavano presso la dimora della ragazza dove l’ingresso veniva volutamente interdetto da una tavola imbandita; la sposa non si mostrava rimanendo ancora tra le quattro mura domestiche. Fratelli, parenti e vicini di casa della giovane erano pronti ad “intavolare” le trattative con gli arrivati. Si barattava l’uscita della sposa offrendo bicchieri di vodka posti ad ogni angolo del tavolo, in un’atmosfera scherzosa e goliardica. Quando sembrava essersi concluso il negoziato, saltava fuori all’improvviso la finta sposa, ovvero un parente o amico travestito da donna con il cuscino a mo’ di pancione e un bambolotto tra le mani[7]. Questo rilanciava la contrattazione che andava avanti ancora per un po’, intercalata da offerte in denaro e regali, fino all’arrivo ufficiale della vera sposa accompagnata dalle testimoni che si prodigavano nel favorirne il passaggio tra l’assembramento degli astanti. La ragazza donava al futuro marito un piccolo mazzetto di fiori legato con un nastro a forma di fiocco che avrebbe indossato come spilla sulla giacca. A questo punto tutti i convenuti entravano in casa e la madre della giovane benediceva la coppia con l’acqua santa rompendo anche in questo caso il recipiente.

Successivamente tutto il corteo raggiungeva il Palazzo dello Sposalizio[8], dove durante la cerimonia davanti agli sposi veniva disteso il rušnik[9] sul quale la coppia si giurava fedeltà e amore eterno. Come detto il rito era officiato da un funzionario e si sostanziava in un suo stereotipato discorso a cui seguiva la ratificazione del vincolo contratto mediante le firme dei due giovani e dei loro testimoni. Secondo le tradizioni, ogni giovane ragazza doveva ricamare personalmente un rušnik, il cui disegno avrebbe rappresentato la vita della futura coppia.

Il matrimonio in chiesa nel periodo sovietico, invece, non era visto di buon occhio e poteva avere ripercussioni negative anche sulla carriera lavorativa; nonostante ciò, specialmente nei paesi più distanti dai grandi centri urbani c’era chi non vi rinunciava celebrandolo di nascosto.

Finita la cerimonia e scattate le foto ricordo, iniziava il festeggiamento. Gli sposi erano soliti spostarsi in auto, che quasi sempre era di colore bianco, addobbata con nastri e palloncini, mentre sul cofano venivano attaccate due fedi giganti incrociate. Il loro arrivo era talvolta preceduto dalla banda musicale. All’ingresso in casa, oppure al ristorante, le madri degli sposi li aspettavano con il pane e il sale: la coppia faceva un brindisi e si accomodava a tavola. In primis i genitori e poi gli invitati si avvicinavano al tavolo degli sposi per congratularsi mentre riponevano sul piatto preposto le buste con la loro offerta in denaro. Il primo brindisi spettava alla madre della sposa seguito poi dagli altri in una cornice di musica e balli.

A notte inoltrata il matrimonio si concludeva con il rito del velo: sulle note del canto popolare Gorila sosna, palala al centro della sala era collocata una sedia sulla quale sedeva lo sposo con la giovane moglie sulle ginocchia. La suocera si avvicinava e sostituiva il velo nunziale della figlia con una chustka [10], che stava a simboleggiare il passaggio da ragazza a donna. Poi la sposa invitava ogni ragazza nubile presente alla festa a fare qualche passo di danza insieme a lei e ad indossare il velo. Con tale gesto la sposa augurava a tutte le fanciulle di trovare al più presto il proprio amato.

La rappresentazione delle nozze nelle foto di matrimonio

Per meglio cogliere le peculiarità del matrimonio nel contesto ucraino analizzato ci pare qui utile ricorrere alle foto che non si mancava mai di scattare in occasione di questo evento. Le nozze rappresentano peraltro l’evento più fotografato nella vita delle famiglie di Gorodok.

