Patrimoni e protocolli

I beni culturali immateriali tra valori globali e pratiche locali come terreno di conflitto e di mediazione

Letizia Bindi


Table of Contents

Il contesto etnografico
La polemica animalista contro la tradizione
Una doppia patrimonializzazione
Una mediazione possibile tra diritti locali e diritti globali?
Riferimenti biliografici

Abstract. Intangible cultural heritage increasingly becomes a conflict/mediation field among different issues and global/local hierarchies of value. Here the author outlines the first results of an ethnography in South-Central Italy about a group of ceremonials involving animals, recently questioned by animal rights movement associations for suspected mistreatment and its very recent legal solution.

Keywords. intangible cultural heritage; animal rights activism; legal anthropology; global hierarchies of value; community of practice

Journal. EtnoAntropologia, 3 (2) 2015

Sempre più spesso il ‘patrimonio culturale’ - nozione ambivalente e controversa sotto molti punti di vista – viene a costituirsi come terreno di scontro e agone in cui le comunità locali, i cosiddetti tradition bearers, ridefiniscono le ragioni del proprio senso di appartenenza ai luoghi e alla memoria condivisa, spesso in dinamica opposizione con istanze sovralocali, “State regimes” (Bendix et al. 2012) e “gerarchie globali del valore” (Herzfeld 2004). In tal senso ci si trova dinanzi a nuovi terreni di scontro tra visioni del passato e pratiche differenziate nel presente che sollecitano non solo l’attenta analisi etnografica, ma sovente anche una collocazione politica dell’antropologo impegnato nell’osservazione dei processi di patrimonializzazione (Palumbo 2003, 2008, 2011, 2014), ponendo ad esso delicate questioni metodologiche e deontologiche.

Il contesto etnografico

È il caso dell’etnografia che vado svolgendo – insieme con Katia Ballacchino – da alcuni anni in Molise intorno a un gruppo di comunità accomunate da una forma festiva simile, quella delle corse di carri trainati da buoi e sospinti da cavalli in onore dei loro Santi Patroni[1].

Le Carresi sono diffuse quasi esclusivamente nel Basso Molise e in un Comune della provincia foggiana – Chieuti – con alcune importanti distinzioni da segnalare nell’attuale e passato svolgimento di questi cerimoniali. In quest’area, infatti, sono presenti una notevole quantità di cerimoniali che vedono coinvolti in processioni e atti rituali collettivi dei bovini (Spitilli 2011), ma attualmente la forma maggiormente agonistica del cerimoniale è circoscritta a tre Comuni – San Martino in Pensilis, ritenuta la località in cui, insieme a Larino, la Carrese per prima si sarebbe attestata intorno all’anno Mille – e due Comuni di minoranza linguistica albanese – Ururi e Portocannone (Tria 1989; Stelluti 1992; Doganieri 1994; Mancini 2002; De Virgilio-Mastantuono-Mammarella-Sorella 2014). Inoltre la stessa forma festiva si riscontra – come si è detto in precedenza – anche a Chieuti, un comune in provincia di Foggia, anch’esso di minoranza arbëreshë. Come si è accennato, la Carrese era sicuramente attestata, anche nella forma agonistica, fino alla seconda metà dell’Ottocento anche a Larino, dove oggi ancora si celebra un imponente cerimoniale festivo in onore del Santo Patrono, San Pardo, in cui sono coinvolti più di 130 carri di famiglia, la maggior parte dei quali trainati da buoi e vacche, ma anche da caprette. Anche questo complesso festivo conferma la centralità della presenza bovina nei cerimoniali di tutta l’area che un tempo era, peraltro, accomunata dalla dipendenza dalla stessa Curia vescovile e da un complesso sistema conventuale benedettino che sicuramente spiega l’omogeneità della formalizzazione del rituale in questi territori.

