Cartografie implicite e mappe di comunità

Per una diversa classificazione dei Beni culturali

Vincenzo Esposito

Dipartimento di Scienze del Patrimonio culturale - Università di Salerno

Table of Contents

Ciò che ancora ovvio non è: questioni di «potere»
La vocazione territoriale dell’antropologia culturale
Rituali religiosi, cartografie implicite
Dalla cartografia implicita alle «mappe di comunità»
Riferimenti bibliografici

Abstract. This article is about: Cultural anthropology, issues of power and definition of Cultural Heritage; religious rituals as spontaneous maps, implicit to local cultural contexts; «Parish maps» as local tool to survey and describe the cultural heritage of the area; role of the anthropologist and work with informants.

Keywords. Implicit Cartographies; Parish Maps; Ethnographic Research

Il mio discorso si articolerà in quattro sintetici punti attraverso i quali spero di poter mostrare come le nodali questioni della conservazione dei beni culturali, della loro valorizzazione quindi della loro migliore gestione o, come si usa dire, governance, non possa prescindere dalla comparazione di ciò che gli studiosi, gli organismi internazionali, i governi e gli amministratori locali intendono per bene culturale con ciò che invece è percepito come tale nelle comunità, all’interno di esse. Per l’antropologia non è possibile definire un bene culturale se non attraverso l’individuazione del senso che esso ha sul territorio, per la gente del territorio, nei quadri di riferimento e nella«mappatura dal basso»che di essi si può fare.

Ciò che ancora ovvio non è: questioni di «potere»

In tale prospettiva, quello che forse appare meno ovvio è che non sempre gli appartenenti alle singole comunità, quelli residenti in un determinato contesto, in uno specifico territorio, in un luogo particolare sono chiamati a contribuire alla definizione e alla individuazione dei cosiddetti beni culturali locali.

Si tratta di una questione di potere. Il potere di decidere cosa può essere definito come «bene culturale» e cosa invece no ma anche il potere di «poterlo fare»: chi decide e come, attraverso quali strumenti politici, amministrativi e culturali. Una questione, a ben pensarci, foucaultiana. Un potere che per manifestarsi, scrive Foucault, deve: «arrivare fino al corpo degli individui, ai loro gesti, ai loro atteggiamenti, ai loro comportamenti di tutti i giorni» [Foucault 1977, 19]. Un potere che deve cioè essere «incorporato» come «verità». Perché, come ha spiegato bene il filosofo,

La verità è di questo mondo; essa vi è prodotta grazie a molteplici costrizioni. E vi detiene effetti obbligati di potere. Ogni società ha il suo regime di verità, la sua «politica generale» della verità: i tipi di discorsi cioè che accoglie e fa funzionare come veri; i meccanismi e le istanze che permettono di distinguere gli enunciati veri o falsi, il modo in cui si sanzionano gli uni e gli altri; le tecniche e i procedimenti che sono valorizzati per arrivare alla verità; lo statuto di coloro che hanno l’incarico di designare quel che funziona come vero [Foucault 1977, 25].

Mi è capitato spesso di partecipare, invitato nelle vesti dell’antropologo accademico, a manifestazioni e convegni locali organizzati certamente con lo scopo di approfondire tematiche demologiche presenti sul territorio e care ai miei interlocutori. L’ultima volta nel mese di agosto 2016 a Fonni, in provincia di Nuoro. Il tema era il Carnevale. Un tema antropologicamente interessante, soprattutto se trattato d’estate. Certo, abbiamo discusso delle tematiche proposte per l’incontro – carnevali, mascherate, travestimenti, balli, musiche e gesti apotropaici a Fonni, in Sardegna e nel mondo – e, sicuramente, abbiamo contribuito, visto il nostro ruolo, a definire scientificamente i contorni di un «oggetto» demologico complesso e fondamentale. Tuttavia, aldilà di questo, io e gli altri antropologi accademici invitati, insieme a molti studiosi locali e a ricercatori di altre aree disciplinari, abbiamo contribuito ad evidenziare e a «produrre» – per quel luogo, per quella città sarda, per i suoi abitanti, per i politici e per gli amministratori locali – un «valore» scientifico per la manifestazione, un senso accresciuto, patrimonializzato di una importante «risorsa culturale locale», che coinvolge molte centinaia di persone e ovviamente si manifesta anche attraverso «qualità» diverse da quella scientifica. Non è infatti mistero per nessuno che il Carnevale di Fonni – come qualunque altra manifestazione culturale – ha importanti risvolti e ricadute nelle sfere della politica, dell’amministrazione, dell’economia, delle relazioni interne ed esterne al paese stesso. Coinvolge i cittadini del comune e gli autorevoli Consigli comunali, sindaci e imprenditori, associazioni culturali, testimoni della memoria storica, addetti all’ospitalità e turisti in un percorso che si arricchisce di senso e di valore ogni volta che «formalmente» si stabiliscono i criteri di validazione di ciò che la manifestazione è o sembra essere. Criteri che si affermano o si indeboliscono in un continuo confronto di idee, ipotesi, strategie, certificazioni, definizioni, detrazioni. Anche quelle di farla svolgere d’estate, con sfilate e mascherate e balli e canti che gli anziani, ad esempio, ritengono fuori luogo e fuori tempo e che l’economia del turismo, con tutta la sua compagine politico-economico-amminstrativa, ritiene invece plausibili se non auspicabili.