In tale prospettiva abbiamo la possibilità di fare riferimento ad un corpus di foto di famiglia da noi allestito nell’arco di questi ultimi anni, dal 2011 ad oggi, relativo, appunto, alla città di Gorodok[11].

Salta subito all’occhio, come appena detto, la netta preponderanza delle foto di matrimonio che da sole costituiscono poco meno di un terzo di tutte le immagini raccolte, testimonianza di un evento che appare quale evidente “ombelico” di un’esistenza altrimenti avara di eventi da rimemorare.

Nell’ambito dei molti generi in cui si coniuga e declina la foto di famiglia, periscopio di grande utilità antropologica per indagare sui modelli ed i valori che gli appartenenti ad ogni consesso umano rendono evidenti attraverso le procedure stabilite con il fotografo per costruire la scena e disporvisi, le foto di nozze costituiscono un particolare concentrato di elementi simbolici che aiutano a meglio decrittare i fondamenti culturali, popolari ed istituzionali[12] su cui si regge e si articola questo rito di passaggio. Dall’individuazione degli elementi denotativi che oggettivamente concorrono alla costruzione dell’immagine è possibile inoltrarsi, in seconda battuta, sul piano dei significati connotativi ove il ritratto matrimoniale si esprime soprattutto mediante codici iconografici e socioculturali [Mattioli 1991, 159-160]. Per dirla con Panofsky dalla significazione “primaria o naturale” si giunge a quella intrinseca che rimanda più direttamente ai principi, alle finalità ed ai valori di cui la foto si fa carico e subsidente concentrato [Panofsky 1967].

Foto 4. Coppia di sposi di origini contadine, fine Ottocento, (Museo di Etnografia Locale di Gorodok).

Per quanto più specificamente attiene alla foto di matrimonio, luogo per eccellenza dell’appariscenza, della messa in scena, della spettacolarizzazione che il rito documentato esige, “la macchina fotografica – secondo Susan Sontag - ha finito per far aumentare in misura straordinaria il valore delle apparenze. […] Non è solo che la fotografia rappresenti realisticamente la realtà. È la realtà che viene esaminata e valutata secondo la sua fedeltà alle fotografie” [Sontag 1978, 76]. Le foto di matrimonio che ci accingiamo a prendere in considerazione, in veste, come già anticipavamo in apertura di rito nel rito, di «ideal state»[13] si fanno ricostruzione per certi aspetti autonoma delle nozze, rimettendole in forma e rappresentandole in base ad istanze rimemorative ma pure celebrative, in chiave rituale, del quadro ideologico di riferimento come anche del ceto e dello status. Qui la foto dichiara e celebra, come sottolinea Francesco Faeta, “l’ambiguo statuto di verità e menzogna, realtà e finzione” [Faeta 1989, 44] attraverso cui precipuamente si presenta e si dichiara il matrimonio evento eternamente sospeso tra l’esigenza dell’essere e dell’apparire, esigenza che conseguentemente si ripresenta anche nella trasposizione fotografica del rito. Non si tratta però di una dicotomia scientificamente ed etnograficamente infeconda, ma, all’opposto, di una modalità di osservazione e descrizione del matrimonio che si fa edotta, che si pone in sintonia con tali suoi contrastanti ma cogenti assunti, recitati davanti all’officiante e parimenti dinnanzi all’obiettivo, rispondenti ai valori della tradizione ed a quelli del partito.