Nei tre Comuni molisani in cui si svolgono le Carresi, le corse si effettuano tutte per contendersi il privilegio di portare in processione l’indomani il busto o la reliquia o l’icona del Santo Patrono (la stessa cosa vale anche per Chieuti). Lo schema festivo sembra essersi per lo più modificato intorno alle grandi trasformazioni della proprietà terriera e delle attività agricole e pastorali dell’area. Dopo un lungo periodo in cui generalmente si correva con i buoi delle famiglie più influenti e facoltose del paese, si passò a fine Ottocento-inizi Novecento a un sistema di Carri di ‘partito’ o di associazione in cui più famiglie si consorziavano tra loro per sostenere le spese necessarie allo svolgimento della festa e preparare i buoi che sempre meno venivano utilizzati nelle attività agricole e che sempre più si sarebbero specializzati nell’attività agonistica. I “Giovani” erano, almeno in origine, espressione delle famiglie più influenti della precedente proprietà terriera locale, mentre i “Giovanotti” erano genericamente associabili, almeno alla loro nascita, alle famiglie dei lavoranti e dei contadini, precedentemente impiegati nell’attività agricola dalle famiglie dei proprietari. Infine, assai più recentemente, si sono venuti a creare, in ogni Comune, dei carri derivati da una cesura interna, per lo più in quelli dei Giovanotti, che hanno dato origine, nei diversi paesi, a carri dei “Giovanissimi”, o in precedenza dei Giovanotti originali o ancora degli “Xhuventjelvet” – nome arbëreshë dei ‘Giovanottielli’ – a Portocannone o ancora dei “Fedayn” a Ururi. La festa dunque, come accade spesso viene a costituirsi come ‘oggetto conteso’ e display eccellente entro il quale analizzare le molteplici tensioni e dinamiche sociali, politiche ed economiche della comunità locale, secondo una letteratura critica ben nota all’interno degli studi sui processi di patrimonializzazione.

La performance agonistica inserita all’interno del complesso sistema rituale delle Carresi – rituali preparatori, allenamenti, prove, benedizioni di carristi e animali, corsa, processione religiosa successiva alla corsa e socialità diffusa oggi fortemente connessa alla vita delle associazioni carristiche, si caratterizza per un notevole sistema di abilità e competenze specifiche maturate nel corso dei decenni – e probabilmente dei secoli. A San Martino in Pensilis si corre per circa 9 km. lungo un percorso per metà sterrato e per l’altra asfaltato, giungendo sino a passare l’arco di accesso al centro storico del paese che sigla la vittoria del carro arrivato per primo ad attraversarlo. A Ururi il percorso è di circa 3,5 km. e a Portocannone di circa 4 km. Non a caso a San Martino si effettua anche uno spettacolare cambio delle pariglie di buoi di ciascun carro in cui a una prima coppia di buoi ne viene sostituita un’altra fresca per riprendere la competizione rituale fino a giungere in centro.

Sul carro prendono posto tre uomini – due laterali e un centrale – che hanno il compito di gestire le redini e quindi la direzione del carro e dei buoi in corsa e di rendere il più possibile in equilibrio il carro stesso. Intorno al carro si posizionano un certo numero di uomini a cavallo – diverso a seconda dei paesi – che si suddivide essenzialmente tra i cavalieri che da dietro, utilizzando delle verghe (aste di legno di lunghezza diversa dotate di pungoli) spingono il carro in corsa facilitando la gara dell’intero insieme di uomini, cavalli e buoi e due cavalieri – detti ‘toccatori’ – che affiancano i buoi ai due lati aiutandoli a tenere la direzione e correggendo eventuali scarti o problemi dell’andatura. L’insieme che ne risulta è particolarmente compatto, con un alto livello di sintonia tra le parti, e con un’immagine esterna fortemente sintetica.

I buoi – che sono i veri protagonisti della performance agonistica – si mescolano ai cavalli, ai carristi (o carrieri, secondo i Comuni) e ai cavalieri nella corsa fino quasi a far scomparire il carro all’interno di questo insieme serrato di corpi, oggetti, voci, sospiri, umori e saperi che concorre a un unico comune obiettivo.

Si obietta da parte degli animalisti che ‘i buoi non nascono per correre’, anche se in realtà, soprattutto a partire dalla fine del sistema agricolo tradizionale i buoi impiegati nelle Carresi sono ormai selezionati genealogicamente e quindi allevati appositamente con la sola finalità di correre e solo se si rivelano inadatti vengono avviati alla macellazione dagli allevatori specializzati oppure al circuito più ampio di altri cerimoniali tradizionali che pure prevedono l’impiego di buoi e vacche, ma senza necessità di correre. Si tratta di buoi di razza podolica, di una particolare qualità che risulta morfologicamente più asciutta, snella, dotata di ossatura e giunture atte a rendere più agevole la corsa.

Inoltre questi animali, prescelti tra quelli già comunque selezionati e allevati appositamente all’uopo vengono precocemente avviati e preparati alla corsa attraverso un complesso sistema di passeggiate, ripetute (interval training), prove regolari a ridosso delle corse che preparano al meglio gli animali sia in termini di respirazione che di muscolatura. Anche l’alimentazione viene studiata appositamente per coadiuvare gli animali e metterli nella migliore condizione di correre, nutrendoli senza appesantirli e dare loro energia. A questa dieta puntuale e all’allenamento si uniscono molte altre attenzioni fatte di pulizia, cure della pelle e massaggi per garantire il tenore e l’integrità di muscoli e dei tendini.

