Raccontare la grazia tra Ottocento e Novecento

Riflessioni preliminari su testimonianze di malattie, medici e devoti

Domenica Borriello

Dipartimento di Scienze Sociali – Università di Napoli Federico II

Table of Contents

Attestazioni di grazia e dipinti votivi
Malattie, terapie e rapporto medico–paziente
Attestati di guarigione e pluralità terapeutiche
Appendice
Riferimenti bibliografici

Abstract. The stories of healing from illness of late nineteenth century documenting the graces bestowed by the Virgin or a saint and votive paintings of the same period shed light on epidemic diseases, official therapies and devotional practices. The votive representations, as reports of graces received, are complementary sources that communicate both with their specific and different languages, the will to make public the grace received. Reports of graces testify other interesting aspects such as the doctor-patient relationship, the home environment with different characters and their roles, and the meaning of suffering lived in the home. The statement of a reality often based on the ambivalence of the role of the doctor and on syncretisms still detectable in the practices of medicalization is no less important.

Keywords.  The stories of the graces; votive paintings; doctors; therapies; votive practices.

In questo contributo vengono presentate alcune riflessioni preliminari sul tema del racconto di guarigione da malattia relativo a un arco di tempo compreso tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento a partire da materiale proveniente prevalentemente da una specifica fonte d’archivio: l’Archivio Bartolo Longo del Santuario “Beata Vergine del Rosario di Pompei”[1]. Presso l’Archivio sono custodite lettere, cartoline postali o comunicazioni su carta intestata inviate alla Direzione o direttamente a Bartolo Longo, fondatore del Santuario, fin dall’anno di edificazione del luogo di culto, il 1876. Si tratta, per lo più di lettere spedite per chiedere l’intercessione della Vergine di Pompei a favore del mittente, di un suo familiare o conoscente, ma anche per renderle omaggio pubblicamente per le grazie ricevute. La documentazione dell’Archivio è ordinata cronologicamente secondo l’anno di recapito dei documenti ma non è catalogata con adeguati criteri di interrogazione, in grado di rendere praticabile una selezione del vasto materiale cartaceo.

Alcune testimonianze di grazie furono pubblicate sul bollettino «Il Rosario e la Nuova Pompei» in un’apposita rubrica dal titolo “Testimonianze di grazie” a partire dal 1884, anno di fondazione del periodico; di esse si conserva la sola pubblicazione, ma talvolta anche l’originale cartaceo. Le attestazioni di grazie dell’Archivio si possono accorpare, pertanto, in due gruppi: a) quelle sottoscritte dal graziato o altro testimone dell’evento fatte pervenire al luogo di culto a mezzo posta; b) le narrazioni pubblicate sul bollettino edito periodicamente presso il santuario, spesso riportate fedelmente[2].

Le relazioni del periodo esaminato si presentano per lo più come ampi racconti ricchi di pathos e talvolta di dettagli volti a porre in evidenza la gravità del caso e la sofferenza di ammalati e astanti. La scrittura è eseguita a mano, spesso con espressioni convenzionali e con irregolarità che denunciano un semianalfabetismo. Tuttavia, in molti casi, i racconti sono stati trascritti in forma corretta da scrivani, calligrafi o zelatori che gravitavano intorno al santuario e che hanno mediato il rapporto tra i sottoscrittori della relazione, il graziato o i suoi familiari e il lettore.

Nonostante la ricorrente mediazione di chi ha scritto la relazione, i racconti conservano un potenziale valore documentario, perché colui che trascrive non traduce, ma esprime orizzonti culturali condivisi, pur enfatizzando l’evento ed utilizzando il racconto come un mezzo volto al perseguimento di un preciso obiettivo: rendere omaggio al reale protagonista dell’evento, ossia la Vergine invocata. La narrazione scritta assume così il valore di un documento creato per lasciare un segno importante, il segno di sé, della propria singolare esperienza da comunicare come esempio agli altri. Dietro il bisogno di raccontarsi o di raccontare ciò di cui si è stati testimoni si cela la ricerca del senso di quanto accaduto, una ragione delle cose, attribuita infine a un intervento straordinario, a una volontà soprannaturale da esaltare. Proprio per questo, va considerata la modalità narrativa delle relazioni di grazie, definibile con le parole di Natalie Zemon Davis nell’ «abilità di costruire una narrazione, nel dare foggia, formare e modellare gli elementi» [Zemon Davis 1992,5-6] e, pertanto, essa assume qui uno specifico valore documentario. Inoltre non va ignorata anche l’importanza della scrittura come efficace espediente di trasmissione della memoria culturale, come tradizionale strumento di fissazione di significati da interpretare, come una componente della memoria comunicativa insieme all’agire, al dire, al sentire e al creare cose [Angioni 2011].