In una delle immagini più antiche da noi rinvenuta (foto n. 4), scattata alla fine dell’Ottocento e proveniente dal “Museo di Etnografia Locale”, è raffigurata una coppia di sposi. Lei sfoggia un abito debitamente vistoso, i polsini della camicia sono ingentiliti da ricami e un’ampia corona di fiori è abbellita da numerosi nastri anch’essi ricamati, mentre lui indossa un paio di pantaloni e giacca chiari. Dal tipo di vestiario e dagli accessori che lo impreziosiscono si deduce l’adesione ad una sorta di ortodossia “estetizzante” tipica degli abiti tradizionali che rende evidente l’origine contadina della coppia peraltro annunciata dallo sfondo di sapore “agreste”. Più nel dettaglio, dall’orologio tascabile che lo sposo sfoggia attraverso la giacca sbottonata, e dalle numerosissime collane, probabilmente di corallo, al collo della donna si può intuire l’appartenenza degli sposi a famiglie rurali di un certo agio, dette localmente kulak. La foto sancisce sì l’avvenuta unione ma più prosaicamente sottolinea il censo e perciò il prestigio sociale delle famiglie degli sposi.

Nell’ Ucraina dell’Ovest, anche in epoca comunista, l’usanza di sposarsi con gli abiti tradizionali resta ancora pratica diffusa almeno fino agli anni Cinquanta, così come documentato dallo scatto proveniente dall’album della famiglia Doroš (foto n. 5). Il senso di appartenenza alla propria terra e l’esistenza di un forte legame con le tradizioni è dimostrato soprattutto attraverso l’abbigliamento femminile. Le ragazze nubili, compresa la bimba, portano corone e ghirlande di fiori, mentre le donne sposate, come vuole la tradizione, coprono il capo con una chustka. A ben osservaresoltanto una di loro ha la testa scoperta, segno di tempi che stanno cambiando. Ciò detto la ricchezza e la preziosità dell’abito delle giovani continua ancora a rubare la scena. Osservando il corsetto, detto korsetka[14], e la camicia indossata dalle donne, capi con molta probabilità realizzati dalle stesse, impressiona la finezza e l’elaboratezza degli ornamenti floreali. L’abbigliamento maschile è viceversa monocorde fatta eccezione per il lungo nastro chiaro appuntato al petto, al taschino della giacca, assieme ad un piccolo mazzetto di fiori[15].

Questo gruppo alquanto affollato che occupa tutta l’inquadratura con i soggetti disposti su più piani, l’uno prossimo all’altro, definisce una esibita e compiaciuta compartecipazione all’evento. Va pure rilevato l’alternarsi di espressioni più compunte e di volti sui quali si sta disegnando invece un composto sorriso. In ambiti sociali, come detto, ancora pervasi dalla tradizione, una certa sacralità attribuita al rito delle nozze impone un’opportuna seriosità. Al contempo la laicizzazione sovietica dei rituali di un tempo induce all’assunzione di pose e sguardi meno seriosi e gravi. Rimane l’importanza del vincolo contratto dagli sposi in primo piano che, secondo una postura diffusissima soprattutto presso i ceti contadini certamente non soltanto russi, impone l’ostentazione delle mani sulle gambe, mani, una tantum, pulite e con unghie nette, per una volta affrancate dal contatto con la terra, che permettono di sfoggiare le vere nuziali all’anulare dei coniugi altresì congiunti nell’intreccio dell’esibito abbraccio.

Foto 5. Un matrimonio in abiti tradizionali negli anni Cinquanta, (album di Zanna Doroš).

Rametti di bosso e piccoli bouquet floreali assieme a lunghi nastri bianchi sono simboli diffusi e perduranti del matrimonio che emergono frequentemente in maniera significativa dalle fotografie. I primi erano cuciti sul petto, sulla gonna e sul velo delle spose, in segno di purezza e amore eterno, i secondi erano portati sulle giacche degli sposi e dei loro i testimoni. L’intreccio tra i fiori e le lunghe estremità del nastro, quasi a sfiorare terra, rappresentavano l’augurio di una lunga vita coniugale (foto n. 6).

Foto 6. Michajlo e Kateryna Chodak nel giorno delle nozze, 1960.