Si tratta di un insieme di conoscenze e pratiche esperte volte a garantire agli animali un costante stato di buona salute, benessere, accanto a una continua relazione e dimestichezza con uomini e cavalli (presenti in larga parte nelle stesse stalle) nonché con gli oggetti che fanno parte del corredo di gara: carro, redini, aste o verghe, frustini, utilizzati in parte per sollecitare gli animali, ma soprattutto per direzionarli. Non è un caso che molti uomini del carro facciano notare nel rivedere i video della corsa, per segnalare una buona prova del team, quando i buoi non rendono quasi necessario l’uso delle verghe da parte dei toccatori a dimostrazione che buoi ben allenati non necessitano né di pungolo né di altre stimolazioni per ottenere straordinari risultati[2].

Al rientro della gara è attentissima la cura di ogni minima lesione subita da buoi e cavalli, nonché la preparazione di lettiere particolarmente ricche e soffici per un buon riposo degli animali che hanno affrontato un così importante sforzo. I casi di incidenti più gravi, seppure piuttosto rari e debitamente documentati ricorrono nella “memoria delle stalle” e vengono con regolarità ritrasmessi alle nuove generazioni come momenti gravissimi e dolorosi delle comunità carristiche. L’interazione tra uomini e animali nella concitata performance agonistica delle Carresi e durante i lunghi mesi della preparazione e dell’attesa si realizza essenzialmente a tre livelli. Per prima cosa il contatto (carezze, cure, massaggi, nutrimento, abbracci, e persino baci, come si è detto); quindi attraverso la vista (sguardi attenti per definire lo stato di salute dell’animale e il suo ‘umore’, sguardi esperti capaci di comprendere al volo zoppie, malesseri, criticità dello stato dell’animale, intenso scambio ‘simpatetico’); infine, ma non ultima, la voce. Gli uomini, infatti, parlano spesso con i buoi e i cavalli della stalla, ci sono parole che vengono ripetute con regolarità al bue per stimolarlo, calmarlo, incuriosirlo. Nelle comunità arbëreshë spesso gli uomini parlano in albanese agli animali, perché così li hanno abituati nel corso dei mesi e degli anni della doma e dell’allenamento. È una sorta di registro di parole e di toni familiari (Padiglione - Botta 2005), sedimentato nel tempo e nel corso delle diverse fasi dell’interazione: la doma, la ‘scapezzatura', gli allenamenti fino al momento culminante della gara vera e propria. Analogamente allo stesso registro comunicativo vengono precocemente abituati e familiarizzati i bambini che vivono più da vicino la vita della stalla: essi crescono con l’idea che si possa comunicare e comprendere i segnali che i buoi e i cavalli comunicano e mostrano, sin dalla più tenera età, sviluppando, così, una relazione estremamente facile e familiare con essi.

Nel complesso la familiarità che queste comunità mostrano con la dimensione animale, nonostante lo stile di vita diffuso in questi paesi sempre più accomunabile a quello urbano e translocale, si basa su una conoscenza profonda e una contiguità diffusa tra uomini, buoi e cavalli. Gli animali attraversano le strade del paese, solcano il territorio della comunità seguiti e festeggiati dalla popolazione, vengono benedetti davanti alla Chiesa maggiore, vengono osservati e ripresi in ogni loro momento di attività da infinite telecamere private e professionali o semiprofessionali producendo immagini che vengono successivamente guardate e riguardate per tutto l’anno in ogni momento rilevante della vita associativa. Questo sembra sedimentare una familiarità assoluta, una sorta di intimità vera e propria tra uomini e animali che raramente è dato di osservare nella vita contemporanea, un’intimità fatta di cura, assai più che di sfruttamento – come ci appare dalle nostre osservazioni etnografiche ad oggi –, in cui si afferma con forza l’idea di cooperazione tra tutte le componenti del ‘carro’ (buoi, cavalli, uomini e le donne che li supportano), molto lontana dalla reificazione e dalla strumentalizzazione cui viene associata da certi attacchi animalisti, ma assai più tarata sul registro di una ‘com-passione’ e interazione che merita di essere ulteriormente interrogata e sollecitata alla luce delle riflessioni dell’“ecologia culturale” (Bateson 1972, 1979) e del rapporto uomo/natura/territorio/saperi (Ingold 2000; Grasseni 2003, 2009) degli animal studies e della zooantropologia come laboratorio privilegiato di una nuova visione di questa stessa relazione[3]. Circa l’interazione uomo/animale intesa come comune processo di interazione e trasformazione reciproca, gli animal studies e, prima ancora la filosofia contemporanea, hanno elaborato nozioni come quella di “co-becoming” e di “co-being”, riprendendo la riflessione deleuziana sul “dévenir animal” (Deleuze- Guattari 1977; Dittmar 2009 Derrida 2006) e le successive riprese da parte di altri autori, come ad esempio Haraway (2003, 2008) e Agamben (2002).