Attestazioni di grazia e dipinti votivi

La documentazione presa in esame è in stretta relazione con il racconto per immagini di un dipinto votivo, fonte iconografica peraltro presente presso il santuario mariano di Pompei e notoriamente oggetto di attenti studi antropologici. Basti solo ricordare l’attenzione rivolta al tema della malattia raffigurata nelle tavolette votive italiane già negli anni Trenta del secolo scorso da Adalberto Pazzini [1935] e negli anni Sessanta da Vio Cornacchia [1963], in relazione agli ex voto del santuario del Monte di Cesena. Per gli anni Ottanta meritano di essere ricordati gli studi di Angelo Turchini [1987] e quelli di Luigi Lombardi Satriani sulla tematica del sangue nei dipinti votivi dedicati alla Madonna della Milicia, nel Palermitano [1983]. Non può non essere menzionata anche l’ampia e attenta ricerca seriale sugli ex voto di malattia di area provenzale, condotta sul finire degli anni Settanta da Bernard Cousin [1983].

La relazione di guarigione per grazia ricevuta si pone come un interessante documento di indagine storico-antropologica poiché attesta come in forme e modalità del vissuto quotidiano si inserisca il ricorso al sacro e pone in evidenza come esso possa fornire il mezzo di risoluzione di momenti drammatici difficilmente superabili con le sole forze individuali o con il sapere della scienza medica.

Il senso di una sottoscrizione posta a conclusione di una relazione di grazia è spesso espresso con chiarezza. Per molti aspetti esso è analogo all’atto che induce al dono di una tavoletta dipinta che traduce in un’immagine fortemente comunicativa la drammaticità degli eventi negativi vissuti e superati nella fase di maggiore intensità.

Le due fonti, quella letteraria e quella iconografica, documentano un forte valore testimoniale estendibile anche a chi osserva i dipinti votivi o legge le relazioni, che si traduce concretamente in un’azione che vincola a vita il committente del dipinto votivo[3] e il sottoscrittore di una relazione di grazia con il personaggio sacro, invocato nei momenti più drammatici per la propria o altrui esistenza. Talvolta, però, la Vergine viene affrontata ponendosi su un piano paritario, come si legge in una relazione del 3 maggio 1895 inviata da Napoli: «giacchè la mano dell’uomo non può arrestare questo male, io a te ricorro con viva fede, tu sola, […] se vuoi, puoi guarirla e se […] mia moglie muore, io ti butterò fuori, e non crederò più che tu sei la Madre di Dio, la dispensatrice delle grazie e dei divini favori»[4].

Il testo didascalico, spesso presente negli ex voto pittorici, può rappresentare un punto di incontro tra le due fonti complementari benché differenti basate l’una sul “racconto” attraverso la parola, l’altra sulla sinteticità espressiva del linguaggio figurativo. In un saggio degli anni Ottanta Pietro Clemente precisava che il testo didascalico dei dipinti votivi si presenta come un prodotto individuale fortemente incentrato sull’io ma la collocazione degli ex voto nel luogo di culto ribalta questa priorità e l’io diventa un aspetto del noi devozionale, tributario di un omaggio al vero protagonista celeste, al pari delle relazioni di grazie fatte pervenire in parrocchia [Clemente 1987,43].

Il dipinto votivo, soprattutto quello ottocentesco che raffigura il tema della malattia, predilige l’elemento narrativo e simbolico come forma di comunicazione; esso deve rispondere ai requisiti propri del linguaggio visivo: per avere successo dal punto di vista della devozione collettiva l’immagine deve possedere i requisiti di sintesi, immediatezza, comunicatività; deve essere «di immediata intelligibilità, attraente e spettacolare, toccante», come precisava Pierroberto Scaramella negli anni Novanta in un suo studio sull’iconografia della Vergine delle Grazie [Scaramella 1991, 152].

Il pathos - e quant’altro collegabile all’evento malattia vissuto in ambiente domestico - deve essere riprodotto in segni visivi, i più pertinenti e funzionali allo scopo da perseguire. Nello spazio pittorico delle tavolette ottocentesche il centro di gravità è dato dalla sfera terrena; qui il letto ed il malato rappresentano il baricentro dell’immagine e le figure umane che sono vicine a chi soffre assumono spesso un ruolo di assistenza e di cura; la loro gestualità evidenzia una partecipazione emotiva.

Figura 1. Pompei, santuario Maria SS. del Rosario. Dipinto votivo, sec. XX, primo decennio. Olio su tela.

Nei dipinti votivi campani, come in quelli provenzali analizzati da Bernard Cousin [Cousin 1983], il malato raramente è solo. Familiari e conoscenti sono nella stanza o accanto al letto per curarlo, assisterlo o pregare per lui.