In tal senso, allora, il «gioco» della verità e del potere di decisione su di essa – si può fare, non si può; ha senso oppure no; è possibile o meno; serve o non serve; è «vero carnevale» o suona «falso» – rientra, per gli antropologi, in quell’attività culturale definita come patrimonializzazione [Palumbo 2003]. Un’attività nella quale essi stessi e le loro modalità di studio, di ricerca e di interpretazione rientrano. Un’attività che appartiene evidentemente al «gioco» foucaultiano del potere, che trasforma i beni culturali in patrimonio culturale. Un patrimonio materiale ma anche immateriale definito così dall’Unesco, la massima agenzia sovrannazionale che di queste cose si occupa:

le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana. [Unesco 2003, Art.2, 2].

La vocazione territoriale dell’antropologia culturale

Fin dal 1871, quando fu definita da E. B. Tylor nel «nel suo ampio senso etnografico», la «cultura» risultò essere «quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità o abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società» [Tylor in Rossi 1970, 7]. Quindi uno strumento per dar vita ad una comunità e, nello stesso tempo, in grado di indicare ai singoli appartenenti, le modalità corrette di relazione tra loro stessi e, ancora, tra loro e il mondo circostante, il contesto. Non esiste società se non in relazione ad un contesto. Non può esserci società, quindi cultura in senso antropologico, senza un territorio nel quale sia l’una che l’altra possano dispiegarsi. Cultura e società hanno bisogno di spazi da riempire con uomini e oggetti, di luoghi in cui radicarsi, di paesaggi sul cui sfondo rappresentarsi. Pena l’inesistenza. Tanto per i sedentari che per i nomadi.

Sono gli individui gli «attuatori pratici» di tali attività di riempimento, radicamento, rappresentazione. Sono loro gli artefici della trasformazione di ogni «spazio» in «luogo culturale» investendo, attraverso la dinamica tra spinte conservatrici del gruppo e necessità innovative individuali, energie utili a costruirne il senso condiviso. Come ha scritto Lucilla Rami Ceci [2003, 80], «l’individuo relaziona lo spazio a se stesso, mutando lo space in place, lo spazio in luogo, trasmette ad esso i caratteri della propria personalità e opera al fine di strutturare lo spazio in funzione di quei codici o valori culturali che permettono la fruizione di un linguaggio comune».

È in questo modo che la cultura trasforma gli spazi in luoghi, li rende paesaggi identitari e, se è vero che l’identità culturale è legata alla memoria del «chi eravamo per essere oggi quelli che siamo» vuol dire che i paesaggi identitari sono anche i luoghi della memoria collettiva o ricordo.