Se all’interno delle comunità locali vige la più completa solidarietà e senso di collaborazione e intimità verso gli animali coinvolti nel sistema cerimoniale, dall’esterno, già a partire dalla fine degli anni Ottanta, si sono diffusi numerosi attacchi da parte delle associazioni animaliste schierate contro la componente maggiormente agonistica delle Carresi, individuando in essa il sospetto di abusi e maltrattamenti verso gli animali.

L’attacco da parte delle associazioni animaliste e l’intervento di controllo e censura delle autorità pubbliche (Questura, Procura della Repubblica, NAS, Carabinieri) viene sovente percepito come invasivo e violento, specie nei momenti concitati che precedono o seguono le competizioni. Durante la Carrese di San Martino in Pensilis del 2014 (30 aprile), proprio durante la concitata fase del cambio dei buoi, un nutrito gruppo di rappresentanti delle forze dell’ordine inaspettatamente bloccò le coppie di buoi che erano state appena sganciate da ciascun carro, per verificare sul posto che non fossero stati in alcun modo vittime di doping, nonostante nei giorni immediatamente precedenti fossero stati svolti regolari controlli del sangue dei buoi e dei cavalli dichiarati dalle diverse associazioni. Dinanzi a quello che sembrò caratterizzarsi come un vero e proprio blitz delle forze dell’ordine sia gli uomini del carro che la popolazione presente in gran numero, come sempre accade, al cambio, espressero con forza le proprie lamentele, accusandoli di maltrattare le persone che tentavano con onestà e intensità di salvaguardare le proprie tradizioni invece di andare a perseguire i reali criminali. Si trattò di un momento di estrema tensione – molto discusso e commentato in tutti i paesi dell’area carristica – in cui emerse in modo evidente proprio lo scontro tra la nuova sensibilità animalista e dello stesso ordine statuale e la tradizione locale: una sorta di emblematica sintesi del conflitto in atto[4].

Dal canto loro le autorità pubbliche, nella loro rappresentanza locale, hanno insistito a più riprese sul fatto che non vi sia, da parte loro, alcuna volontà di destrutturazione e smantellamento della tradizione, ma solo quella di far rispettare le regole permettendo a tutti di godere al meglio e in sicurezza delle celebrazioni in questione, senza danno e detrimento degli animali coinvolti, come secondo legge è stato da alcuni anni stabilito[5]. Pochi giorni dopo una situazione analoga si venne a verificare anche a Ururi, dove si celebrava (3 maggio) la Carrese. La piazza del Comune dove i carri arrivano a fine percorso e la popolazione festante può finalmente celebrare il successo del carro vincente era letteralmente militarizzata e questa cosa venne con puntualità e dispiacere fatta notare da tutti, mettendo in rilievo come ormai ciò facesse sentire le persone coinvolte nelle associazioni carristiche e i semplici simpatizzanti della Carrese dei veri e propri criminali. A Ururi lo stato di tensione era ulteriormente aumentato da una difficoltà di decisione in merito alla partenza, data, a giudizio almeno di uno dei carri, in modo errato dal Delegato alle Carresi del Comune e che avrebbe pertanto compromesso l’intero svolgimento della gara e il conseguente risultato. Ciò da la misura di quanto il complessivo stato di tensione e minaccia percepita a livello locale stesse progressivamente minando la stabilità e l’equilibrio interno alle associazioni carristiche, mettendo in parte in discussione i legami comunitari. La polemica sollevata intorno alla questione della partenza contestata e del doping si protrasse per mesi, in attesa che arrivassero i risultati sia delle analisi preventive che di quelle successive allo svolgimento della gara comunque svolte anche nel caso di Ururi, seppur in modo meno visibile e spettacolare di quanto non fosse accaduto a San Martino, fino alle notizie giornalistiche su un’ipotetica uscita dei risultati ufficiali comunicati dalla Procura della Repubblica che avrebbero confermato l’uso di sostanze dopanti da parte di due carri su tre con conseguente esasperazione del conflitto interno alla stessa comunità e tra le comunità e le autorità regionali e nazionali. In particolar modo a Ururi le notizie circa i differenti risultati delle analisi svolte dai NAS tra i buoi e i cavalli dei diversi carri[6] ha determinato una pericolosa frattura tra uno dei partiti – che rivendica di aver totalmente da tempo sospeso qualsiasi somministrazione di sostanze dopanti – e gli altri che evidentemente, dati i risultati annunciati, avrebbero continuato a farlo nonostante le avvisaglie di controlli a sorpresa che venivano da più parti minacciate e gli episodi di pochi giorni prima a San Martino[7].

