La “familizzazione” dell’impresa

Alcune riflessioni sul familismo imprenditoriale in Brianza nella crisi economica attuale

Simone Ghezzi

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale - Università di Milano-Bicocca

Indice

Introduzione
La familizzazione dell’impresa e dell’imprenditorialità
Conflitti ed esclusioni: la visione androcentrica dell’imprenditore
Conclusioni
Riferimenti bibliografici

Abstract. Drawing on a ethnographic research in an area characterized by a dense network of small family-run firms this article looks at the transformation of such enterprises and at their inner relations. It argues that family-run firms are a special kind of organization of production as family (non-commodified) labour and commodified labour are interwoven. Familistic relations, which permeates the enterprise and creates the basic conditions for its formation and functioning, is termed entrepreneurial familism. It sets the organizational structure of the firm and defines the strategies of the transmission of capital adopted by the entrepreneurs. The leader of a small family firm may decide to include or to exclude some kin members from the process of intergenerational succession in order to secure corporate earnings and good performance in the upcoming future. Yet, the choice of share redistribution and ultimately the planning of succession may be a highly contested business decision within the kin group. This form of unequal transmission of capital, based on gender, may leave painful scars within the family, undermining or even destroying personal relationships and kinship solidarity.

Keywords. Family business; entrepreneurship; kinship; gender.

Introduzione

L’idea di scrivere questo breve saggio risale a qualche anno fa, durante la conduzione della mia prima ricerca sul campo presso alcune aziende familiari nella Brianza monzese in una area situata a circa 30 chilometri a nord di Milano, e trae spunto da una sciagura familiare che sarebbe degenerata successivamente in una querelle tra due famiglie, con gravi ripercussioni sull’impresa su cui entrambe avevano costruito gran parte della propria ricchezza patrimoniale. Quella vicenda mi colpì per i sensi di colpa che avrebbe angosciato uno dei protagonisti, come mi limiterò ad accennare tra breve, ma suscitò anche il mio interesse come ricercatore perché mi indusse a prestare maggiore attenzione ai fattori emozionali e ai sentimenti che gravitano tra gli interessi dell’impresa e quelli della famiglia, e a coglierne il ruolo, spesso determinante, nei confronti dell’esistenza dell’impresa stessa.

Quel caso non risultò isolato; infatti, nel prosieguo della mia ricerca mi capitò di imbattermi in altre storie analoghe, pervase da forti dinamiche emozionali con ripercussioni sull’impresa familiare, dove la commistione di elementi familistici e necessità imprenditoriali impediva una serena risoluzione dei conflitti e una ricomposizione delle divergenze, alimentando il livore e il risentimento tra i nuclei familiari coinvolti. Spesso era la mia curiosità di ricercatore a riesumare o alimentare ruggini e incomprensioni facendole rivivere nella memoria di chi, coinvolto in prima persona, aveva accettato di raccontare le proprie esperienze lavorative e imprenditoriali.

Un giorno venni presentato ad un imprenditore, Mario, il quale insieme ad un ex collega aveva fondato vent’anni prima un’impresa artigiana specializzata nella produzione di maniglie e pomelli. Entrambi avevano lavorato per oltre 10 anni, l’uno come tecnico operaio, l’altro (Mario) come direttore di reparto, in un’impresa che produceva accessori per mobili. Ad un certo punto, come spesso succedeva tra i lavoratori nelle aree a industrializzazione diffusa o distrettuale [Fuà e Zacchia 1984] [Becattini et al. 2001], concordarono di licenziarsi a poche settimane uno dall’altro - per non creare eccessivi problemi di carenza di personale al “padrone” – per “mettersi in proprio”. Entrambi sposati e con prole, stavano valutando l’ipotesi di coinvolgere maggiormente i rispettivi figli (allora ancora studenti) nelle attività dell’impresa. Quando incontrai Mario cercai di spiegargli in poche parole gli obiettivi della mia ricerca e gli chiesi di poter visitare l’azienda e di dedicarmi un po’ del suo tempo per discutere della sua esperienza da imprenditore. Il primo incontro avvenne qualche giorno dopo, poi non fu più possibile approfondire il suo caso. Qualche settimana dopo lo contattai nuovamente telefonicamente, mi disse che non sarebbe stato possibile né visitare l’azienda né parlare con alcuno, poiché stava gestendo una situazione molto delicata di cui mi aveva tenuto all’oscuro fino a quel momento. Mi spiegò che la figlia del suo socio era morta in un incidente qualche mese prima e da allora costui aveva perso ogni entusiasmo, ogni interesse nei riguardi dell’azienda. «Abbiamo degli investimenti da fare nei prossimi mesi e lui tentenna…. Mi dispiace, ma qui non ci si può fermare, se ti fermi sei morto» - mi disse. Dopo pochi giorni venni a sapere che Mario aveva iniziato le operazioni di liquidazione del socio e che queste sarebbero durate parecchie settimane.

Riflettendo su questo caso, non potei fare a meno di confrontarmi con le intuizioni di Schumpeter, ma anche con la limitatezza di quegli approcci economicisti che riducono l’agire imprenditoriale alla mera massimizzazione del profitto senza tener conto del contesto sociale e culturale in cui l’agire imprenditoriale è immerso. Dall’episodio descritto emergeva come l’imprenditore Mario fosse mosso da vari fattori motivazionali quali il desiderio di conquista, l’impulso a combattere, la gioia di creare, come sosteneva Schumpeter. Emergeva, però, anche un altro elemento che lo sguardo antropologico metteva in luce con estrema evidenza: l’importanza della famiglia e della progenie, a testimonianza del fatto che l’imprenditore è inserito in un contesto sociale, morale e culturale, per quanto spesso ambiguo e contraddittorio.

Nel caso specifico, il venir meno della progenie aveva soffocato lo spirito combattivo e spento ogni velleità imprenditoriale del socio, il cui orizzonte temporale era stato improvvisamente oscurato dalla scomparsa della figlia. Da qui partì un effetto a catena che portò non solo alla liquidazione del socio, ma anche ad un inasprimento dei rapporti tra le rispettive famiglie. Anche Schumpeter si era soffermato su questa questione in Capitalism, Socialism and Democracy [1942, 151-158], profetizzando come la trasformazione degli assetti familiari, la diminuzione dei matrimoni e della fecondità (e quindi l’assenza di figli) lasciassero presagire una alterazione dell’ homo oeconomicus romantico ed eroico, e un graduale passaggio verso una maggior diffusione di imprenditori privi di forti spinte motivazionali come quelle indotte dalla presenza di una famiglia alle (o sulle) spalle, governati da una mentalità burocratica tendente all’immobilismo. Qui emerge il pessimismo teleologico di Schumpeter, il quale paventò uno scenario in cui la progressiva decadenza del capitalismo – smarrita la propria capacità di autoriprodursi rinnovandosi – lasciava spazio ad una società di tipo socialista. Nulla di tutto ciò si è materializzato, ma le intuizioni schumpeteriane sul rapporto tra imprenditorialità e famiglia rimangono attualissime e su di queste vale la pena compiere qualche riflessione in questo saggio.