Il sostegno della famiglia e del vicinato nell’offrire assistenza materiale, morale o spirituale emerge anche negli ampi racconti ottocenteschi delle relazioni di grazie, qualitativamente significativi per i dettagli talvolta forniti. Entrambe le fonti rendono testimonianza, in modo differente, di una società che risponde ad un evento negativo come la malattia, rafforzando la solidarietà familiare e quella del vicinato.

Le relazioni di grazie consentono di focalizzare l’attenzione su aspetti di interesse anche per la storia dell’antropologia medica, come le malattie dichiarate da chi ha sottoscritto le attestazioni o le terapie eseguite da medici e familiari; sono tuttavia interessanti soprattutto le modalità narrative che ci proiettano nella scena della malattia, nell’ambiente familiare e domestico con i suoi personaggi che ricoprono ruoli differenti, come quello del medico quasi sempre convocato in extremis e mai foriero di buone notizie per l’ammalato. Suscitano interesse anche alcune pratiche devozionali ricorrenti o le dinamiche del prodigio che meritano tuttavia specifici approfondimenti che esulano dagli obiettivi di questo contributo.

Le relazioni rendono talvolta possibile anche la lettura di altri interessanti aspetti, come il senso attribuito alla sofferenza vissuta tra le pareti domestiche dagli astanti che hanno diversamente condiviso l’evento drammatico. Donatella Cozzi, in una sua riflessione sulle narrazioni di malattia, le illness narratives, ossia le pratiche discorsive con cui le persone raccontano il proprio malessere, ricorda che tali pratiche

consentono di iscrivere l’evento malattia in una temporalità biografica […] di rinegoziare la propria identità e di trovare un senso pur entro le fratture biografiche che sottolineano la nostra vulnerabilità in quanto esseri umani. Raccontare una storia organizza, struttura e dà senso all’esperienza [Cozzi 2012, 205-206].

Nel contempo, le nostre relazioni di grazia rivelano anche la percezione del limitato potere d’intervento contro un avversario temuto, la malattia, come spesso denuncia il medico con la sua drammatica sentenza.

Nella relazione del 3 maggio 1895 inviata a Bartolo Longo, l’attestante rende esplicita una insostenibile sofferenza collettiva giunta ormai al suo apice e presenta l’intervento divino come l’unico vero rimedio in grado di sconfiggere la malattia di sua moglie. A tale riguardo scrive:

Il male s’avanzava a grandi passi […] furono applicati all’inferma cataplasmi, unguenti, cartine, siringhe […] invano i dottori moltiplicavano visite e rimedi; invano fu combattuto con tutti i mezzi un malore che faceva a quando a quando smarrire la ragione all’inferma […] Inutile esprimervi il pianto dei suoi, ed il dolore, lo strazio che provai allora. Ci sono dolori, cui la penna non può giungere a descriverli, e che solamente all’uomo è dato il comprendere[5].

Una dolorosa esperienza di malattia, rievocata per essere organizzatae dotata di senso, come viene inconsapevolmente manipolata nella versione offerta al lettore? Quale realtà può essere presentata attraverso il racconto scritto? Nelle relazioni di grazie è palese uno stile letterario d’epoca con il quale il sottoscrittore della relazione compie un atto percepito come doveroso ed esemplare per fini individuali (ringraziare, votarsi a vita…) e collettivi (divulgare il potere taumaturgico della figura sacra, estendere la devozione…). Ma il testo scritto ci presenta anche un evento attentamente costruito: le espressioni del testo sono enfatiche, il linguaggio è spesso sopra le righe per esprimere un dolore difficilmente comprensibile e comunicabile se non attraverso modalità espressive idonee a fissare l’attenzione del lettore sugli aspetti drammatici che lo scrivente intende comunicare, consentendo, a quanti sono impegnati alla lettura, una compartecipazione sia pure indiretta[6]. La temporalità del messaggio è resa illimitata dalla stesura del testo scritto e dalla potenziale lettura del medesimo aperta al mondo intero. Per dare senso all’esperienza vissuta, la realtà deve essere rievocata e presentata con eccessi di enfasi, con componenti emotive forti, spesso con dovizia di particolari anche macabri e sgradevoli che attengono al pietoso stato di prostrazione del graziato e dei suoi cari. Nella realtà così costruita la malattia, ma soprattutto il male inteso come sofferenza fisica e psichica si connota di “segni” familiari al linguaggio di uso comune in quell’epoca: la fisicità percepita, l’esuberanza, l’eccesso, sono aspetti riconoscibili e rinvenibili soprattutto nell’ambito del linguaggio espressivo della cultura popolare tradizionale. D’altronde, tali segni sono ampiamente riscontrabili anche nei dipinti votivi, sia pure con la maggiore forza della sintesi e dell’immediatezza del linguaggio iconografico. Nei racconti troviamo dunque espressioni che rappresentano ampiamente questi aspetti:

il male se ne partì dal mio corpo lasciandomi la speranza che non sarebbe più tornato[7]; il male prendeva forme gigantesche […] il piccolo infermo[…] era ridotto in uno stato da fare […] quasi ribrezzo […] a guardarlo sembrava di vedere un puro scheletro[8]; siffatte forme patologiche teneano la mia vita presso che in una perenne spasmodica condizione[9].