Le pratiche della costruzione culturale del ricordo devono essere interpretate anche come pratiche spaziali. Così un ricordo è spesso associato ad un luogo perché tale associazione aiuta la sua costruzione culturale, la sua configurazione spaziale e la sua condivisione collettiva. Come ha scritto Halbwachs [2001, 230],

Non c’è memoria collettiva che non si dispieghi in un quadro spaziale. Ora, lo spazio è una realtà che dura: le nostre impressioni si sospingono via l’una con l’altra, niente rimane nel nostro spirito, e non si capirebbe come possiamo ritrovare il passato se esso non si conservasse in effetti nel mondo materiale che ci circonda. È sullo spazio, sul nostro spazio – quello che occupiamo, dove passiamo e ripassiamo, a cui abbiamo sempre accesso, e che in ogni caso la nostra immaginazione o il nostro pensiero potrebbero ricostruire in ogni momento – che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione: è su di lui che il nostro pensiero deve fissarsi perché questa o quella categoria di ricordi possa riapparire.

Si tratta, mi pare, di un’associazione «sentimentale» della memoria ai luoghi. Cosa questa, ben studiata dall’antropologia italiana.

Nel suo volume postumo La fine del mondo, Ernesto de Martino rievoca per il lettore un episodio etnografico molto significativo. In Calabria, negli anni Cinquanta del secolo scorso, lui ed i suoi colleghi, a bordo della loro automobile, smarrirono la strada, nei pressi di un paese chiamato Marcellinara. Così decisero di chiedere consiglio a un contadino che si trovava a passare per quell’incrocio. L’uomo, molto imbarazzato, acconsentì a salire sulla vettura per fare un pezzo di strada con loro, indicando così il giusto percorso da seguire. Tuttavia, a mano a mano che svaniva dal suo orizzonte il campanile della chiesa del suo paese, il suo imbarazzo si trasformò dapprima in disagio, sempre più forte, poi in panico. Aveva perso il suo punto di riferimento spaziale: il campanile di Marcellinara. L’elemento intorno al quale si costruiva e si aggregava il senso della sua esistenza intesa non solo in quanto fatto materiale ma anche simbolico, mitico, religioso, ideologico. In altre parole, la sua identità individuale ma anche il senso di appartenenza alla sua comunità.

Il contadino calabrese incontrato da de Martino si calmò e tornò padrone di se stesso solo quando l’auto, invertita la marcia, lo riaccompagnò lì dove gli antropologi l’avevano incontrato, sullo sfondo del campanile di Marcellinara [de Martino 1977, 470-481].

Peraltro, già nel 1951, nel saggio «Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle origini. Contributo allo studio della mitologia degli Aranda», de Martino [1951-52, 51-66, poi 1973, 261-276] si occupò, appunto, del gruppo totemico achilpa (gatto selvatico), appartenente alla tribù degli Aranda. Erano aborigeni australiani nomadi, cacciatori e raccoglitori i quali, nei loro spostamenti, trascinavano un palo totemico da innalzare nei nuovi insediamenti, ad ogni sosta del loro peregrinare. Quasi a voler riscattare il rischio di quell’angoscia territoriale legata all’impossibilità di un rapporto simbolico con il proprio contesto, ricreando il paesaggio culturale abituale con il suo carico di storia, memoria, identità simbolicamente condensato nel loro palo detto Kauwa-auwa. Un «patrimonio» culturale che andò inevitabilmente perso con la distruzione del palo totemico, provocando la fine degli appartenenti al gruppo.

Attraverso gli esempi etnografici demartiniani si evidenzia dunque come la costruzione «sentimentale» del ricordo dei luoghi, quella che in altre parole li qualifica come «paesaggio culturale», non si costruisce, per così dire, solo con il pensiero, con l’esercizio della memoria e con la sua trasformazione in ricordo ma anche attraverso l’impiego di quelle tecniche corporali di cui, come esseri umani, siamo capaci e che apprendiamo per embodiment. Il paesaggio non può che essere esperito mediante i sensi, perché è con il lavoro fabrile del corpo che viene costruito ma anche sperimentato, vissuto e interpretato. Tali impressioni «corporali» sono centrali nella «costruzione», nella percezione e nella comprensione di un paesaggio culturale che lentamente muta e che perciò deve essere tenuto sotto controllo insieme alle componenti materiali che lo formano e lo definiscono, inclusi quei beni culturali «locali», materiali e immateriali, che lo caratterizzano. Un paesaggio, dunque, che è il prodotto di fatti sociali e culturali. Una concezione, questa, che cambia finanche l’idea dello spazio fisico che lo compone: non più solo il contenitore «all’interno del quale si struttura il sistema sociale» ma anche il luogo del prodursi e del manifestarsi delle relazioni sociali [Lai 2000, 16], nella loro corporeità. È anche attraverso il corpo che uno spazio sociale – il «posto» di un determinato gruppo sociale – può essere esperito per essere poi «vissuto, immaginato, raccontato e appreso», cioè dotato di senso; un senso che «si rivela nelle pratiche e nelle espressioni orali, musicali, iconografiche, con cui i luoghi si connettono alla memoria collettiva e personale», alla memoria sociale la quale «appare strettamente legata alla “topografia”» [Lai 2000, 33. Cfr. anche Bloch 1998]. Ovviamente, non escluderei dall’elenco le pratiche religiose e devozionali, come quelle che ho potuto seguire etnograficamente.