Se il 2014 aveva mostrato già ampi elementi di conflittualità e tensione tra questi due ordini di riferimento, il 2015 ha fornito alla ricerca etnografica un terreno, se possibile, ancora più denso di avvenimenti e spunti importanti di riflessione sia sul piano teorico che metodologico.

Dopo un’intera annata trascorsa tra polemiche anche piuttosto accese in merito alle corse dei carri e la presentazione in Regione di una legge speciale a tutela delle stesse che tentava di sollevarle dall’ottemperanza più stretta alle regole imposte dall’Ordinanza ministeriale ‘Martini’, ad aprile 2015 si è giunti a un momento drammatico della controversia con l’emissione, in data 25 aprile (a cinque giorni, cioè, dalla celebrazione della Carrese di San Martino in Pensilis, la prima in ordine di tempo) di un mandato di sequestro delle stalle di tutti e tre i paesi e di tutti e tre i partiti di ciascun paese da parte della Procura della Repubblica di competenza, cioè quella di Larino. Il sequestro delle stalle ha gettato comprensibilmente nello sconforto e nella confusione tre intere comunità e ha dato inizio a un complesso iter che tra richieste di revoca e di riesame del procedimento, entrambe respinte e accompagnate da un puntuale allegato di ricusazione in cui si individuavano i punti critici delle pratiche di corsa tradizionale rispetto all’imprenscindibile richiesta di adeguamento alle norme nazionali e più generalmente ispirate a un’esigenza di tutela del benessere animale.

In sostituzione delle corse tradizionali non celebrate, pertanto, in nessuno dei tre Comuni in questione, tra aprile e maggio, si sono svolte una serie di attività, tutte molto pacifiche e responsabili, di protesta da un lato (fiaccolate, marce simboliche sul percorso di gara, ecc.) e di riconferma della volontà di queste comunità di difendere le proprie secolari pratiche cerimoniali.

A seguito di quanto avvenuto un avvocato locale, già Presidente dell’Albo degli avvocati regionale, è stato incaricato di seguire la procedura di difesa e produzione di un nuovo disciplinare per permettere al Procuratore di riconsiderare il sequestro delle stalle e di fatto consentire il nuovo svolgimento delle corse in onore dei Santi patroni. L’avvocato, egli stesso residente in uno dei Comuni dell’area e profondo conoscitore dei cerimoniali, ha quindi interpellato chi scrive e Katia Ballacchino, anche su suggerimento delle comunità di pratica festiva, come esperte in grado di fornire una perizia atta a tale scopo e suggerito il coinvolgimento, come era ovvio e opportuno, di altre figure di periti quali veterinari e zootecnici che sono stati chiamati a fornire report su modalità di risoluzione delle questioni più spinose relative agli aspetti tecnici delle corse, dei fondi di gara, delle ferrature e dell’uso dei pungoli.

La relazione tecnica che è stata prodotta dalle antropologhe coinvolte nel procedimento si è concentrata sia sul valore patrimoniale delle tradizioni in questione che sulle pratiche quotidiane di cura e allenamento dei buoi e dei cavalli coinvolti nelle corse rituali, ma il ruolo delle etnografe non si è limitato solo alla produzione di un testo, quanto piuttosto a tutte le fasi di concertazione e mediazione tra le comunità di eredità e le istanze giudiziarie con le quali erano chiamate a misurarsi (Ballacchino-Bindi 2015; Ballacchino-Bindi, in press).