I comportamenti eccessivi e le esasperazioni come quelle dichiarate da Nunziatina Rossilli di Canosa di Puglia il 21 dicembre 1884 sono esemplificativi: sua figlia, una bimba di undici mesi si ammala di meningite. La donna prende un quadro raffigurante la Madonna di Pompei protetto dal vetro e «bussa contro di esso. Fu allora che si aprirono le porte della grazia»[10]. Il delirio dei familiari che sostengono l’ammalato può essere rimarcato e le invettive contro la Vergine risultano frequenti, come sa osare da Amalfi Carmelo Iossa, maestro di musica che adduce inadeguate ma suggestive motivazioni territoriali: «La Vergine di Pompei non ha simpatia di concedere grazie speciali alla costiera di Amalfi»[11].

Figura 2. Valle di Pompei, 7 marzo 1884. Bollettino del santuario Maria SS. del Rosario, anno I.- quaderno I e II.

Malattie, terapie e rapporto medico–paziente

Se analizziamo le prime attestazioni dell’archivio di Pompei, quelle del trentennio 1876-1906, abbiamo un quadro composito delle malattie che con ricorrenza hanno colpito i devoti di area campana ma non solo, poiché tra le testimonianze dell’Archivio Bartolo Longo di Pompei troviamo attestazioni provenienti dal Meridione, ma anche dall’Italia del Nord e dagli emigrati negli Stati Uniti e nell’America del Sud.

Figura 3. New York, 18 novembre 1896. Relazione di grazia inviata a Bartolo Longo su carta intestata. Particolare.

Tra i malanni ricorrenti possiamo individuare quelli che hanno colpito l’apparato riproduttivo femminile e più in generale la salute della donna gravida (amenorrea, eclampsia, varie complicazioni del parto, mastite); troviamo ancora le malattie infettive (la tubercolosi, il tifo, la difterite, il vaiolo, il colera, la brucellosi indicata come “male napoletano”, la meningite, la scarlattina, la pertosse, la setticemia). Le malattie dell’apparato respiratorio sono ampiamente presenti (bronchiti, polmoniti e pleuriti), come quelle del sistema cardiocircolatorio e del metabolismo (con il diabete) e molte altre ancora.

I racconti di grazie ricevute ci consentono di cogliere anche aspetti emergenti in modo meno eclatante ma altrettanto importanti, perchè collegati all’offerta del servizio medico-sanitario dell’epoca, all’utenza, alle sue aspettative, all’efficacia delle terapie praticate e al rapporto medico/paziente che si stabiliva negli ambienti domestici.

La figura professionale del medico è indicata più volte nelle relazioni dell’ultimo ventennio del XIX secolo e la sua precisa identità è costantemente rivelata per sottolineare l’autorevolezza del personaggio. Ciò è tanto più evidente nelle attestazioni rese dalle partorienti dove il ruolo del medico può essere posto a confronto con gli esigui riferimenti all’ostetrica, la cui identità rimane sempre ignota, anche perché si tratta di donne che esercitano molto spesso senza avere una qualifica professionale[12]. Il ruolo dell’ostetrica appare in tal modo svalutato, in quanto percepito come naturale attività della donna. Nei racconti delle grazie ricevute emerge, a riguardo, un sotteso modo di concepire il rapporto fra maschile e femminile fortemente incentrato su una diversità culturale e su una conseguente attribuzione di ruoli sociali diversi. Ciò è particolarmente evidente nei racconti di guarigioni da malattie e complicanze collegate alla gravidanza, al parto e al puerperio. Come ha precisato Françoise Héritier, questa costruzione culturale non egualitaria definisce una “natura” e una “identità” maschile e femminile «in qualche modo naturalmente fondate, immutevoli e in definitiva sacre» [Héritier 2004,129] e solleva il problema di una identità di genere maschile e femminile, tuttora non risolto, «come problema grave», poiché «rimette in gioco le basi stesse del genere umano e il suo avvenire» [Héritier 2004,127][13].

Figura 4. Torre del Greco, luglio 1900. Vincenzo Di Donna guarisce da quattro malattie: bronchite, polmonite, pleurite e meningite, per grazia ricevuta dalla Vergine del Rosario di Pompei. Olio su tela.