Un altro protagonista indiscusso delle nozze, come già abbiamo fatto presente, era il rušnik, che fu introdotto anche nel rito civile divenendone parte integrante, ammesso dal regime comunista quale emblema delle antiche radici dei popoli russi, degna sopravvivenza folklorica di altrettanto degne origini popolari. Al centro della foto n. 7 scattata a Leopoli nel Palazzo dello Sposalizio vediamo i nubendi mentre pronunciano la formula con cui si promettono ben al centro del rušnik ricamato. Assume, esso, quale perimetro ritualizzato, il valore di un legame definito e condiviso dalla novella coppia. Ai lati degli sposi sono i testimoni che indossano le fasce cerimoniali a tracolla ed in secondo piano gli altri invitati che partecipano solennemente alla celebrazione. Salta agli occhi in questo matrimonio degli anni Sessanta del Novecento la scomparsa pressoché totale delle vesti tradizionali, soppiantate da abiti di foggia urbana ed occidentale, sinonimo di emancipazione e modernità. Sopravvivono soltanto i fiori, sia per la donna che per l’uomo.

Foto 7. La cerimonia del giuramento sul rušnik durante il rito civile, 1987, (raccolta di Valerij Šustjak).

Nella foto n. 8 di nuovo il rušnik fa da tramite, da elemento visivo di congiunzione dei coniugi; la sua funzione simbolica ed al contempo decorativastigmatizza ancora una volta la relazione con la tradizione assieme ai fiori. È su di esso che la coppia esibisce l’avvenuta unione attraverso la mano dell’uomo che si accosta discretamente ma esplicitamente a quella della donna, dando inoltre agio a chi osserva la foto di apprezzare le fedi al dito. Dalle foto esaminate emerge un particolare importante, il ruolo dei testimoni, che, come anche nel caso di questa immagine, sembrerebbe prevalere significativamente su quello dei genitori. Possiamo presupporre che lo stato sovietico, garantendo ai giovani un impiego e conseguente un’indipendenza economica, li rendesse più liberi dai legami familiari. Il giorno del matrimonio rappresentava dunque il distacco dalla famiglia d’origine e la foto, in qualche modo, si “adeguava”, escludendo da parte significativa del servizio matrimoniale i genitori ripresi talora assieme ad altri convitati. Giacca, pantaloni e cravatta, qui addirittura un vezzoso papillon al colletto della camicia dello sposo ribadiscono ulteriormente laicizzazione e modernizzazione del rito. La scenografica teoria di drappi che si interseca alle spalle del gruppo sembrano voler conferire all’immagine una maggiore e ricercata eleganza.

Foto 8. I novelli coniugi con i testimoni ripresi nello studio di un fotografo, agosto 1987, (raccolta di Valerij Šustjak).

La presenza dello stato comunista che interviene a normare e laicizzare il matrimonio ma che al contempo si mostra incline a conservarne l’aura celebrativa ereditata dalla tradizione ci pare particolarmente evidente nella foto n. 9. Compaiono qui due dipendenti dell’ufficio cerimoniale mentre attendono l’arrivo degli sposi: sorridono al cospetto di due simboli di ben diverse origini che stigmatizzano in qualche modo la “doppia” anima del rito matrimoniale sovietico. Si nota infatti la presenza dello stato che si “materializza” attraverso la falce e il martello, evidenti sullo stemma in alto a sinistra, come pure della tradizione esplicitamente evocata dall’accurata esposizione di un rušnik ricamato, collocato in primo piano ed al centro dell’immagine.

Foto 9. Ivanna Kisiličak (a destra) con una sua collega all’interno della sala allestita per la celebrazione delle nozze civili a Gorodok, 1974.