In tal senso il percorso del 2015, sino alla risoluzione del procedimento e al conseguente dissequestro delle stalle sopraggiunto il 22 dicembre di questo stesso anno a seguito delle perizie e del nuovo disciplinare prodotti dalla difesa alla Procura di Larino, si è configurato come un caso di estremo interesse sia specificamente nel merito della particolare etnografia per le forme di risoluzione e mediazione puntuale che sono state individuate tra quadri nazionali e internazionali di riferimento normativo e pratiche delle comunità festive locali, ma anche e soprattutto un’occasione di riflessione circa l’engagement che l’antropologo necessariamente finisce per sviluppare rispetto alle comunità di eredità con cui lavora nel contesto dei processi di salvaguardia e valorizzazione del loro patrimonio culturale.

Su questo, necessariamente, la riflessione è ancora in corso e ci riserviamo, con Katia Ballacchino, di sviluppare più articolate considerazioni nella monografia che stiamo preparando sull’intero percorso etnografico svolto nelle quattro comunità, non prima di aver seguito per tutto il 2016 le modalità concrete con le quali le comunità si adatteranno e si organizzeranno a seguito delle risoluzioni maturate e negoziate nel 2015 con la Procura e delle eventuali reazioni dei movimenti animalisti che ne dovessero derivare.

In modo del tutto inaugurale, però, merita qui rilevare come il caso studio in questione mostri non solo la vivacità e la assoluta contemporaneità della controversia tra processi patrimoniali e gerarchie globali del valore. Al tempo stesso il percorso di risoluzione della vicenda giudiziaria, con il coinvolgimento diretto delle antropologhe nell’expertise prodotto per la Procura della Repubblica e nel processo di concertazione e mediazione con le istanze delle comunità di carro pone, come già si accennava, non poche e interessanti questioni di ordine metodologico e teorico.

Da un lato quella dell’engagement dell’etnografo nei terreni e con le comunità con le quali si trova a lavorare e i processi di partecipazione dal basso ai processi sia di salvaguardia che di valorizzazione dei patrimoni culturali delle comunità di eredità che individuano nella figura dell’etnografo un importante snodo tra livelli decisionali e di governance diversi con tutto ciò che di problematico ciò implica, necessariamente, da un punto di vista teorico, ma anche di metodo. Si pongono, infatti, una serie di domande di carattere deontologico per lo scienziato sociale relative alla posizione che esso deve tenere sul campo, alla sua relazione di studio e al tempo stesso di collaborazione con le comunità nei processi di salvaguardia e valorizzazione, in quelli di conservazione e autodocumentazione, nella ‘traduzione’ in alcuni casi che esso deve provvedere di discorsi e pratiche circolanti a livello locale in linguaggi e regimi codificati e normati a livello nazionale e sovranazionale, come ad esempio quello giuridico, come in questo caso, e più generalmente i quadri di riferimento patrimoniali globali.

Su un altro fronte la vicenda qui appena delineata pone interessanti questioni di carattere teorico: ad esempio le diverse concettualizzazioni di ‘benessere’ e di ‘diritto’ animale afferenti a contesti e ambienti diversi: metropolitano, paesano, rurale, ecc., nonché una diversa idea del ‘co-being’ – come viene comunemente definito dagli studi sulla relazione uomo-animale – che anch’essa cambia a seconda dei contesti e dei ‘mondi di vita’ degli appartenenti alle comunità di pratica festiva e di quelli impegnati nell’attivismo animalista.

Da questi due ordini di riflessione riteniamo che la disciplina riceva importanti spunti a ripensare criticamente sia la questione cruciale della posizione dell’etnografo sul campo che quella altrettanto cruciale relativa alla relazione uomo/animale nei diversi contesti territoriali e comunitari studiati che è da sempre al cuore di molte etnografie nonché della riflessione più generale sul rapporto natura/cultura nelle varie sue manifestazioni contestuali.