Possiamo rilevare nelle attestazioni anche un diverso approccio con il medico, secondo il ruolo da questi ricoperto, come medico condotto o come medico scienziato cui si deve considerazione e rispetto. Lo specialista scienziato è solitamente presentato con il titolo di “chiarissimo professore” e convocato per consulti medici. Il suo ruolo è imponente, ma sovente anonimo. Il rapporto medico-paziente diventa, in queste circostanze, il rapporto tra un intellettuale, per il quale il paziente è la materia prima della propria specifica conoscenza e un nucleo familiare che vede nel medico un distante interlocutore, un esponente di un diverso strato sociale.

Diverso è il rapporto che il graziato o i suoi familiari stabiliscono con il medico condotto. Tale relazione oscilla, come si evince dal testo delle sottoscrizioni, tra scontri che lasciano trasparire divergenze di cultura e di mentalità tra i vari protagonisti e, all’opposto, incontri sul piano umano da cui emergono familiarità e affetto nei suoi confronti.

In una significativa lettera del 1884, depositata presso il santuario di Pompei, la signora Fortunatina Agnelli ricorda le affettuose cure del dott. Vincenzo Belmonte che per «13 mesi fu testimone» delle sue sofferenze. Nella particolare circostanza il dottore si spoglia della veste professionale e suggerisce all’ammalata il ricorso alla Vergine di Pompei e l’iscrizione alla confraternita del Rosario. Sarà poi lo stesso medico a consegnare la supplica nelle mani del beato Bartolo Longo[14].

Nella maggioranza delle narrazioni il medico è richiesto con urgenza ma è chiamato a prestare la sua “speciale” assistenza domiciliare solo nei momenti più drammatici, quando è imminente il pericolo di vita, secondo una modalità di rapporto medico-paziente ricorrente per larga parte dell’Ottocento. Guido Panseri, in un saggio del 1981ricorda che il rapporto con il medico, ancora per larga parte dell’Ottocento, avveniva per qualunque malattia quasi sempre con molta riluttanza; i suoi interventi in molti casi si basavano sui salassi e sull’uso delle sanguisughe, come attestano anche molte testimonianze di grazie raccolte ed i dipinti votivi, provocando all’ammalato e ai suoi familiari terrore, diffidenza e rifiuto. Per questo il medico, almeno per gli strati popolari, rappresentava l’ultima ratio. Era ricorrente nella diffusa letteratura divulgativa la norma principale cui attenersi per vivere a lungo: fuggire i medici e le loro ricette [Panseri 1981].

L’atteggiamento di radicale rifiuto che la massima esprime fu in realtà uno dei due poli fra i quali oscillarono i sentimenti nei confronti del medico: l’avversione più profonda ma anche la fiducia nel suo sapere, come traspare in molte relazioni esaminate. In queste ultime, l’insuccesso delle sue terapie non viene attribuito ad una incapacità ma è contrapposto all’illimitato potere taumaturgico della Vergine, il cui intervento, esaltato nel confronto, sopperisce ai limiti della scienza medica del tempo.

In alcuni racconti si delinea una contrapposizione tra due poteri: quello attribuito al medico dal graziato o dai suoi familiari e quello celeste cui si affidano i protagonisti della relazione di grazia.

«Invocammo l’aiuto dei medici celesti» è un’espressione ricorrente. In un’attestazione proveniente dall’archivio parrocchiale di S. Alfonso, a Pagani, i membri della famiglia della graziata sono perfino contrapposti: le sorelle invocano l’aiuto dei «medici celesti», san Gerardo e sant’Alfonso, mentre il marito, il fratello ed il cognato convocano un nuovo medico[15].

Il medico è spesso testimone della gravità del male, lo sfida con i suoi rimedi, ma si trova a verificarne i limiti e, talvolta, è costretto a consigliare di “votarsi alla Vergine” o a “ordinare” l’inevitabile rituale dell’estrema unzione.

Le diverse terapie descritte nel corpus delle attestazioni si avvalgono sia del metodo allopatico che di quello omeopatico. Oltre all’applicazione di sanguisughe e alla pratica del salasso, si ricorreva all’utilizzo del chinino come antipiretico e analgesico, a pillole e cartine, ma anche agli interventi chirurgici, ai senapismi (cataplasmi di farina di senape utilizzati per favorire la dilatazione dei vasi sanguigni) o a farmaci quali, ad esempio, preparazioni a base di oppio come il laudano, per curare il colera [Grassi, Ferrario 1884][16]. Ne La medicina popolare in Italia Adalberto Pazzini ricorda che si utilizzavano cartine di nitrato di bismuto, bisolfato di chinino, polvere di Dover, canfora, cuprum. Si ricorreva anche ai lavativi di acqua di riso come decongestionanti o cicatrizzanti [Pazzini 1948].

Figura 5. New York 1901, chinino e altri farmaci. Litografia: prodotti farmaceutici provenienti dalle due Americhe.