Nonostante la cortina di ferro che separava i paesi dell’URSS dal resto del mondo, diverse usanze occidentali sono riuscite a “scavalcarla” e a diffondersi anno dopo anno nella società sovietica. Forse l’influenza più evidente era rintracciabile nella moda. Il matrimonio, quale défilé per antonomasia, si fa conseguente ed evidente riflesso di codesti mutamenti “estetici” nei “guardaroba” che ovviamente sono anche il segnale della penetrazione di modelli di natura edonistica. Dagli anni Cinquanta va così decisamente scomparendo, specialmente nelle grandi città l’usanza di sposarsi con il costume tradizionale. Anche le spose di Gorodok si pongono al passo con i tempi. I tagli degli abiti si fanno più semplici ed essenziali: mentre le gonne si vanno accorciando ben sopra le caviglie per scoprire porzioni sempre maggiori delle gambe, si impone e cresce la lunghezza del velo che in molti ritratti viene adagiato con cura ai piedi dei novelli sposi. Simbolo di un certo benessere e della disponibilità economica necessaria ad acquistarlo, pare giusto ostentarlo in primo piano, finanche davanti agli sposi. Il consorte continua a vestirsi in modo più sobrio ma con camicia e cravatta. Dalla fine degli anni Sessanta quando in Europa spopola la minigonna, anche le ragazze sovietiche accorciano drasticamente gli abiti lasciando scoperte le ginocchia. Un'altra novità venuta dall’estero sono i cappelli che vengono utilizzati per sostituire il classico velo mentre i futuri mariti sfoggiano pantaloni a zampa d’elefante. Negli anni Ottanta gli abiti delle spose diventano più voluminosi e vaporosi grazie all’utilizzo del tulle. Spuntano atelier dove si può realizzare un vestito su misura al costo di centocinquanta rubli, l’equivalente di circa due stipendi mensili.

Foto 10. Foto di gruppo in occasione di un matrimonio, 1971, (raccolta di Valerij Šustjak).

Unico, inossidabile lacerto del passato e della tradizione è il fiore: sovente la sposa tiene in mano un mazzo di gladioli, in altri casi garofani e gigli mentre il taschino della giacca maschile continua ad essere adornato da un mazzetto o da una rosa (foto n. 10).

A conferma del fatto che la religione era sistematicamente osteggiata dal partito pochissime sono le foto che ritraggono le nozze in chiesa. Tali immagini appaiono inoltre di dimensioni più ridotte rispetto a quelle scattate durante il rito civile e risalgono ai periodi più recenti, quando nel regime si aprono smagliature e maturano strategie che reputano utile concedere aperture ad esigenze ed espressioni cultuali e religiose ritenute ora utili per rinnovate strategie di produzione del consenso.

Concludendo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, possiamo dire che le immagini dei matrimoni di Gorodok sottolineano il persistere di modelli culturali tradizionali presenti nelle famiglie ucraine occidentali prima e durante il comunismo. Rivelano che con l’arrivo del comunismo, le tradizioni locali legate prevalentemente ai principali riti di passaggio dell’umana esistenza, in primis il matrimonio, non evaporano, ma vengono reinventate accogliendo ed interpretando le volontà del partito. Si osservano nelle fotografie evidenti sincretismi tra alcuni riti tradizionali e le nuove regole introdotte dal regime comunista e, in alcuni casi, certune infiltrazioni di usanze occidentali.

Di certo il matrimonio è e rimane una “macchina scenica” incentrata su una vistosità debitamente programmata dai partecipanti al rito, e ribadita sinteticamente ed efficacemente dalla fotografia. È una vistosità sulla quale, a scala ridotta, gli sposi e le loro famiglie ribadiscono ma pure millantano il loro peso nel consesso sociale di appartenenza ma è al tempo medesimo una vistosità cavalcata dal regime. “La vistosità della presenza politica non la inserisce soltanto nel paesaggio sociale, ma arriva a naturalizzarla, a svincolarla dal mutevole avvicendarsi degli eventi: è la costruzione di un sistema simbolico con i mezzi a disposizione della società umana, la cui forza non è inferiore al sistema fondato sull’investitura di un potere trascendente” [Marazzi 2002, 81].

Si tratta alla fin fine di una forma di produzione e manipolazione dell’immaginario attraverso il visibile che in seconda battuta la fotografia riamalgama, ribadisce e stigmatizza.