Il tema meriterebbe un approfondimento interdisciplinare per poter essere esaminato in una visione unitaria. A parte qualche eccezione presente nella oramai abbondante letteratura sui distretti italiani[1], ha prevalso quasi sempre la separazione forzata in due sfere sociali distinte: da un lato la famiglia, intesa come luogo di socializzazione, di consumo e di riproduzione, e dall’altra l’impresa, intesa come luogo di produzione e di profitto [Aldrich e Cliff 2003]. Lo stesso Schumpeter non si cimentò mai in una analisi integrata dell’imprenditore e della famiglia; l’importanza di quest’ultima e l’intreccio fra i due, rimase intuitivamente sullo sfondo, alle spalle di un individuo “maschio”, dotato di una capacità decisionale fondamentalmente autonoma. E’ soprattutto in ambito antropologico all’interno di una prospettiva di genere che sono emersi tutti i limiti di quegli assunti, androcentrici e iper-razionali. Infatti, come alcuni lavori etnografici hanno mostrato, proprio nelle economie “di mercato” si pone la questione della parentela come gruppo economico o corporazione dinastica in cui divergenze e spaccature sono sempre in agguato, minacciando di intaccare patrimonio e capitali [Marcus 1989] [Marcus e Hall 1992] [Yanagisako 1991] [Yanagisako 2002]. L’approccio etnografico, inoltre, agevola l’identificazione delle logiche non economiche, laddove il contesto imprenditoriale tende a relegarle ai margini, conferendo all’agire economico razionale il ruolo cardine per spiegare scelte e comportamenti [Bauer 1997].

Questo saggio non ha la pretesa di intervenire criticamente sulla questione degli approcci teorici adottati, ma non si sottrae al tentativo, come già ricordato, di affrontare il tema in questione in maniera unitaria, partendo da una prospettiva antropologica, senza però ignorare le sollecitazioni provenienti da discipline affini. A questo proposito saranno impiegati alcuni frammenti etnografici per mostrare come l’intreccio familiare-parentale e azienda possa essere particolarmente marcato e diversificato nelle varie fasi del ciclo di vita (sia del nucleo familiare che dell’impresa). Inoltre, verrà introdotto il concetto di familismo imprenditoriale, termine che ho mutuato dall’antropologa Susan Greenhalgh [1994]. Sebbene originalmente sia stato impiegato in un contesto culturale asiatico – quello della società taiwanese permeata di confucianismo - mi appare adeguato per descrivere un tipo di imprenditorialità particolarmente diffuso in Brianza, così come in molti distretti industriali italiani, che ha prodotto un’organizzazione di impresa fondata sulla partecipazione attiva di una stessa famiglia o parentela.

Che cosa s’intende per familismo imprenditoriale? Nel sistema produttivo di specializzazione flessibile della Brianza l’interpolazione tra l’etica del lavoro ed etica della famiglia ha favorito l’insorgere e lo sviluppo di imprese organizzate secondo un modello aziendale sui generis, che a sua volta determina specifici rapporti di produzione [Ghezzi 2007]. È in questa accezione che utilizzo la categoria ‘familismo’. Dissociandomi dalla definizione etnocentrica e ideologizzata di Banfield [1976], ritengo più appropriato utilizzarla come una categoria concettuale che non si limita e riconoscere la centralità della famiglia nel sistema dei valori di una società [Sciolla 2001], ma fa riferimento a pratiche famigliari e costruzioni simboliche che connotano e plasmano le relazioni in altri ambiti sociali, in particolare la sfera di produzione, dove si intrecciano lavoro non mercificato, lavoro mercificato, potere patriarcale e relazioni paternalistiche. Questa particolare modalità di familismo di cui è permeata l’impresa (e che connota l’iniziativa imprenditoriale) è definita “familismo imprenditoriale”. Tale concetto mi consente di inglobare nel dibattito più generale sull’imprenditorialità quegli elementi che generalmente sono ritenuti residuali e marginali, in quanto appartenenti alla sfera sociale e culturale; dunque, non riconducibili ad un comportamento economico. Continuando ad assecondare questa prospettiva, infatti, si corre il rischio di trattare le relazioni economiche e i processi decisionali che le sottendono come eteronome rispetto al contesto sociale e culturale nel quale vengono in essere. È la ricerca sul campo e l’analisi etnografica, invece, a rivelarci l’inconsistenza di tale atteggiamento e a dare il giusto peso alle relazioni parentali, agli aspetti emozionali e sentimentali, considerandoli più propriamente «azioni sociali economicamente rilevanti», mutuando una terminologia tipicamente weberiana, per il loro impatto sul fenomeno imprenditoriale.

La familizzazione dell’impresa e dell’imprenditorialità

Raramente le imprese che ho avuto modo di visitare con una certa periodicità durante la ricerca sul campo fornivano prodotti finiti direttamente sul mercato; più spesso producevano beni intermedi, fasi di lavorazioni specializzate all'interno di una filiera più o meno lunga, il cui prodotto finale poteva anche essere commercializzato da un’impresa localizzata al di fuori del distretto e dei confini nazionali. In questo caso, dunque, vi è sostanzialmente da parte dell’imprenditore una maggiore attenzione all’innovazione di processo e alla flessibilità delle procedure tecniche di produzione. In Brianza ciò è avvenuto non attraverso la produzione di nuova tecnologia e la creazione di nuovi materiali, bensì attraverso la loro rapida adozione e la ricerca delle modalità ottimali per il loro utilizzo, in tutti i comparti di punta della regione, quello della meccanica, dello stampaggio di materiale plastico e della produzione di mobili e accessori. Le competenze e le capacità imprenditoriali sono state (e sono tuttora) diverse a seconda della collocazione dell’impresa nella filiera di settore e a seconda del periodo storico di riferimento. In alcune attività tra i settori menzionati, il rapido ricorso a nuove tecnologie di produzione è stata una scelta obbligata per rimanere sul mercato, mentre in altri casi - per esempio nella produzione di mobili d’arte o in attività che richiedono un impiego intensivo del lavoro - si è ritenuto più importante concentrarsi sul fattore lavoro e dunque sulla formazione delle maestranze. Si è trattato, comunque, di una imprenditorialità prevalentemente autoctona che finora è sempre riuscita a riprodursi nel contesto locale.

Dopo la vorticosa proliferazione di imprese nelle cantine delle abitazioni e nei locali sfitti delle corti dei piccoli centri urbani, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso è emersa una maggior attenzione alla qualità della produzione e al rinnovamento tecnologico, favorita anche dalla realizzazione di parchi industriali che nel corso degli anni hanno permesso agli imprenditori di operare in ambienti di lavoro meglio attrezzati, a norma di legge, e di rendere le proprie aziende più accessibili ai mezzi di trasporto leggeri e pesanti. Negli ultimi anni, invece, si è assistito a flessioni cicliche più frequenti e, in generale, a una minor vivacità sul piano economico-produttivo – in termini di produzione e di competitività - in tutti i settori manifatturieri presenti in Brianza. È affiorata quindi l’esigenza di implementare nuovi assetti organizzativo-produttivi. Questo non soltanto perché sono emerse in modo prorompente nuove economie regionali sia in Italia che a livello internazionale particolarmente agguerrite sul piano della competitività, ma anche perché le imprese brianzole e gli imprenditori che le hanno create stanno invecchiando dal punto di vista anagrafico, al punto che numerose aziende si trovano di fronte alla non facile scelta di dover cedere una fetta consistente del proprio capitale ad operatori esterni oppure cessare l’attività per mancanza di una imprenditoria locale in grado di garantirne la continuità[2]. Dunque non sarebbe troppo azzardato avanzare l’ipotesi che la prolungata crisi di questi anni non sia soltanto una diretta conseguenza della lunga recessione economica che attanaglia il paese, bensì anche un effetto del prolungamento di questa delicata fase di avvicendamenti alla guida delle imprese, sia leader di mercato che piccoli terzisti. Spesso, infatti, dietro le numerose cessazioni registrate in questi anni, non vi sono delle ragioni prettamente economiche, ma piuttosto divergenze famigliari mai sanate, incapacità di trasmettere saperi, visioni strategiche limitate alle proprie risorse familiari, elementi riconducibili alla dimensione culturale che finiscono per avere una grande rilevanza economica.