Un’attestazione datata 22 dicembre 1884, proveniente da Polignano di Bari, ci indica i rimedi utilizzati da tre medici in consulto per contenere convulsioni da grave attacco epilettico: mignatte alle tempie, salasso, pediluvio, bende di acqua gelata sul cranio e tavolette di sughero tra i denti dell’ammalato per impedire danni alla lingua[17].

Tra le pratiche rituali devozionali segnalate dalla nostra fonte, va ricordato il ricorso all’acqua benedetta proveniente dal luogo di culto, alle sottili “cartine” devozionali da ingerire, alle reliquie di stoffa e alle immagini sacre da porre sul corpo dell’ammalato o sotto il suo guanciale.

Figura 6. Pomigliano d’Arco, santuario Madonna dell’Arco. Consulto medico, particolare. Dipinto votivo, olio su tela, sec. XIX.

Di fronte all’inefficacia delle terapie, il medico esprime il suo insindacabile giudizio che si trasforma nella condanna per un’ impossibile guarigione.

Nel contempo, egli riveste anche il ruolo di testimone autorevole dell’evento prodigioso, nel momento stesso in cui, visitato l’infermo, riconosce l’eccezionale ed insperata guarigione.

La sua figura autorevole e il suo giudizio sono spesso posti in relazione alla gravità del caso e assunti come prova della prodigiosità degli eventi successivamente narrati.

Rappresentativi sono a riguardo i passi di una lettera sottoscritta nell’agosto del 1893 da Giuseppe Pusino, «chierico scolopio» del collegio Conti-Gentili in Alatri (Fr):

il rettore del Collegio, oltre il medico curante […] invitò anche gli altri due medici della città […] a visitare l’infermo; ma tenuto consulto tutti giudicarono la malattia pericolosissima […] Il genitore […] volendo salvo il figlio […] non contento dei sullodati medici, e di altri ancora dei circonvicini paesi, tutti peritissimi, mandò a Frascati per l’egregio dottor Seghetti. Questi venne ma la sua diagnosi non fu dissimile da quella dei colleghi […] interrogato sul fatto rispose: Iddio ci crea ma una sola volta […] anche il dottor Buglioni […] schiettamente disse: […] è inutile, noi non facciamo che dare incenso ad un morto […] talché avendo la scienza esaurite tutte le sue forze […] si ricorse agli aiuti divini […] i medici […] vedendo poi come il fanciullo sempre più diveniva vegeto e bello dovettero […] riconoscere la miracolosa guarigione [...] e attestarla con una certificazione[18].

Figura 7. Pomigliano d’Arco, santuario Madonna dell’Arco. Un medico pratica il salasso. Dipinto votivo, olio su tela, sec. XIX.

Attestati di guarigione e pluralità terapeutiche

L’attestato medico allegato alla relazione di grazia assume, in tal modo, un particolare valore, in quanto prova da esibire dell’avvenuto miracolo.

La certificazione è espressa spesso con il linguaggio essenziale, tipico di un documento, ma contemporaneamente suggerisce la straordinarietà del caso. In altre circostanze, il medico è più esplicito e si spinge in dichiarazioni che denunciano anche la propria esigenza di diffondere l’eccezionalità della inspiegabile guarigione. Possiamo trovare, a conclusione della certificazione protocollata in comune, espressioni come quelle utilizzate, ad esempio, dal dott. Romano di Rossano Calabro, nel suo referto medico del 1929: «Si può dire che la guarigione fu miracolosa, poiché il bambino in seguito ritornò in piena salute»[19]; o, ancora, come è indicato in un altro referto: «Questa insperata miglioria e relativa guarigione attesto che va dovuta più che al sistema di cura, al regime di vita prescrittole, ad un fatto soprannaturale, ad un miracolo cioè della Madonna di Pompei»[20].

In un saggio di riflessione sulla medicina popolare, Giovanni Pizza riprende il pensiero di Alfonso Maria Di Nola ricordando che anche i medici etnografi come Giuseppe Pitrè operavano un taglio netto rispetto ai sistemi di conoscenza diversi da quello occidentale cartesiano, basato sull’idea della separazione del corpo dalla mente e sul metodo scientifico della verifica empirica.

Il simbolismo religioso, come prodotto culturale elaborato dalle masse popolari per trascendere la natura e la storia, non era preso in considerazione nei campi di pensiero e di pratica della biomedicina, così come veniva escluso il dispositivo del rituale e la sua efficacia simbolica (anche se tale esclusione valeva più sul piano […] teorico e ideologico, e meno su quello delle pratiche mediche quotidiane [Pizza 2012, 191].

A riprova di ciò, sono interessanti alcune testimonianze di grazie che riferiscono di suggerimenti dati proprio dal medico per affidarsi alle “cure” della Vergine o di modalità rituali da lui indicate per ringraziarla della prodigiosa guarigione.