La polemica animalista contro la tradizione

Negli ultimi tre anni le polemiche animaliste si sono dunque accresciute, corroborate dall’emissione nel 2009 e dalla conferma successiva di un’Ordinanza Ministeriale – la 207 del 2009[8] (la cosiddetta Ordinanza Martini), quindi rinnovata e riconfermata nella sostanza nel Luglio 2011 – che pone molti limiti allo svolgimento di cerimoniali e competizioni rituali come i palii, le giostre e le corse che vedono coinvolti quasi essenzialmente cavalli (il modello su cui l’Ordinanza è tarata è ovviamente l’uso degli equidi in queste manifestazioni di carattere tradizionale, il che già crea un’ulteriore anomalia per feste che vedono invece coinvolti anche dei bovini con tutto ciò che ne consegue)[9]. La ratio fondamentale di questa Ordinanza – come si esplicita nel Comma 2 dell’art. 1 della stessa – è la tutela dell’incolumità pubblica e del benessere degli animali, secondo regole ben precise contenute nell’allegato all’Ordinanza. Si cumulano, pertanto, in questo regolamento delle manifestazioni di carattere tradizionale che vedono coinvolti equini (e più in genere animali), sia preoccupazioni di carattere securitario (incolumità pubblica, sicurezza del pubblico che assiste alle manifestazioni, stato di salute e sobrietà degli uomini coinvolti), una esplicita volontà di tutela del benessere animale, declinato secondo regole contenute nell’Allegato e che in larga parte ricalcano quelle previste per gli equidi coinvolti in manifestazioni di carattere sportivo, con l’aggiunta di cautele connesse soprattutto ai percorsi non regolamentari che possono rappresentare un rischio per la salute e l’incolumità degli animali coinvolti nelle competizioni tradizionali[10]. Non è un caso che, proprio a partire dall’emissione della suddetta Ordinanza e dai successivi attacchi da parte di alcune figure di rilievo della politica nazionale cerimoniali importanti come, ad esempio, il Palio di Siena si siano visti escludere addirittura dalla candidatura alla Lista Rappresentativa UNESCO del Patrimonio Culturale Immateriale per il sospetto maltrattamento dei cavalli impegnati nella tradizionale carriera senese, nonostante un sistema complesso e articolato di controlli e normative fosse stato imposto alle contrade che organizzano due volte all’anno la celebrazione e che lungo tutto il corso dell’anno paliesco si fanno carico della vita associativa contradaiola e della raccolta dei fondi per la preparazione e allenamento dei cavalli (Broccolini 2012).

Quello che si è venuto a creare in conseguenza di questo nuovo contesto di forte sensibilità al tema della tutela e persino dei diritti soggettivi degli animali è uno stato di particolare tensione e conflittualità tra le istanze connesse alla difesa della tradizione locale e quelle di tutela degli animali portate avanti dalle associazioni animaliste e, molto spesso su sollecitazione di queste, anche dalla Questura e dalla Procura della Repubblica, impegnate con zelo sempre crescente a far rispettare le norme stabilite dall’Ordinanza Martini. Anche nel contesto delle Carresi, dunque, ci siamo trovati di fronte a una incredibile ascesa della conflittualità tra ordini di riferimento locali, impegnati nella difesa strenua delle tradizioni locali, e ordini nazionali, sempre più determinati a ottemperare le richieste delle associazioni animaliste che chiedono a gran voce di ridimensionare radicalmente, quando non addirittura sospendere le ‘manifestazioni’ ritenute lesive del benessere e dei diritti animali.

Le associazioni animaliste sostengono, infatti, che gli animali corrono eccessivi rischi e subiscono maltrattamenti nel corso della performance rituale e criticano le Carresi come tradizione retriva e selvaggia presentandosi come portatrici di nuove sensibilità globali e civili. Questo atteggiamento dei movimenti animalisti inquadra la loro azione di protesta e advocacy nel quadro di convinzioni maggiormente rispettose e inclusive, rispetto a quelle, a loro avviso di cui sarebbero portatrici le comunità locali ancorate a certe forme di performance e pratica tradizionale: si presentano come movimenti di diritti e rispetto allineandosi in ciò e appoggiandosi ad altre battaglie per i diritti di minoranze come quella femminista e antirazzista/postcoloniale[11].

Le posizioni animaliste sono molto variegate e provengono da tradizioni di pensiero e prassi politiche, persino, anche molto distanti, talora, tra di loro. L’approccio che potremmo sommariamente definire ‘protezionista’ risente di una postura intellettuale tendenzialmente oggettivante e paternalistica verso gli animali, ritenendo che sia dovere per l’uomo proteggerli, ma senza con ciò scalfire la centralità antropologica dell’impianto teorico. Spesso si appoggiano sul principio del ‘non nuocere’, altre volte sulla compassione verso gli animali, spesso giungendo, però, a differenziare tra animali domestici o prossimi alla vita umana e quelli selvatici, distanti e percepiti come pericolosi per l’uomo che non vengono ritenuti altrettanto degni della protezione e tutela rivendicate a gran voce per i primi (una differenziazione che essenzialmente segue la linea di demarcazione tra vertebrati e invertebrati e più specificamente tra mammiferi e tutto il resto degli esseri viventi). Altro approccio teorico è sicuramente quello dell’animale come ‘soggetto di diritti’, sostenuto, seppur con differenziazioni tra di loro, da autori come Peter Singer, ma soprattutto da Tom Regan. Questo approccio, decisamente più vicino alle posizioni antirazziste e femministe più radicali, si consolida come vero e proprio ‘antispecismo’ (Singer 1975) e nella teoria dei ‘soggetti-di-vita’ di Regan (1983) in cui l’animale è ritenuto in primo luogo portatore di diritti solo per il fatto di essere vivente, indipendentemente dalla sua capacità di essere senziente e di manifestazione immediata del dolore. Tuttavia alcuni autori criticano queste teorie accusando a loro modo anch’esse di forte antropomorfizzazione dell’animale e, in alcuni casi, di una forma di advocacy ancora segnata da confessionalismo e paternalismo, ma soprattutto di non riuscire a risolvere l’aporia della impossibilità animale – a qualunque grado della scala evolutiva – di portare avanti autonomamente una richiesta di tutela e di diritti e in ciò radicalmente ambivalenti. (Cfr. Mannucci 2001; Pocar 1998; Cavalieri 1999).