Molti imprenditori appartenenti più o meno alla medesima generazione si trovano a dover gestire una situazione nuova e delicata, mai affrontata prima - il ricambio generazionale - che li costringe a pianificare o, al peggio, improvvisare il passaggio di mano della propria azienda, il quale implica anche la trasmissione di determinati saperi e valori. Questa prolungata fase di avvicendamenti non può essere pienamente compresa senza considerare il contesto culturale specifico nel quale imprese e imprenditori operano. Nel contesto brianzolo non si può prescindere dalla famiglia, la quale ha sempre svolto un ruolo chiave nella vita di una impresa, contribuendo a creare e a sostenere nel tempo una forma di familismo imprenditoriale di matrice cattolica [Ghezzi 2007]. Tuttavia, come cercherò di mostrare in seguito, non dobbiamo considerare questa caratteristica come una risorsa costante nel tempo; fino ad oggi si è rivelata una risorsa preziosa per il decollo dello sviluppo locale, ma potrebbe anche costituire un vincolo e un limite in conseguenza del cambio generazionale all’interno di contesto storico-economico molto diverso rispetto all’epoca in cui quelle stesse imprese furono fondate. È un’ipotesi che non vuole rispolverare vecchi pregiudizi provenienti dalla teoria della modernizzazione, la quale esecrava ogni funzione economica produttiva della famiglia, etichettandola come pre-moderna ed inefficiente, bensì segnalare la percezione di alcune contraddizioni che cominciano ad affiorare tra gli imprenditori stessi di fronte ai continui e rapidi mutamenti nell’economia globale.

Studiando le imprese famigliari nel settore della seta nel comasco, l’antropologa americana Sylvia Yanagisako ha raccolto un “adagio” che riassume molto emblematicamente le difficoltà a garantire una continuità imprenditoriale quando viene ricercata volutamente all’interno della famiglia. Sono gli stessi imprenditori a ricordarlo, ripetendo spesso in dialetto il detto che in italiano suona più o meno così: «Il nonno fondò, i figli sviluppano, i nipoti distruggono» [Yanagisako 2002, 1]. In Brianza sono ancora poco numerose le imprese giunte ai “nipoti” ed è anche possibile che molte neppure dureranno tanto a lungo, in parte per le ragioni suddette, in parte per la loro debolezza sul mercato, ma la questione rimane comunque valida per la trasmissione dalla prima alla seconda generazione, passaggio che nella mia esperienza di ricerca si riduce quasi sempre ad una "questione di famiglia", cioè dai padri ai figli, ma che, come sarà spiegato in seguito, ha poco a che vedere con i meccanismi inerziali ed egalitari del diritto successorio che, come è noto, in Italia prevedono automatismi obbligatori, cioè il rispetto delle quote ereditarie di legittima per tutti gli eredi.

Prima di affrontare questa questione, però, vorrei fare un passo a ritroso e soffermarmi brevemente sull’importanza della struttura famigliare nel periodo iniziale di formazione dell’impresa e sulla crescente contiguità tra impresa e famiglia nella fase successiva, durante il processo di consolidamento dell’impresa stessa. Nel ripercorrere il ruolo della famiglia nella genesi della piccola e media impresa, vorrei riprendere una riflessione iniziata da Alessandra Pescarolo, in un articolo di qualche anno fa [1994], nel quale si analizzava il mutamento delle strutture proprietarie delle imprese di nuova costituzione e l’evoluzione interna di quelle che sono giunte alla generazione dei figli (la seconda generazione). Nell’articolo Pescarolo sosteneva che, almeno per quanto riguarda l’area di Prato, tra le imprese manifatturiere di costituzione più recente, erano numericamente in crescita quelle fondate per iniziativa di soci senza legami parentali fra loro. Si trattava di un fenomeno nuovo che presumibilmente dimostrava l’avvenuta «defamilizzazione» dell’impresa nella fase di start-up. Ci si associa più sulla base di una condivisione delle conoscenze del settore e del percorso tecnico-professionale, e meno sulla base della presunta maggior affidabilità della parentela[3]. Nel lungo periodo, però, si assiste a un ritorno della famiglia, che subentra al socio, o lo affianca, a dimostrazione del fatto che la struttura iniziale di gestione della proprietà non familiare non dura nel tempo. Si rileva così un processo di «rifamilizzazione» dell’impresa che però genera una ulteriore complicazione dei rapporti di parentela nella fase successoria.

Per quanto concerne la Brianza si potrebbe partire da alcuni dati relativi al profilo giuridico delle imprese forniti dalla Camera di Commercio di Milano e Monza Brianza e riportati nella seguente tabella.

Tabella 1. Distribuzione di frequenza delle imprese secondo la forma giuridica, nella provincia di Monza, anni 1995-2013

Forma giuridica% 1995% 2005% 2015
Fonte: CCIAA di Milano per gli anni 1995 e 2005; CCIAA di Monza per l’anno 2015
Società di capitali20,7320,9325,70
Società di persone28,3124,4220,50
Ditte individuali50,4452,7852,00
Altre forme giuridiche0,521,871,80

La prevalenza di società individuali, l’incremento di società di capitali (Soc. per azioni, Soc. a responsabilità limitata, Soc. in accomandita per azioni) e di altre forme giuridiche (Soc. cooperative, Soc. consortili), e la costante diminuzione delle società di persone (Soc. semplice, Soc. in nome collettivo, Società in accomandita semplice) rilevata nell’ultimo ventennio può intuitivamente dar credito all’ipotesi di una diminuzione della componente familiare nella struttura di gestione della proprietà. In realtà, l’analisi etnografica mostra un’evidenza che va nella direzione opposta, confermando così l’idea che non vi sia incompatibilità tra forma giuridica e coinvolgimento della famiglia. Nelle trentadue imprese (una società per azioni, due imprese individuali, quattro a responsabilità limitata e il resto società in nome collettivo) che ho potuto visitare durante la mia ricerca sul campo in alcuni centri della Brianza monzese, la famiglia degli imprenditori in questione aveva avuto un ruolo tutt’altro che marginale. Per esempio, a prescindere dalla forma giuridica, tutte avevano ricevuto una qualche forma di aiuto - finanziaria, logistica o di risorse umane - dalla famiglia o dalla parentela più estesa dell’imprenditore. Quattordici imprese avevano iniziato l’attività come società individuali, ma al momento in cui si svolse la mia ricerca soltanto una era rimasta tale, gestita dal medesimo imprenditore. Costui, però, aveva un figlio in età scolare nei confronti del quale in famiglia si nutriva la speranza che potesse costruire il proprio futuro professionale all’interno dell’azienda paterna. Le altre imprese si erano trasformate tutte in società di persone o di capitali con il graduale ingresso di vari membri della famiglia. Delle sette imprese costituite da soci privi di legami di parentela, tre erano rimaste immutate per quanto riguarda la forma giuridica e la struttura proprietaria, le altre si erano “familizzate”. Infine va segnalato il fatto che in sette casi l’impresa e la famiglia erano così intrecciate fra loro che la sfera domestica e di produzione costituivano praticamente un’unica struttura organica, anche dal punto di vista edilizio-architettonico, con la fabbrica ancora annessa all’abitazione.