Figura 8. Napoli, 27 aprile 1876. Il professore Raffaele Novi certifica la perfetta guarigione della signora Concetta Vastarella, affetta da eclampsia al sesto mese di gravidanza. Sottoscrizione presso il comune di Napoli del 31 maggio 1876. Carta libera.

Interpretando i dati che emergono dalla ricerca seriale sugli ex voto pittorici provenzali, anche Bernard Cousin riflette sul ruolo contraddittorio del medico, ribadendo il suo divenire simbolo di una situazione che dà valore alla guarigione ottenuta senza l’intervento medico. D’altro lato, egli sottolinea anche il ricorso ad una pluralità terapeutica, seppure d’epoca, in cui convivono terapie ufficiali, medicine popolari e prodigi anche alla presenza del medico. La guarigione è per Cousin la testimonianza di «una mentalità dove terapia ufficiale e prodigio non si escludono: al contrario, sono considerati come due mezzi che possono concorrere alla guarigione, come ancor più esplicitano alcune didascalie degli ex voto» [Cousin 1983, 198].

Il testo scritto di un dipinto votivo ottocentesco, come la relazione di una grazia ricevuta, denunciano dunque con evidenza anche una realtà basata spesso sull’ambivalenza del ruolo del medico, su una varietà di terapie familiari di tipo tradizionale praticate e su sincretismi ancora oggi rilevabili nelle pratiche di medicalizzazione, come, tra l’altro ha evidenziato una ricerca sulla pluralità dei percorsi terapeutici in Campania coordinata da Gianfranca Ranisio e Crescenzo Simone negli anni 2001 e 2002 [Ranisio, Simone 2005].

Alcune pratiche terapeutiche descritte nelle relazioni ottocentesche esaminate afferiscono chiaramente ai saperi delle medicine popolari ed etniche[21], come l’uso di pietre focaie per curare malattie della pelle o dei mattoni caldi avvolti in panni di lana per combattere i dolori da artrosi e lenire contrazioni o, ancora, macerati di fiori, foglie e radici da utilizzare contro le infiammazioni. Oggi molte pratiche di medicina popolare riferite nelle attestazioni analizzate appaiono ampiamente decontestualizzate e legate alla memoria. Tuttavia, l’indagine di campo, condotta in diversi contesti geo-culturali della Campania, consente di rilevare ancora una vitalità terapeutica della medicina popolare denunciata spesso dagli intervistati come patrimonio familiare ed areale da tramandare per la cura del corpo, da preferire ai farmaci e all’eccessivo ricorso alla chimica della medicina ufficiale [Pizza 2005]; [Borriello 2014].

Nelle attestazioni di grazie esaminate il contesto familiare, con i personaggi che lo compongono e lo caratterizzano e con le cure eseguite a domicilio, sembra delineare un ambiente molto spesso idoneo a tutelare, soprattutto sul piano identitario e affettivo, chi vede perdere improvvisamente la propria autonomia fisica e l’equilibrio psicologico. Questi racconti ci inducono a non ignorare aspetti dell’antropologia medica tuttora dibattuti, come l’importanza dell’ambiente familiare nella cura della malattia, il rispetto per la cultura dell’ammalato, la sua formazione e i suoi sentimenti; ma pongono anche in evidenza l’importanza della qualità del rapporto medico-paziente, delle possibili cure prestate a domicilio quando non è fondamentale l’ospedalizzazione.

Appendice

Le fonti d’archivio letterarie prese in esame sono state catalogate con una specifica scheda, progettata per rendere praticabile la ricerca e la comparazione delle relazioni da analizzare successivamente con attenta lettura. La scheda da noi progettata e utilizzata anche dal CRA[22] per l’archiviazione informatizzata di attestazioni di grazie provenienti non solo dall’Archivio di Pompei ma anche da altri archivi parrocchiali e diocesani viene presentata in questa sede come strumento con il quale sarà possibile un’ulteriore e più approfondita analisi rispetto al materiale introduttivo qui presentato, come la devozione nelle sue diverse declinazioni, le modalità del prodigio, le pratiche rituali, le forme del ringraziamento ma anche i diversi ruoli ricoperti da protagonisti e astanti. La scheda si articola in sei paragrafi. Ogni paragrafo comprende diversi campi. Adeguatamente impaginata e compilata la scheda consente una duplice visione dei documenti da prendere in esame: quella sincronica per ogni singola relazione e quella diacronica, per una veloce comparazione della medesima attestazione con altre dello stesso anno o di anni successivi. Nella pagina seguente si riporta la scheda.