Rituali religiosi, cartografie implicite

Nel corso di una mia lunga indagine sulle feste religiose della Val d’Agri, in provincia di Potenza, ho potuto verificare come i comportamenti rituali, i canti e le narrazioni orali ad essi associati costituissero, tra l’altro, anche un tentativo implicito di mappatura del territorio che scaturiva «dal basso», da quegli stessi attori sociali direttamente impegnati nelle attività che stavo studiando etnograficamente: la partecipazione alle feste ed ai pellegrinaggi di montagna. In particolare mi colpì un canto ascoltato durante il pellegrinaggio alla Madonna di Viggiano, in provincia di Potenza. Diceva: «Si parte la Madonna da lu monte / e ppëscì a truvare a quella di Viggiano / Pë cumpagnia së purtaje la luna / lë stelle arrilucienë a manë a manë (…)». Fui attratto dal riferimento ad una delle leggende più diffuse nell’area meridionale, quella delle sette Madonne-sorelle. Delle sette sorelle una è più brutta e nera ma sicuramente quella più prodiga di grazie. È la Madonna-sorella verso la quale, in pellegrinaggio, compiendo un percorso ben preciso, si recano le altre sei sorelle-madonne, indicando l’itinerario corretto anche ai futuri pellegrini.

Riporto, qui di seguito, le impressioni che allora formulai nel mio diario:

In tutti i paesi della Valle è presente il mito delle sette Madonne-sorelle. Una di esse è proprio quella che si festeggia nel paese in cui la testimonianza viene raccolta, le altre sei sono quelle i cui santuari sono disposti sulle cime vicine. In questa maniera viene ad essere individuato uno spazio territoriale più ampio nel quale sono possibili una serie di spostamenti sicuri e delle relazioni umane non pericolose. In altre parole il territorio individuato dalle sette sorelle è quello che, pur rimanendo esterno allo spazio geografico del proprio paese, può essere considerato vicino al proprio mondo e ai propri interessi economici e sociali: è in questa cerchia di paesi che ad esempio si può prendere moglie ed è ancora in essa che si possono intessere affari commerciali […].

All’interno di un tale spazio i rituali osservati potrebbero essere considerati come una carta geografica speciale «costruita» sul territorio stesso dove, al posto delle linee delle strade si trovano i percorsi processionali o i pellegrinaggi verso i grandi santuari ed al posto dei cerchietti delle località sono disposte chiese e cappelle nelle quali le immagini sacre, chiamandosi l’un l’altra, dall’alto delle loro cime, proteggono e rassicurano [Esposito 1987, 61-62].

Mappe spontanee, cartografie implicite, come se ne possono ritrovare in tanta parte dell’Italia, non solo meridionale. Nel Cilento, in provincia di Salerno è ben conosciuta una variante della stessa leggenda che trova un fulcro orografico sulla vetta del Monte della Stella con la cappella dedicata alla omonima Madonna cui guardano, dalle cime limitrofe, altri sei santuari, sedi di culti mariani [Esposito 2005, 148-149]. Cartografie implicite che diventano orali, come ho detto, nei canti religiosi popolari che narrano localizzazioni e spostamenti delle cosiddette Sette Madonne-sorelle. In tali canti è particolarmente evidente come il tema del viaggio – degli uomini e/o della figura sacrale di riferimento – individui perfettamente il territorio simbolico della propria identità culturale e lo coniughi ad una prassi rituale tanto concreta quanto descrittiva dei luoghi della memoria, del ricordo, dell’identità. I pellegrini si muovono e «cantano» il loro territorio, descrivendolo mentre lo percorrono.