Il coinvolgimento della famiglia e dei parenti continua dunque ad essere una pratica diffusa in imprese di ogni forma giuridica. Dietro alla proprietà individuale può celarsi una partecipazione attiva ancorché informale dei membri della parentela: i figli e la moglie, per esempio, oppure un fratello, i quali possono eventualmente essere cooptati come azionisti o soci dell’azienda, alterando il profilo giuridico dell’impresa originaria. Inoltre, quando una società in nome collettivo artigiana si sviluppa oltre una certa soglia, i commercialisti – agendo da consulenti finanziari dei piccoli imprenditori e da persone di fiducia – ai propri clienti suggeriscono di cambiare la forma giuridica dell’impresa e di trasformarla in una società a responsabilità limitata o in una società per azioni. In quest’ultimo caso l’impresa è soggetta ad un regime fiscale diverso e, formalmente, non può essere considerata artigiana; tale trasformazione però sancisce, formalizzandolo, il coinvolgimento di altri familiari, sebbene privi di un potere manageriale o decisionale, attraverso la redistribuzione nominale e simbolica delle quote di proprietà.

La famiglia entra nell’attività imprenditoriale in modo rilevante a partire dal momento stesso in cui uno dei suoi membri decide di “mettersi in proprio” abbandonando, cioè, una posizione di lavoratore dipendente. Tendenzialmente, nei casi da me studiati, madri e mogli mostrano un atteggiamento più cauto e meno improntato al rischio, specialmente quando la scelta imprenditoriale avviene nel momento in cui la posizione lavorativa del futuro imprenditore è stabile e consolidata; tuttavia, per quanto possano nutrire sempre qualche ragionevole dubbio sulle scelte fatte dai loro figli o mariti, alla fine anche loro vengono assorbite dalla frenetica attività della nascente impresa. Non è pertanto raro incontrare negli uffici delle aziende donne che hanno “scelto” di rinunciare al proprio impiego per farsi assumere alle dipendenze del marito come segretarie o impiegate d’ufficio, formalizzando un rapporto di lavoro che oramai era diventato continuo e indispensabile man mano che il lavoro cresceva, non più conciliabile con altre occupazioni retribuite. Molto spesso (in sei casi) il medesimo ruolo viene poi ricoperto dalle figlie quando raggiungono l’età adulta. Tornerò su questo aspetto e sulle sue implicazioni nel prossimo paragrafo.

L’appoggio morale e materiale è meglio compreso se messo in relazione alla componente familistica che connota la definizione di famiglia in Brianza. Dai familiari ci si aspetta massima collaborazione, perché da ciò dipende il benessere della famiglia: è un obbligo morale, indipendentemente dal fatto che i rapporti di lavoro siano mercificati o no. In altri termini, mentre il coinvolgimento dei dipendenti è regolato in primis da rapporti salariali e da transazioni monetarie formali, la partecipazione dei membri della famiglia trascende ogni formalità contrattuale, e va a toccare la sfera emozionale delle relazioni. D’altro canto gli aspiranti imprenditori (maschi) sono ben consapevoli del fatto che buona parte del successo della propria attività imprenditoriale potrebbe dipendere dalla lealtà espressa dai familiari e dalla struttura parentale più estesa, la quale si esplica in una forte dedizione al lavoro e in varie forme di aiuto e cooperazione (prestito di denaro, richiesta di lavoro flessibile, assistenza nell’espletare obblighi burocratici e finanziari, acconsentire ad una temporanea collocazione fisica delle apparecchiature nell’abitazione).

Naturalmente, le considerazioni di tipo materiale sono egualmente importanti. Una volta che la decisione di diventare imprenditore è presa, lasciandosi alle spalle la condizione di lavoratore dipendente, e ritrovandosi spesso fortemente indebitati, per la componente adulta della famiglia diventa rischioso e imprudente ritirare il proprio supporto, in quanto ciò potrebbe seriamente mettere a repentaglio l’esistenza dell’impresa stessa e di riflesso quella della famiglia.

Il rischio è reale, poiché il dipendente che si mette in proprio ha l’urgenza di lavorare intensamente per ripianare i debiti contratti: «Ho passato tante notti insonni, pensando ai debiti che avevo da pagare», mi disse Carlo, uno dei miei interlocutori, mentre spiegava le difficoltà incontrate durante il periodo iniziale, rammentando di aver dovuto impegnare anche la casa di famiglia per poter acquistare un nuovo capannone. Anche Oliviero, coetaneo di Carlo, dovette fare l’ipoteca sull’abitazione intestata alla moglie: «Mia moglie non era molto d’accordo all’inizio, perché aveva paura per i debiti. Lei era più tranquilla se io continuavo a fare l’operaio facendo le mie nove ore normali, dove si tornava a casa la sera, sempre [per la cena]. Mentre così, invece, è stata una vita da dannarsi». Si ripropone dunque nella narrazione la stereotipizzazione di ruoli famigliari speculari e contrapposti ma, come vedremo, ideologicamente funzionali all’impresa stessa: la moglie-madre che incarna il ruolo di persona oculata e prudente, con un occhio di riguardo verso il benessere della famiglia; il marito-padre, invece, che incarna il ruolo dell’imprenditore improntato maggiormente al rischio, il quale adotta comportamenti che potrebbero compromettere la sicurezza economica della propria famiglia.

Per tutte queste ragioni, quindi, diventa poco realistico immaginare una imprenditorialità defamilizzata in Brianza. Spesso le storie di vita sembrano contraddire questa posizione, perché in esse prevale la voce narrante di un imprenditore egocentrico, assorto a raccontare la carriera di sé come di un self-made man, intorno al quale ruotano personaggi secondari. Invece, nella ricostruzione etnografica a più voci del processo di formazione dell'impresa – anche per quanto concerne le ditte individuali o le società di persone costituite da soci senza legami di parentela fra loro – emerge un quadro differente e certamente più realistico: la molteplicità degli attori coinvolti, piuttosto che una visione solipsistica dell’imprenditore; un processo decisionale concertato con i familiari, piuttosto che una scelta ponderata in completa autonomia; un apporto più o meno informale del parentado per sopperire alla mancanza di risorse esterne o per integrarle, piuttosto che il ricorso esclusivo al mercato.