Scheda per l'archiviazione informatizzata di attestazioni di grazia 
Estremi della relazione

Fonte

Tipologia

Data attestazione

Luogo di provenienza

Nome attestante

Identità/ruolo attestante

Testimoni dell’evento

Modalità della sottoscrizione

Incipit

Certificazioni allegate

Dati anagrafici del graziato

Nome

Età

Domicilio

Evento critico

Data

Tipologia

Impreviste patologie

Terapia

Sintomatologia

Figure professionali coinvolte

Familiari/conoscenti che aiutano l’ammalato

Esperienza del dolore rievocata dall’attestante

Richiesta della grazia

Richiedente

Momento drammatico

Personaggio sacro invocato

Appellativo del personaggio sacro

Pratica devozionale

Soggetto che suggerisce la pratica rituale

Soggetto che esegue la pratica

Prodigio

Intervento salvifico

Concessione della grazia: interpretazione del graziato o del sottoscrittore

Ringraziamento

Modalità

Soggetti coinvolti

Riferimenti bibliografici

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[1] Nelle note successive, l’Archivio Bartolo Longo sarà indicato con la sigla ABL

[2] Sulle attestazioni di grazie dell’ABL, cfr. [Illibato 1983 -- 1986]; [Violi 1983]; [Pizzuti 1983]; [Borriello 1998]; [Caggiano 2016]. Sulla devozione mariana a Pompei e sulla figura di B. Longo cfr.[ Longo 1890]; [Volpe 1983]; [Caggiano, Rak, Turchini 1990]; [Illibato 1996 – 1999 – 2002]; [Buranelli,Osanna,Toniolo 2016]. Più in generale, sulla identità di genere come divino femminile cfr.[Giacalone 2012]; sui miracoli di guarigione da una malattia documentati nei processi di canonizzazione, cfr. [Burkardt 2004]; sul corpo malato e sulla malattia come campo privilegiato di osservazione cfr.[Gallini 2016]

[3] Sull’offerta votiva intesa come vincolo che lega debitoriamente a vita l’offerente al Sacro, cfr. [Mazzacane 1989]

[4] ABL sezione XIV, fascicolo 34.Testimonianza resa da Salvatore Spinelli. Evento del 3 maggio 1895

[5] ABL sez. XIV, fasc. 34. Lettera inviata da Napoli. Evento del 3 maggio 1895; sottoscrizione di Salvatore Spinelli, marito della graziata

[6] Sulla modalità di narrare la malattia, si veda [Good 2006]

[7] ABL sez. XIV fasc. 74. Lettera proveniente da Ronsecco (No) datata 20 novembre 1924

[8] ABL sez. XIV fasc. 30: Alatri (FR.), agosto 1893. Sottoscrizione di Giuseppe Pusino, chierico scolopio

[9] ABL sez. XIV fasc. 27. Lettera anonima del 18 agosto 1890

[10] ABL sez. XIV fasc.10

[11] ABL sez. XIV fasc. 22. Lettera datata 9 ottobre1889

[12] Per un inquadramento storico-antropologico della figura dell’ostetrica, cfr. [Bettini 1998]; [Lanzardo 1985]; [Pancino 1984]; [Verdier 1979]

[13] Sulla tematica della identità di genere e della maternità, cfr. [Papa 2013]; [Ranisio 2012 -- 2006 --1998]; [D’Aloisio 2007]; [Oppo, Picone Stella, Signorelli 2000]

[14] ABL sez. XIV fasc. 10. Lettera del 9 maggio 1884

[15] Bollettino parrocchiale «Sant’Alfonso» 1930, Rubrica Grazie, (5): 152

[16] Sull’uso diffuso di farmaci per la cura delle malattie dell’apparato gastro-intestinale nel passato, cfr. anche [Donatelli, Marmo 1981]

[17] ABL sez. XIV fasc. 10

[18] ABL sez. XIV fasc. 30. IL bambino graziato è Alfredo Lippi di anni 10, domiciliato a Frascati. Il ragazzo è colpito da febbre tifoidea, cui sopraggiunge una meningite tubercolare

[19] «Il Rosario e la Nuova Pompei» 1930, Rubrica Grazie, (sett. – dic.): 243-244

[20] ABL sez. XIV fasc. 42. Attestato del 2 luglio 1899, firmato a Scafati (Na) dal dott. Budi Francesco, cui si uniforma da Napoli, come medico curante, il dott. Iaccarino Raffaele

[21] Sul rapporto medicine popolari ed etniche, si veda [Kleinman 1980]: per medicine popolari ed etniche sono da intendersi le medicine tradizionali. Nello specifico, per Kleinman, nell’ambito della medicina popolare è da includere un complesso di saperi, credenze e pratiche legate all’automedicazione, ossia esercitate dall’ammalato, dalla sua famiglia e dalla comunità di cui è parte; le medicine etniche, al contrario, sono basate sull’attività di operatori tradizionali ai quali la comunità riconosce lo status ufficiale di terapeuta (maghi, guaritori ...)

[22] Centro Interdipartimentale di Ricerca Audiovisuale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II (CRA)