In alcune varianti dei canti da me raccolti sul campo, le sette Madonne-sorelle diventano santi-fratelli. In provincia di Salerno, ad esempio, durante il pellegrinaggio al santuario di San Michele di Cima, a Calvanico, i santi-fratelli sono nove. «Aggië venutë cu cientë cumpagni e sola sola ma n’aggia jië» recita il canto delle pellegrine che lasciano la vetta del Pizzo San Michele. Nelle strofe precedenti, il canto narra di come sia necessario scalare nove monti con nove cappelle sulla sommità, ognuna dedicata ad un santo-fratello, per giungere infine a destinazione, sul monte con la cappella dedicata al fratello più bello e miracoloso, per ritrovarsi al cospetto di san Michele di Cima [Esposito 1989, 63-64].

Ora, se spostiamo lo sguardo etnografico verso altre latitudini e ci dedichiamo ad un semplice esercizio comparativo, a una sorta di «etnografia del percorso» come la definirebbe M. Augé [2014, 17-21], potremmo scoprire che, per gli aborigeni australiani, il rapporto con la loro tradizione culturale ha inizio attraverso la familiarizzazione con il proprio territorio. Tale appropriazione dei luoghi avverrebbe, secondo gli studiosi, attraverso itinerari particolari che toccano, nel loro percorso, siti particolari contrassegnati da tracce, impronte, segni del passaggio corporeo, fisico, degli esseri ancestrali, loro antenati, di cui si racconta nelle leggende, nei miti, nei canti. Per gli aborigeni la narrazione pubblica, ripetuta e ritualizzata di storie, miti e leggende produce dunque una sorta di conoscenza «topografica» del territorio che è basata sull’oralità e sul canto. Saper narrare, saper cantare il proprio territorio equivale a conoscerlo [Cuisinier 1999 e Chatwin 1988].

Dunque, a volte sono gli stessi rituali religiosi, nella loro complessità, ad essere, per chi li compie, un tentativo di produrre una sorta di cartografia implicita dei beni culturali presenti sul territorio. Così come accade durante la Settimana santa intorno al Monte della Stella, nel Cilento. In quel periodo ogni paese, ogni frazione di quella provincia salernitana diventa protagonista di un complicato spostamento sul territorio. Ognuna in rappresentanza della propria comunità, le Congreghe religiose, formate da confratelli appartenenti allo stesso paese, si recano in delegazione negli altri borghi del circondario, in visita ai cosiddetti Sepolcri, gli altari della reposizione, allestiti liturgicamente proprio in occasione della ricorrenza della morte del Cristo. Il rito religioso sottende un’evidente modalità comunitaria di proporsi, conoscere e farsi riconoscere dagli abitanti degli altri centri collocati geograficamente intorno al monte. Si stabilisce così un circuito di reciprocità, di scambio rituale poiché, in genere, le Confraternite residenti in quei centri, agendo da partner rituali, «rendono visita» solo a qui confratelli di quei borghi dove risiedono altre Congreghe che – lo si sa o lo si suppone – siano già state nel paese di chi comincia il ciclo o ci andranno. Alla fine del complesso rituale – che dura l’intera giornata del Venerdì santo e vede i confratelli compiere percorsi di alcune decine di chilometri, da un paese all’altro – l’intrecciarsi dei tragitti compiuti descrive, simbolicamente, una mappa performativa del territorio cilentano basata sul numero di relazioni che ogni comunità intrattiene con quelle viciniori [Esposito 2005, 161-185].

Dalla cartografia implicita alle «mappe di comunità»

Canti e leggende, dunque, come «mappe» spontanee, come cartografie implicite ascoltate dalla viva voce degli informatori, sul campo, durante le ricerche etnografiche. L’Antropologia culturale è una disciplina dialogica, critica riflessiva. Si rivolge agli altri per ascoltare le loro risposte che non scaturiscono mai dalle domande. L’antropologo non formula domande, propone un lavoro da fare insieme, «inventa oggetti» insieme ai suoi informatori, li «costruisce» insieme a loro. Ascoltando e dialogando con gli altri, con coloro che non usano gli stessi strumenti per interpretare il mondo, per dare un senso alla loro esistenza, al loro contesto, alla loro vita. Lo fa mettendosi in discussione, letteralmente, con loro. Facendo in modo che anch’essi si mettano in discussione discutendo con lui. Con qualcuno che ai loro occhi è un «altro», un «diverso» che possiede altri strumenti. Così, da questo confronto dialogico, uomini che sono reciprocamente «altri» provano a far luce sui meccanismi di formazione e produzione dei processi culturali che li caratterizzano, evidenziando nel confronto il loro carattere di costruzione, invenzione, fictio. Ciò che è implicito e scontato e quasi «naturale» per ciascuna delle due parti sul campo, si appalesa, nella sollecitazione dell’incontro etnografico, come prodotto delle diverse modalità culturali.