Conflitti ed esclusioni: la visione androcentrica dell’imprenditore

Il processo di familizzazione comporta, come abbiamo visto, il progressivo coinvolgimento di individui appartenenti alla famiglia e alla parentela dell’imprenditore, i quali contribuiscono a rendere più complessa la struttura dell’azienda stessa. La trasformazione familistica di una struttura proprietaria può andare in due direzioni: verso una nuclearizzazione della proprietà oppure verso una struttura dove prevalgono più nuclei famigliari collaterali. Non sono traiettorie inconciliabili, perché una può trasformarsi nell’altra in base al dinamismo del ciclo di vita familiare. Non si è però detto ancora nulla sul grado di coinvolgimento dei componenti di tali nuclei. Non tutti i membri della famiglia, infatti, entrano a far parte dell'impresa allo stesso modo, sviluppando lo stesso senso di appartenenza e grado di coinvolgimento. Anche quando vi è un impegno simile, questo viene percepito in maniera diversa a seconda della mansione ricoperta. La divisione dei compiti che appare fondata sulle capacità e competenze espresse dai singoli individui è in realtà influenzata dal genere e dai ruoli assunti in famiglia.

La leadership del proprietario imprenditore è legittimata dalla competenza tecnica costruita nel tempo e dalla totale abnegazione verso il lavoro che lo porta ad avere una identificazione assoluta verso la propria azienda. Ai suoi occhi non si tratta di un semplice investimento economico, bensì dell’esito positivo di uno sforzo fisico, mentale, emotivo e, naturalmente, economico che è divenuto la propria raison d’être. Ciò contribuisce ad incrementare il sentimento di orgoglio personale derivante dal fatto di essere riuscito a creare qualcosa di importante per sé, ma soprattutto per i propri figli, facendo molti sacrifici, anche se ciò ha fatto di lui un padre pressoché assente. Inoltre, questa totale identificazione con il proprio lavoro lo induce a rimanere in azienda anche dopo aver raggiunto l’età della pensione[4]

Per i famigliari dell’imprenditore, invece, il percorso di costruzione del loro ruolo è una strada tutta in salita ed il loro riconoscimento da parte del leader non avviene nei termini delle aspettative maturate dai diretti protagonisti. L’anti-intellettualismo di molti imprenditori, che spesso si radicalizza nel passaggio da lavoratori dipendenti a proprietari di azienda, li induce a ritenere che vi siano due tipi di lavori indispensabili, quello produttivo e quello improduttivo [Ghezzi 2007, 189-194], ma che soltanto il primo, l’attività di fabbrica, abbia una valenza positiva e sia dunque da preferire all’altro, cioè a tutte quelle attività quotidiane burocratico-amministrative e di marketing che sottraggono tempo alla produzione, il cuore vitale dell’azienda. Generalmente è la componente femminile della famiglia ad essere investita di questa incombenza. Le donne possono anche dare una mano in reparto quando è necessario, ma il loro sarà sempre un apporto secondario di sostegno, perché quello è lo spazio che simbolicamente definisce e legittima le competenze dell’imprenditore; esso, infatti, rappresenta il luogo in cui si è formato dal punto di vista tecnico, in cui ha costruito la sua reputazione e in cui si è realizzato economicamente.

Così s’intravede un processo di strutturazione dei ruoli lavorativi che determinerà in parte la composizione dei futuri assetti societari, quando il padre fondatore si sarà fatto da parte. Nella sua visione familistica e androcentrica la continuità dell’attività imprenditoriale dovrebbe essere affidata idealmente al figlio (o ai figli) maschio formatosi tecnicamente sotto l’occhio vigile del padre e dei suoi operai specializzati. Nel caso vi sia anche una figlia, si prospetta un modello ideale di successione in cui è contemplata la compresenza delle competenze: quelle tecniche sono assunte dal figlio maschio, al quale si richiede, inoltre, un atteggiamento orientato al rischio - per un imprenditore ciò significa soprattutto continuare a fare investimenti - mentre quelle amministrative sono assunte dalla figlia, la quale deve mostrare invece un comportamento parsimonioso, per “frenare” la “voglia” di spendere (spesa per investimenti) del figlio. Così si riprodurrebbe nel rapporto tra fratello e sorella quella specularità dei ruoli vigente nell’impresa di prima generazione tra il marito-imprenditore incline al rischio e la moglie prudente di costui. In questi casi non è infrequente rilevare una distribuzione delle quote di capitale che “premia” la componente maschile, proprio in virtù dell’importanza del suo lavoro “produttivo”.

Questa divisione di genere delle mansioni e dei ruoli, però, ha anche un impatto sulle scelte scolastiche dei figli e sulla durata del loro percorso educativo. Orientarsi verso una formazione tecnica significa privilegiare gli aspetti pratici, quindi il lavoro di produzione, e scuole di tipo professionale in grado di fornire una maggiore padronanza della tecnologia operativa di base, oppure scuole superiori di orientamento tecnico. Invece, il lavoro “improduttivo”, essendo meno valorizzato e meno responsabilizzante, offre a chi sceglie questa strada uno spettro più ampio di scelte in campo educativo. Per i figli indirizzati a migliorare le loro competenze tecniche, l’ingresso precoce nell’impresa è ritenuta una scelta opportuna e necessaria. Questa, però, può portare a un rendimento scolastico non molto soddisfacente fino alla definitiva interruzione degli studi. Per contro la scelta di completare gli studi universitari, ritardando o sospendendo il proprio apporto lavorativo in azienda, può far nascere dissidi e malumori. Vorrei citare come esempio due casi particolarmente emblematici.

Nello e suo fratello Pino erano proprietari di tre piccole imprese rivolte rispettivamente alla produzione, assemblaggio e vendita all’ingrosso di cuscinetti a sfera di vario genere. Con la morte improvvisa di Pino, il figlio Giacomo, nipote di Nello, al tempo studente in ingegneria, ne aveva ereditato le quote di proprietà. Per quanto riguarda le due figlie di Nello invece, soltanto la più giovane fu coinvolta nelle attività dell’impresa, appena diplomatasi in ragioneria, in sostituzione della segretaria che si era licenziata dopo la maternità. La maggiore rimase sempre esclusa dalle attività delle tre imprese e lavora in un negozio di abbigliamento di cui è proprietaria con la madre. Quest’ultima, ex-operaia tessile, prima di gestire il negozio, lavorava occasionalmente nelle prime due imprese: «Non faceva niente di particolare – afferma Nello – lei veniva solo ad aiutare, a tenere d’occhio le operaie [nella fabbrica di assemblaggio sono tutte donne]; metteva in ordine l’ufficio e faceva i conti». Con la nascita delle due figlie il suo aiuto diventò sempre più discontinuo. L’aspetto interessante è che Giacomo in seguito dovette vendere le sue azioni allo zio dopo un periodo di tensione fra i due. Nello sostiene che non potevano sopportarsi a vicenda e da allora non si parlano più, nemmeno con la cognata, la madre di Giacomo. A suo parere, il nipote, studente universitario, non poteva comprendere i problemi e le difficoltà delle tre imprese, perché era troppo preso dagli studi di ingegneria: «Non era il suo mestiere fare questo lavoro qui. Era uno studente universitario e non sapeva nulla di meccanica. Aveva paura a investire, aveva paura di tutto. Secondo me mio fratello ha sbagliato con lui. Se avessi avuto un figlio, l’avrei portato qui dentro dall’inizio, gli avrei fatto vedere io come si fa a lavorare. Lo lasciavo andare all’università, però doveva stare anche qui, perché il suo posto è qui... purtroppo non ho un figlio…».