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[1] L’usanza delle fiaccole, dette, in italiano, tede nuziali, è testimoniata pure in altri contesti culturali ed in altre epoche. Ignazio Buttitta ne ricorda le origini greco-romane: il temine è «da mettere in relazione con il greco daìda (accusativo da daìs), fiaccola di legno resinoso usata nei cortei religiosi e nelle cerimonie nuziali (donde "teda nuziale" come sinonimo di "matrimonio")» [Buttitta 1999, 165].

[2] Tali bambole, di generose dimensioni, fasciate in abiti nuziali o comunque con indosso bei vestiti, si fanno, alle più diverse latitudini, in Unione Sovietica ed altrove, «simbolo augurale di fecondità […]. Nel fantoccio, nella sua ubicazione come anche nella sua postura, seduta, «intronizzata», riaffiorano stilemi raffigurativi di antichi idoli, di antichi feticci» [Baldi 1999, 53]. Si tratta di archetipi della «figura di una dea madre (…) persistente in tempi e culture diverse» [Buttitta 1996, 113].

[3] Andando ancora oltre Krutkin assume la foto di tale matrimonio e le reazioni emotive che suscita quale termometro sociale, strumento attraverso il quale gli osservatori possono assumere lucida e razionale consapevolezza delle povere condizioni di vita di regioni contadine che spesso si finge di ignorare. La foto di nozze si fa, alla fine, in epoca post sovietica, foto di evidente pregnanza sociale, di “presa di coscienza”, dopo essere passata dalla porta della commozione e del turbamento.

[4] Questa cittadina, situata nella regione di Lviv nell’Ucraina occidentale, conta all'incirca sedicimila abitanti e ha una storia di più di ottocento anni contraddistinta dalla dominazione polacca, dall’assalto dei tartari, dall’arrivo dei cosacchi, dall’avvento dell’Impero austro-ungarico per poi giungere in tempi più recenti, all’invasione tedesca durante la seconda guerra mondiale e all’affermazione del regime sovietico [Gorak 1995].

[5] Sul matrimonio ucraino si sofferma specificamente Valentina Borisenko descrivendone struttura e trasformazioni intercorse lungo il Ventesimo [Borisenko 2010]. Nella storia del cinema sovietico sono presenti pellicole nelle quali si assiste alla celebrazione di nozze rurali di epoca ottocentesca unitamente alle usanze precedenti il rito. Citiamo qui, ad esempio, la commedia Svatannja na Gončarivci, tratta dall’omonimo dramma di Grigorij Kvitka-Osnov’janenko e diretta nel 1958 dal regista Igor Zemgalo: nel film il racconto di un fidanzamento nell’Ucraina occidentale è reso con notevole realismo e con un’apprezzabile attenzione etnografica. Nel 1964 Sergej Paradžanov porta sullo schermo Tini zabutich predkiv, tratto dal romanzo di Michajlo Kocjubins’kij, in cui ampio spazio è riservato alla rappresentazione dei riti di passaggio, dal matrimonio alle esequie, presso una piccola comunità dei Carpazi.

[6] In ucraino коровай designa una pagnotta alta di grano, abbellita da fiori, fogli, spighe e uccellini fatti con la pasta; rappresenta la forza della vita e il destino della giovane coppia, così come recita anche il proverbio ucraino «il pane è il padre, l’acqua è la madre» [Čumarna 2008, 38-39].

[7] Presumibilmente la tradizione della finta sposa può essere fatta risalire all’Ottocento o, comunque, a prima della rivoluzione di ottobre, quando si facevano matrimoni combinati e gli sposi si conoscevano appena o non si conoscevano affatto. In quei casi, quando le “trattative” non venivano reputate del tutto soddisfacenti, al posto della fanciulla predestinata, poteva essere proposta in alternativa, per esempio, una sorella più grande o meno bella che i genitori temevano di non “piazzare”, di non riuscire a dare in sposa. L’inscenata scherzosa gravidanza esorcizzava dunque in chiave scaramantica la possibilità per lo sposo di unirsi in matrimonio con una donna tutt’altro che piacente od addirittura infedele e messa incinta da un altro uomo.