L’etnografo allora, discute, ragiona, dialoga con gli informatori sul campo al fine di comunicare ad «ulteriori altri» – ai suoi studenti, ai suoi lettori – il frutto di tale dialogo. Cosa, questa, ben conosciuta da Ernesto de Martino quando affermava che il fine del lavoro storico-etnografico è cercare un senso per la propria temperie culturale attraverso l’incontro con la cultura degli «altri»:

Ma io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un «compagno», come un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che ritrovavo [de Martino 1953 poi 1975, 59].

I «contadini pugliesi» o di qualsiasi altra collocazione geografica, oggi più che mai, non sono estranei al mondo globalizzato e alla temperie culturale liberal-economico-finanziaria attraverso cui viene governato. Gli «altri» – contadini, indigeni, nativi, migranti, diversi – non vogliono più essere solo un «oggetto di studio» per «etnografi occidentali» che di tale temperie sono o appaiono espressione. Vogliono sentirsi protagonisti delle proprie interpretazioni antropologiche; vogliono essere gli autori di quelle «antropologie indigene» che sono in grado di produrre autonomamente, forse in maniera diversa. Come ha scritto Fabio Dei [2016, 80], oggi «ogni cultura che si riconosca come tale è in grado di interpretare se stessa antropologicamente» e dunque, la metafora dell’esperienza del ricercatore-etnografo, non può più essere quella della tenda di malinowskiana memoria, piantata al centro del villaggio. Oggi le etnografie si caratterizzano, o dovrebbero farlo, per il loro essere «multi-situate» [Marcus 1995], per la presenza necessaria, in esse, di una molteplicità di prospettive.

Nella loro «Nota introduttiva», i curatori del Manifesto di Losanna, hanno molto giustamente precisato:

Quelli che un tempo sono stati i loro «oggetti di studio» non accolgono più gli antropologi e il loro lavoro con lo stesso atteggiamento. Adesso conoscono la disciplina e sanno come usarla, hanno aspettative e domande. Un interrogativo frequente è se l’antropologo contribuirà a cambiare la loro vita, domanda alla quale, nella maggior parte dei casi, è impossibile dare una risposta. Ma cosa ancora più importante, gli «oggetti di studio» di un tempo sono più che mai presenti sulla scena intellettuale e prendono la parola. Gli antropologi in generale, e quelli che arrivano dal «centro» in particolare, non sono più gli unici che possono parlare della culture, che ne possono scrivere, che le possono fotografare e filmare. I rappresentanti di quei gruppi reclamano un loro posto nel pantheon dei saperi. Propongono nuovi racconti sulle società da cui provengono e su quelle che li hanno scelti come oggetto di osservazione. Contestano le versioni ufficiali relative alla loro scoperta e definizione, e rivendicano per se stessi, in numerosi casi, una forma di antropologia che non si è ancora data un nome. Quella formulata dalle nuove élite del Sud prende le distanze dall’antropologia euro-americano-centrica, e sempre più solo americano-centrica [Saillant, Kilani, Graezer Bideau (eds.) 2012, 27].

Alla luce di tali mutazioni, oggi come ieri, così come ci ha insegnato «l’attivismo politico-scientifico demartiniano», l’antropologo culturale dovrebbe essere assolutamente consapevole dell’assenza di neutralità insita nel suo ruolo, nel suo agire, nel suo compito. Non può solo limitarsi ad ascoltare e a riportare la voce degli «altri» a coloro che leggono i suoi scritti o guardano i suoi documentari. Oggi lo specialista antropologo è un costruttore di «oggetti culturali» che vengono realizzati in compartecipazione con gli «altri» – se non solamente da questi ultimi. La sua figura e la sua opera si collocano, si «situano» all’interno del contesto evidenziando come il suo ruolo non possa definirsi super partes poiché egli è un attore che si muove nel contesto, con la sue peculiarità, così come tutti gli altri, insieme a tutti gli altri, «situati» diversamente.