Anche nel caso seguente l’esclusione di alcuni figli fu in parte determinata dal prolungamento degli studi e dal conseguente mancato coinvolgimento nelle attività aziendali durante il periodo di studio. Bruno e suo fratello avevano iniziato l’attività imprenditoriale da giovani, creando una impresa che produceva mobili per ufficio. Avevano entrambi due figli ciascuno, più o meno coetanei: due maschi Bruno e due femmine il fratello. Bruno sostiene che lui e il fratello erano praticamente rimasti d’accordo di trasmettere l’intera proprietà ai suoi due figli maschi che, fondamentalmente, «erano venuti grandi qui dentro». Tuttavia, la cognata di Bruno e le figlie di lei non avevano condiviso quella decisione. Infatti, la cognata aveva richiesto che le sue figlie entrassero in azienda appena conseguita la laurea. La prima assunta fu la figlia minore, la prima a laurearsi fra tutti i cugini, e andò a lavorare subito in amministrazione. Ma Bruno non poteva accettare che una delle sue nipoti, che non aveva mai messo piede in azienda prima, occupasse una poltrona in ufficio e si comportasse come una manager, mentre loro (i due fratelli e i figli di lui) stavano in reparto a sudare e a «lavorare come dei dannati». Bruno era particolarmente irritato dal rifiuto della nipote di «rimboccarsi le maniche» e di aiutare gli altri in reparto. Nei momenti di maggior intensità di lavoro, con molti ordini da evadere e tempi di consegna stretti, tutti dovevano dare il proprio contributo e lavorare anche sulle macchine di falegnameria, se necessario. Sua nipote, al contrario, non considerava questo compito consono al proprio lavoro. Bruno disse al fratello che non si poteva accettare questa situazione e costrinse la nipote a dare le dimissioni. Alcuni mesi dopo, il fratello di Bruno, «su istigazione della moglie», gli propose di far assumere in azienda la figlia maggiore, assieme al marito (si erano da poco sposati). Dal momento che entrambi erano laureati in economia, avrebbero potuto contribuire alle attività di ufficio e di marketing. Di nuovo, Bruno si oppose. Nessuna delle nipoti aveva mai mostrato alcun interesse nelle attività della ditta prima di laurearsi, né avevano mai dato una mano in reparto: «Questa è una fabbrica artigianale, dove le persone devono muoversi dappertutto, devono fare qualunque cosa, per aiutarsi a vicenda». Alla fine il fratello di Bruno, nell’impossibilità di mediare tra sua moglie e il fratello, decise di andarsene. Raggiunta l’età del pensionamento si procedette alla vendita dell’azienda. Tutta l’operazione venne affidata a un commercialista contattato per dirimere le questioni economiche. Fu determinato il valore dell’impresa e il risarcimento delle quote del fratello. L’impresa venne ricostituita con la partecipazione societaria dei due figli di Bruno. Il maggiore ha una laurea in economia, mentre il minore è diplomato in un istituto tecnico industriale. Entrambi lavorano sia in reparto che in ufficio.

Il processo di ricambio che porterà alla determinazione del nuovo assetto societario deve fare i conti con la weltanschauung dell’imprenditore, che non sempre coincide con quella della propria famiglia. Quando poi le famiglie coinvolte sono più di una, la pluralità di interessi aumenta. Ma è appunto sul piano simbolico che troviamo profonde divergenze. L’esperienza lavorativa dei figli presenta traiettorie estremamente diverse da quelle dei padri. Non possono rivendicare un’esperienza lavorativa come quella paterna accumulata in lunghi anni di lavoro durante i quali hanno maturato la consapevolezza di poter realizzare le proprie ambizioni imprenditoriali. Non sono i fondatori dell’impresa, per i quali l’imprenditore ha compiuto «enormi sacrifici». Infine si trovano nella difficile condizione di dover conciliare il lavoro nell’impresa e l’adempimento formativo scolastico, l’uno ritenuto fondamentale, l’altro funzionale al primo. All’interno di questa logica è evidente la gerarchia dei valori messi in campo. Intraprendere un percorso di studi autonomo oppure mostrare una dedizione maggiore verso questi ultimi a scapito di un coinvolgimento nelle attività dell’impresa è interpretato dall’imprenditore come indice di scarso o inadeguato attaccamento alle sorti dell’impresa. L’autoesclusione (spontanea o indotta) delle donne o la loro frequente marginalizzazione rappresentano l’esito di questa visione imprenditoriale che ho definito androcentrica [Ghezzi 2007] e spiegano quindi i bassissimi livelli di imprenditorialità femminile nel campo manifatturiero in Brianza. Vi è, però, un altro aspetto sociologicamente rilevante che va messo in relazione a questo comportamento. Poiché i padri nutrono minori aspettative nei confronti delle figlie per quanto concerne il loro coinvolgimento in azienda, queste possono dedicarsi agli studi scegliendo con maggiore libertà e senza subire molte pressioni, raggiungendo titoli di studio più elevati di quelli conseguiti dai fratelli. Dal loro punto di vista ciò non va inteso necessariamente come un modo per affrancarsi dalle sorti dell’azienda familiare, diventa piuttosto lo strumento per conseguire competenze avanzate che le porterà a ridefinire il proprio ruolo professionale e, dunque, a rivendicare ruoli di maggiore responsabilità all’interno dell’impresa stessa.

L’avvicendamento in azienda tra l’imprenditore fondatore e i propri figli si realizza in un quadro di conflittualità limitata e controllata, quando vi è una sostanziale tenuta della leadership dell’imprenditore e tutti appartengono ancora alla medesima famiglia nucleare. Nel momento in cui vi è il distacco tra la famiglia ascendente e una o più famiglie discendenti – in seguito al matrimonio dei figli – l’impresa contribuisce ad associarle piuttosto che a disgiungerle, ma soltanto fino ad un certo punto. Infatti, considerando tutte le imprese famigliari che sono state coinvolte nella ricerca etnografica, si può osservare che nel caso in cui l’impresa sia sostenuta dalla partecipazione attiva di due o più famiglie collaterali (le famiglie di due fratelli, per esempio) la presenza dei cugini può far nascere una conflittualità potenziale molto elevata, come i due casi precedenti illustrano chiaramente. È come se la coesione tra fratelli, che aveva costituito un punto di forza dell’impresa, scompaia quasi integralmente con l’affacciarsi della nuova generazione – quella dei figli-cugini – alle soglie dell’azienda. L’impresa familiare polinucleare, dunque, sembrerebbe mantenersi maggiormente coesa lungo le linee verticali della parentela (padre-figlio/a), destinate peraltro a dissolversi per l’estinzione degli ascendenti, mentre mostra tutta la sua fragilità nella propagazione per linee collaterali (tra fratelli), con conseguente rischio di espulsione e di scissione. I fattori di espulsione e scissione d’impresa, però, non sono soltanto legati alla dinamica demografica della famiglia ed alla natura transitoria delle sue forme, ma anche dalle caratteristiche dell’impresa stessa.