[8] Come già anticipato, i suntuosi palazzi erano la prerogativa delle grandi città, mentre nei luoghi periferici erano predisposte apposite sale allestite con maggiore, inevitabile sobrietà.

[9] In ucraino рушник designa un telo bianco di lino o canapa ricamato sui bordi oppure per intero. Gli ornamenti e i colori utilizzati simboleggiano la percezione del mondo, la vita e i sentimenti. Questo oggetto rappresenta uno degli elementi più utilizzati nei riti di passaggio della cultura ucraina. Sopra un rušnik si battezzavano i neonati ma anche si accompagnava il defunto nell’ultimo viaggio. Nel rito del matrimonio questo telo rappresentava un ponte che traghettava gli sposi verso la loro nuova vita di coppia. Gli ornamenti erano prevalentemente di tipo floreale o geometrico ricamati con fili colorati di cotone e seta; spesso venivano raffigurati anche i colombi, simbolo di fedeltà e amore. I disegni si tramandavano da una generazione all’altra arricchendosi ogni volta di nuovi elementi [Čumarna 2008, 33].

[10] In ucraino хустка è un pezzo di stoffa fine e quadrato, una sorta di foulard in seta o lana, che nei tempi più antichi portavano sul capo le donne sposate [Voropaj 1991, 317-318].

[11] L’archivio fotografico conta attualmente circa cinquecento fotografie che provengono sia da album di famiglie che vivono a Gorodok sia dal “Museo di Etnografia Locale” che custodisce i segni della memoria e dell’identità del luogo. Le immagini rinvenute si collocano tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e gli Ottanta del Novecento. Si tratta perlopiù di foto amatoriali e di foto scattate da fotografi che svolgevano la propria professione a Gorodok. Tale raccolta di fa oggi parte di un più ampio archivio di immagini inerenti la Russia, di cui siamo responsabili, e che è entrato a far parte delle teche del MAM – Museo antropologico multimediale dell’Università degli studi di Napoli Federico II diretto dal Prof. Alberto Baldi struttura presso la quale alle foto si tende ad attribuire lo status di documenti visivi corredati di informazioni sia denotative che connotative [Baldi 2004].

[12] Questo genere di foto, detto pure “vernacolare”, riorienta la famiglia, attraverso l’inoppugnabile documentazione di riti quali in primis il matrimonio, in seno al ruolo centrale della genitorialità, fondante “condizione ideale” per la perpetuazione dell’istituto familiare. In tal senso, ancor meglio di una testimonianza orale, secondo Sandra Titus, «photographs were studied because it was believed that they would reflect behaviors more accurately and more objectively than parental recollections of the transition. Recollections may be distorted, confused, fabricated, or simply wrong. Photographs may be lost or misplaced, and the researcher might only be shown selected photographs. Yet the photographic record cannot be distorted, confused, fabricated, or marred by forgetting. In this sense photographs seem to be a valuable unobtrusive […] measurement of the transition to parenthood [Titus 1976: 525].

[13] Secondo Mette Sandbye la foto familiare costituirebbe, appunto, «an organized ideological preparation of a postulated ideal state» [Sandbye 2014].

[14] In ucraino кoрсетка oppure керсетка è un gilè femminile con abbottonatura centrale o laterale che si indossava sopra la camicia, solitamente era cucito utilizzando tessuti di velluto, lana oppure seta e abbellito da ricami e perline colorate; la sua lunghezza poteva arrivare fino al ginocchio [Voropaj 1991, 343].

[15] Mari Mäkiranta adombra, peraltro una maggiore centralità della figura femminile soprattutto nei casi nei quali le foto sono chiamate alla celebrazione dei riti familiari: è qui che «the family photographs shape memories, family relations, and cultural meanings associated with gender» [Mäkiranta 2012, 39].