Quindi, nel caso di uno studio sui beni culturali di un contesto determinato, quello nel quale si svolge la sua ricerca etnografica, la prima questione da affrontare, con i suoi interlocutori, coralmente, è proprio quella dell’individuazione e della definizione dei beni culturali di quel contesto, ovvero: cos’è un bene culturale «qui ed ora», soprattutto per chi «qui ed ora» vive ed agisce.

Infatti, tutti i territori sono ricchi di memorie, avvenimenti, valori, manufatti e, in essi, la vita sociale si struttura attraverso relazioni significative che li attraversano. In prospettiva antropologica è dunque indispensabile incoraggiare strategie di promozione locale che cerchino di individuare la «tipicità» culturale del territorio stesso, in grado di proporre un’immagine caratterizzante di quei luoghi, che li renda riconoscibili ed apprezzabili – per così dire – anche all’esterno, anche dal punto di vista autonomo di chi è «interno» al contesto. Un tale lavoro, però, non può non partire dalla presa di coscienza dell’esistenza, nel contesto stesso, di quei beni culturali che definirei «identitari». Un lavoro che potrebbe continuare con la loro descrizione «locale», dall’interno, fatta, lo ripeto, da chi vive proprio lì e pratica proprio quei luoghi.

Ciò perché è presente, in tutti noi la, tendenza a considerare come poco importante ciò che abitualmente ci circonda e, per ciò, ci definisce culturalmente. Ad esempio, l’esperienza dell’allontanamento dal proprio contesto sociale e culturale e il successivo ritorno mostrano spesso come, improvvisamente, ciò che era dato per scontato si ri-appalesi con diversa importanza alla coscienza.

Così, un tentativo di rendere più stabile la consapevolezza delle peculiarità culturali di un dato contesto può essere effettuato proponendo come tema di riflessione antropologica la costruzione delle cosiddette «mappe di comunità», in inglese Parish Maps[1].

Come ha scritto Laura Bonato, dell’Università di Torino:

Giunte in Italia negli anni ’90 del secolo scorso dalla Gran Bretagna, dove sono state promosse dall’associazione Common Ground, le Parish Maps disegnano i contorni di un piccolo territorio del quale rappresentano elementi materiali e immateriali considerati importanti dalla popolazione locale. Sue Clifford, responsabile di Common Ground e ideatrice del concetto di Parish Map, ritiene tali mappe «un modo dinamico capace di esplorare collettivamente e dimostrare che cosa la gente giudichi di valore in un luogo» [Clifford 2006, 4]. Una Parish Map non è però un semplice inventario perché, mettendo in luce le relazioni tra le persone e tra queste e i luoghi in cui vivono, si propone come un essenziale percorso che include una componente affettiva non riscontrabile su una comune carta geografica. Le Parish non sono quindi da considerarsi «come semplici descrizioni di condizioni staticamente assunte, ma come rimandi alle dinamiche che tali condizioni sottendono» [Casti, Corona 2004, 7-12]. Infatti una mappa di comunità si costruisce con la partecipazione attiva della popolazione, invitata ad indicare tutto ciò che costituisce la vita locale e che conferisce al luogo un senso di unicità. Ed è il coinvolgimento attivo della comunità che consente di conoscere, e successivamente valorizzare, il patrimonio locale; la Parish evidenzia la maniera in cui gli abitanti percepiscono e attribuiscono valore al loro territorio, alle sue memorie, alle sue trasformazioni, alla sua realtà attuale e a come vorrebbero che fosse in futuro. È quindi un modo creativo per comunicare all’esterno quanto sono ricchi i luoghi di tutti i giorni e quale sia l’importanza che rivestono le cose apparentemente ordinarie [Bonato s.i.d., 1-2].