Per chiarire questo punto vorrei citare brevemente il caso di un’impresa giunta oramai alla terza generazione, che è riuscita non soltanto ad incorporare più famiglie collaterali costituite da quattro cugini, ma anche a non emarginare la componente femminile della parentela. Si tratta dell’impresa dei fratelli Lanieri (Beppe e Lucio), la quale produce accessori per mobili da tre generazioni e non appare conformarsi al detto secondo cui il nonno fonda, il padre sviluppa e i nipoti distruggono. Anzi, il coinvolgimento dei nipoti, i due figli maschi di Beppe e le due figlie di Lucio, è stato determinante per dare nuovo slancio all’impresa di famiglia, attraverso un’attività imprenditoriale gestita collettivamente, senza quindi una leadership vera e propria, incarnata storicamente dal nonno oramai scomparso da tempo. Questa metamorfosi della figura imprenditoriale, però, si è avviata sulla base di un processo di formazione abbastanza tradizionale da parte dei cugini e in linea con quanto avviene presso molte altre imprese famigliari. I figli di Beppe, infatti, avevano interrotto gli studi di ingegneria per occuparsi degli aspetti tecnici della produzione, mentre le figlie di Lucio, laureatesi in lingue straniere ed economia, rispettivamente ricoprono incarichi amministrativi e svolgono attività di marketing. Inizialmente ritenevo che la diversità del caso Lanieri rispetto ai due precedenti fosse spiegabile con il superamento di una visione operaistica dell’imprenditorialità, con il riconoscimento dell’importanza delle attività “improduttive”, quelle che in pratica «ti consentono di vendere ciò che produci». Questo aspetto non va trascurato, ma vi è anche un altro elemento che entra in gioco e che attiene alle condizioni che potremmo definire “materali” dell’impresa stessa.

Sulla base delle informazioni raccolte intorno al piccolo gruppo di imprese coinvolte – informazioni che non hanno alcuna pretesa di rappresentatività statistica e che in ambito non antropologico verrebbero definite “aneddotiche” – ho ipotizzato uno schema che rende conto di quegli elementi strutturali dell’impresa che fanno da sfondo al potenziale conflittuale.

In una tabella a doppia entrata (Figura 1) ho incrociato due dimensioni materiali, una attinente alla intensità di capitale impiegato dall’impresa (macchinari e tecnologia) e l’altra relativa alla dimensione del patrimonio familiare. Vi sono imprese nelle quali l’alta intensità di capitale ha significato una rinuncia patrimoniale da parte della famiglia, perché una quota considerevole della ricchezza creata grazie all’attività imprenditoriale è stata reinvestita nell’impresa stessa; mentre all’estremo opposto vi sono imprese nelle quali la capacità di generare costantemente profitti elevati a basso livello tecnologico e senza la necessità di dover ricorrere ad una frequente iniezione di capitali ha consentito l’accumulazione di un patrimonio familiare ragguardevole. Tra questi due estremi si trovano situazioni intermedie; per esempio, quelle in cui la scelta, spesso obbligata, di investire nell’impresa ha dato i suoi frutti facendo incrementare i margini di profitto e di conseguenza, anche il patrimonio familiare; oppure quelle in cui quest’ultimo è rimasto moderatamente basso a causa di una gestione imprenditoriale di basso profilo, come tipicamente avviene nelle imprese che si collocano ai livelli bassi della filiera produttiva distrettuale.

Al fondo del problema della necessità di scelta combinatoria tra patrimonio familiare e impresa vi si trova un’incompatibilità più profonda e al tempo stesso inevitabile. Con il passare del tempo, il nucleo originario della famiglia si evolve: i figli/fratelli in età adulta possono contrarre matrimonio e quindi creare nuovi nuclei familiari di varie dimensioni. Diventa dunque difficile assicurare a tutti i membri la partecipazione alle attività dell’impresa, anche in misura variabile, e al contempo mantenere una coesione organizzativa e patrimoniale. In un certo senso è come se il processo di familizzazione dell’impresa raggiungesse un punto di saturazione e fosse per sé necessario un ridimensionamento della struttura proprietaria familiare. Ciò frequentemente si traduce in un ritorno alla nuclearizzazione (anche parziale). Spesso si interviene in anticipo sui tempi, prima di arrivare alla cosiddetta saturazione, attraverso una diversa articolazione delle quote di controllo e adottando quelle strategie di marginalizzazione ed esclusione di cui ho parlato nelle pagine precedenti. In ogni caso, qualunque sia la via di uscita considerata, è frequente il ricorso al patrimonio come forma di compensazione. È una decisione che “costa caro”, verrebbe da dire, non soltanto in termini monetari, ma anche e soprattutto in termini di rapporti sociali e destino dell’impresa. Può essere rimandata nel tempo nel caso in cui l’impresa familiare ad alta densità di capitale rappresenti una importante fonte di reddito e di prestigio sociale: ciascun nucleo cercherà di conservare qualche quota societaria anche senza un ritorno economico significativo, oppure si darà da fare per partecipare alle attività d’impresa fin quando possibile. L’azienda dei fratelli Lanieri, per esempio, si colloca attualmente in questa situazione; la crescita dimensionale dell’impresa è compatibile con l’attuale dimensione genealogica della famiglia («qui dentro c’è spazio per tutti»); inoltre, l’elevato patrimonio familiare accumulato negli anni potrebbe rendere meno conflittuale un eventuale rimescolamento delle quote societarie in futuro. Una situazione moderatamente conflittuale potrebbe emergere anche nel caso in cui una famiglia “povera” dal punto di vista patrimoniale debba gestire una impresa a bassa intensità di capitale, perché l’entità della compensazione non sarà elevata. Diametralmente opposto è il caso in cui una o più famiglie si trovano a gestire un’impresa a elevata intensità di capitale senza alle spalle una situazione patrimoniale familiare solida, poiché l’eventuale liquidazione di uno o più soci minaccia di indebolire ulteriormente la ricchezza patrimoniale della famiglia e di lasciare strascichi nelle relazioni parentali. Naturalmente, come si è detto, i contrasti possono sorgere prima che sopraggiunga la saturazione determinata dal naturale evolversi della struttura familiare; se essi appaiono insanabili, i rischi di scissione o espulsione diventano ineludibili. Spesso ciò comporta la separazione dei rami famigliari, la rottura dei legami di solidarietà e il conseguente rischio di disfacimento della parentela, ma crea anche le condizioni per intraprendere nuove iniziative imprenditoriali. Nel caso dei fratelli Lamberti, infatti, il nucleo famigliare espulso dall’impresa originaria ha successivamente intrapreso una nuova attività imprenditoriale, utilizzando come capitale iniziale una parte consistente dell’ammontare patrimoniale ricevuto a compensazione della vendita delle proprie quote societarie alla famiglia dell’altro fratello.

Figura 1. Conflitto nei passaggi generazionali: capitale d’impresa e ricchezza patrimoniale della famiglia

 Impresa ad alta intensità di capitaleImpresa a bassa intensità di capitale
Famiglia "povera"Conflitto elevatoConflitto moderato
Famiglia "ricca"Conflitto moderatoConflitto basso

Conclusioni

Nel riflettere sul tema del familismo imprenditoriale l’impresa familiare e l’impresa non familiare (e non familizzata, che qui però non abbiamo potuto esaminare per mancanza di spazio) incarnano due realtà economiche differenti fra loro; l’una a differenza dell’altra si distingue per il legame a doppio filo con l’istituzione familiare e tutto ciò che concerne la sfera sociale e culturale di questa. Vi è una contiguità non solo finanziaria, ma anche morale, normativa e cognitiva che la rendono particolarmente esposta a “interferenze” extraeconomiche. É evidente che la famiglia e l’impresa esistono per ragioni differenti; i principi che regolano le attività nel sistema famiglia sono qualitativamente diversi da quelli che governano le attività imprenditoriali d’impresa [James Jr 1999]. Da ciò deriva la peculiarità dell’impresa famigliare, come organizzazione sui generis che fa dell’intreccio fra relazioni economiche e personali intime (consanguinee e coniugali) un punto di forza per il sostegno dato all’impresa, ma anche di debolezza, per i conflitti che possono generarsi. Perciò quando i principi economici della gestione aziendale e l’economia morale della famiglia entrano in aperto contrasto, l’imprenditore si trova a dover gestire problematiche idiosincratiche e complesse attraverso forme di mediazione non sempre efficaci. Tale confronto segna un punto di non ritorno, a partire dal quale i nuclei familiari e l’impresa coinvolti non saranno più gli stessi di prima.

Nell’affrontare questo tema ho presentato due facce della stessa medaglia. Sono partito dalla considerazione che la famiglia e la parentela più stretta abbiano una capacità di coalescenza notevole, alimentata dalla matrice culturale e ideologica di cui sono imbevute e sulle quali un imprenditore può fare costante affidamento. Grazie a tale proprietà socialmente riconosciuta famiglia e parentela sono in grado di unire assieme più persone legate, appunto, da rapporti di consanguineità, al fine non solo di coadiuvare la propria attività economica, prevalendo nel tempo sui rapporti tra soci legati esclusivamente da vincoli d’affari e di amicizia, ma anche di creare le motivazioni più recondite a favore dell’iniziativa imprenditoriale, come del resto aveva già intuito Schumpeter. D’altro canto, nel tempo tale capacità di coalescenza si comprime, facendo emergere una realtà nella quale diventa difficile trovare un punto di equilibrio senza evitare scissioni o espulsioni, perché famiglia e parentela sono strutture transitorie in perenne mutamento e inclini a creare strutture genealogiche polinucleari sia per linee discendenti dirette sia per linee collaterali, incompatibili con una organizzazione tipicamente da piccola impresa. In particolare non sembra compatibile con il mantenimento di rapporti di parentela collaterale, da qui dunque si rimette in moto un processo di rifamilizzazione, che porta allo sfrondamento del gruppo proprietario con modalità diverse a seconda delle caratteristiche dell’impresa come indicato nella figura 1.

Nella visione “emica” dell’imprenditore questi processi sono argomentati facendo ricorso a spiegazioni puramente organizzative, ispirate a criteri di scelta razionale; nella visione “etica” dell’antropologo, invece, tali processi mostrano logiche sottostanti fondate sul familismo imprenditoriale, riconducendo l’analisi sul piano ideologico e culturale. Spesso, infatti, prevale una visione anti-intellettualista e operaista dell’impresa che premia coloro che ricoprono mansioni esplicitamente produttive, a cui si associa una visione patriarcale-androcentrica che riproduce e rafforza questo pregiudizio. Sulla base di questa concezione culturale dell’imprenditorialità alcuni membri della famiglia sono dissuasi con vari mezzi dall’esercitare determinate attività. Esortando alcuni a proseguire l’attività imprenditoriale ed a seguire un corso di studi ad hoc e lasciando ampia libertà ad altri, l’imprenditore costruisce a priori una graduatoria di merito che verrà manipolata a proprio piacimento in maniera strategica, in modo da controllare più efficacemente le “pretese” avanzate dai vari membri della parentela nei confronti della “sua” azienda. Deve però fare i conti con l’articolazione degli interessi provenienti dalla famiglia e dalla parentela, tanto più contradditori quanto più la partecipazione all’attività di impresa è allargata. Il desiderio di creare una genealogia familiare dell’impresa regolata idealmente da una legge di ispirazione salica, si scontra non soltanto con il diritto successorio vigente, ma anche con le varie componenti della famiglia, non da ultimo quella femminile che, agli occhi dell’imprenditore maschio, ha come priorità non tanto il benessere dell’impresa, quanto quello dei membri della famiglia senza distinzione di genere. Qui sta una delle contraddizioni nei passaggi generazionali; in nome della continuità dell’impresa l’imprenditore rischia di minare l’unità solidaristica della parentela a partire dalle sue stesse fondamenta e, contestualmente, di non valorizzare il capitale umano potenziale che avrebbe a disposizione a vantaggio dell’impresa. Per ovviare a queste criticità l’intervento risolutivo tanto invocato dai consulenti aziendali è la separazione dei ruoli: la proprietà è mantenuta saldamente in mano alla famiglia, mentre la struttura manageriale, reclutata sul mercato, si defamilizza. Tuttavia, questo tipo di riassetto organizzativo è di difficile implementazione nella micro e piccola impresa di tipo artigianale in cui il proprietario lavora a fianco del proprio operaio, laddove quindi proprietà, gestione, produzione e controllo sono funzioni incorporate nella stessa persona.

Infine, fatte queste considerazioni ci si deve porre qualche interrogativo sui nuovi scenari che si profilano in un orizzonte temporale oramai abbastanza prossimo. Come si è detto prima, le imprese famigliari devono fare i conti con un contesto molto dinamico in cui emergono nuove economie regionali su scala globale particolarmente agguerrite sul piano della competitività. Bisogna dare atto all’imprenditorialità brianzola di aver saputo rispondere positivamente alle sollecitazioni provenienti dai cambiamenti economici. Resta da vedere, però, se le scelte strategiche del familismo imprenditoriale, per come è stato descritto in questo lavoro, e le azioni che ne conseguono siano ancora la risposta culturale più adatta ad una situazione economica sempre più complessa e dinamica.

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[1] Per una rassegna bibliografica sui distretti industriali si veda G. Becattini, et al. [2001].

[2] Secondo una ricerca condotta su un campione di imprese lombarde realizzata dalla Camera del commercio di Milano qualche anno fa, è emerso che il 40,8 percento delle cessazioni con conseguente cancellazione dal registro delle imprese è riconducibile a questioni legate a difficoltà nella successione, in maniera prevalente o rilevante [Soru 2005]. Anche l’Assolombarda è recentemente tornata sul tema pubblicando una “Guida per i passaggi generazionali”, a cura di Guido Corbetta e Alessandro Minichilli [2016].

[3] Zanotelli [2012] [2016] ipotizza invece che il modello dell'impresa defamilizzata fosse già prevalente a Poggibonsi fra gli anni Cinquanta e Sessanta: "...essa non si basò prevalentemente sulla solidarietà familiare e parentale, quanto piuttosto sull'amicizia e i legami intragenerazionali" [2016, 145]. Gli imprenditori di queste imprese si mostrarono poco interessati a costruire una dinastia imprenditoriale: "il modello da seguire fu [...] l'impresa personale o associativa, qualcosa che essi costruirono con le loro mani e che le stesse mani avrebbero condotto, più tardi, alla dissoluzione" [2016, 145].

[4] Da quanto emerge dalla citata guida di Assolombarda sul passaggio generazionale nelle imprese famigliari [Corbetta e Minichilli 2016] risulta che il 23 percento delle società familiari è guidato da un imprenditore ultrasettantenne.