Per costruire una Parish Map – a partire comunque da una cartina geografica del territorio indagato da consultare/elaborare insieme agli appartenenti al contesto di intervento – si possono utilizzare diversi metodi. Da quelli più semplici, come disegnare icone e simboli su carta, a quelli più complessi ed elaborati fino a comprendere software idonei ma anche apparecchiature multimediali. Secondo Bonato, cui si rinvia per approfondimenti ed analisi di esperienze concrete, specie piemontesi, Sue Clifford e gli esperti di Common Ground, sarebbero in grado di realizzare, insieme ai loro informatori, Parish Maps con manufatti tessili o ceramici ma anche attraverso la pittura, la fotografia, i video, i giornali, gli spettacoli teatrali e le canzoni.

L’antropologo che lavora su questi temi, con tali metodi, può allora decidere di dialogare con gli abitanti delle piccole comunità – è un requisito indispensabile quello delle minime dimensioni – organizzando una serie di incontri, con i cittadini e gli amministratori locali, nei quali spiegherà il senso del lavoro da svolgere in collaborazione, che potremo riassumere come individuazione, descrizione e valorizzazione dei luoghi e dei beni materiali e immateriali più importanti in essi custoditi. A ben pensarci, una sorta di dialogo maieutico.

Infatti, gli abitanti saranno invitati a fare mente locale, a individuarli e a descriverli secondo il loro punto di vista, non quello dei settori scientifici, né quello dei disciplinari delle organizzazioni culturali nazionali o sovrannazionali.

Si tratterà di capire quale ruolo svolgono, in tale lista elaborata «dal basso», elementi disparati ritenuti culturalmente importanti e definitori dell’identità locale. Cito, a titolo di esempio, non esaustivo:

Presenza – attuale o passata – di monumenti, edifici, chiese, cappelle, edicole votive, ecc.

Eventi rilevanti registrati in zona: calamità naturali, catastrofi, episodi di guerra, ecc.

Leggende.

Personaggi rilevanti nella storia del paese.

Culto di un particolare santo.

Alimentazione, piatti della cucina tradizionale, prodotti tipici.

Attrezzi, utensili, strumenti di lavoro specifici della zona.

Feste, costumi, credenze, canti, detti, proverbi legati ad un particolare ciclo produttivo.

Riti e usi di propiziazione della produzione e di prevenzione del maltempo.

Feste e momenti di socialità.

Animali.

Esseri fantastici.

Luoghi ed emergenze territoriali ritenuti fondanti la comunità o carichi di valori.

Tali elementi, una volta discussi, e interpretati coralmente, saranno inseriti in una vera e propria mappa spontanea, che potrà essere realizzata, come abbiamo già visto, con tecniche diverse in grado di mostrare la profonda relazione che li lega al contesto, alla sua storia e alle sue dinamiche sociali e culturali, politiche ed economiche così come percepite dagli esponenti della piccola comunità.

Ho cominciato questo mio scritto affermando che, per l’antropologia, non è possibile definire un bene culturale se non attraverso l’individuazione del senso che esso ha sul territorio, per la gente del territorio, nei quadri di riferimento e nella «mappatura dal basso» che di essi si può fare. Vorrei però concludere che ciò non significa che il ruolo degli studiosi del patrimonio culturale sia da sminuire. Essi hanno un compito particolarmente gravoso ma indispensabile alla sopravvivenza stessa del concetto di patrimonio. Proponendo, in un contesto culturale specifico, il punto di vista ufficiale, disciplinare, accademico su ciò che una piccola comunità potrebbe invece percepire in maniera diversa, essi contribuiscono a definire e rendere visibile, anche all’esterno, in maniera plurale e democratica, la ricchezza di risorse che appartengono a tutti in quanto beni comuni e indivisibili. Ma, ovviamente, è necessario pensare a tali questioni con un responsabile senso di reciprocità. Solo cosi riusciremo a tenere viva l’attenzione su quelle «cose» umane che definiamo «beni culturali», comunque si voglia o si possa pensarli. È una questione di sopravvivenza ma anche di democrazia, una maniera per sottolineare ancora una volta come la complessa profondità di ciò che definiamo cultura sia, in assoluto, insondabile. Ma di questo, in altra circostanza.

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[1] Parish Maps, ovvero «mappe di parrocchia», è un’espressione che intende sottolineare la limitatezza del territorio indagato; la parrocchia è infatti la più piccola unità amministrativa inglese [Clifford 2006, 1-11. http://www.digibess.it/fedora/repository/openbess:TO082-01684].