Le teorie di tutela dei diritti animali si scagliano, seppur da punti di vista diversi, contro l’antropocentrismo assoluto che farebbe da modello ideologico di tutte le posizioni e le pratiche poco attente – secondo gradi di sensibilità sempre più restrittivi – alle violazioni e ai maltrattamenti nei confronti degli animali. Si va da approcci che sostengono l’opportunità del rispetto del diritto animale in quanto lo umanizzano, proponendo la necessità di allargare anche agli animali non umani gli stessi diritti degli uomini (il richiamo alla ‘liberazione animale’ in Pete Singer, ad esempio, o ancora la teoria del soggetto-di-vita di Tom Regan) oppure gli approcci che deificano e riducono per ciò stesso l’animale a mero oggetto da tutelare. In ogni caso i movimenti e le teorie animaliste intendono portare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla necessità di ripensare radicalmente il concetto stesso di animalità e la responsabilità umana verso il benessere animale. Una posizione di carattere intermedio tra tutte le posizioni animaliste sin qui accennate è rappresentata da Mary Midgley che, riprendendo spunti sia dell’anti-specismo di Singer che della teoria del ‘soggetto-di-vita’ di Regan (con la sua relativa riconsiderazione e ampliamento della nozione stessa di ‘persona’), approda tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta a una posizione che sembra voler andare oltre un semplicistico egualitarismo interspecifico, pur non ricadendo in posizioni tritamente antropocentriche. Essa riconosce le affinità interne alle singole specie, ma anche la necessità di creare un rapporto tra di esse, dato che le relazioni tra uomini e animali sono in fondo sempre esistite e non sono state solo ed unicamente di carattere conflittuale e violento. In tal senso Midgley ricollega la battaglia per la tutela del benessere animale alla necessità di tutelare più complessivamente la biosfera e l’ecosistema globale garantendo non solo relazioni positive tra uomini e animali, ma anche la stessa sopravvivenza del pianeta (Midgley 1983). Assai più che come ‘soggetti di doveri’ – così come le posizioni di Regan, in particolar modo sembravano individuare, Midgley, e con lei anche Passmore (1974), che mette in discussione la teoria dei diritti animali, pur perorando con energia la necessità di un maggiore rispetto e della totale evitazione di crudeltà umana verso di essi sembrano individuare negli animali non umani dei ‘destinatari di doveri’, richiamandosi all’urgenza di una presa in carico e di un’assunzione di responsabilità da parte della specie umana del complessivo benessere animale e della tenuta stessa dell’ecosistema.

Sull’altro ‘corno’ della polemica le comunità che condividono pratiche rituali che vedono coinvolti gli animali, ribadiscono che non vi è alcuna deliberata volontà di nuocere e che, anzi, gli animali sono di fatto al centro delle loro pratiche rituali e della vita stessa delle loro collettività e sostengono il loro amore verso gli animali, la loro centralità all’interno del sistema della stalla e della vita carristica, difendono la loro convinzione che gli animali siano veri cooperatori dell’opera umana nel carro e sono sempre attenti nel far notare la diffusa dimestichezza uomo-animale che sottostà a questi universi simbolici e festivi.

Gli animalisti dal canto loro utilizzano la sempre maggiore diffusione pubblica (media e new media) di immagini compromettenti e emblematiche dei rischi in cui gli animali incorrono in questo tipo di manifestazioni, insistendo sullo sdegno e il ribrezzo che tali immagini sollevano nell’opinione pubblica inducendo sempre maggiore adesione alla causa animalista e alla sua battaglia contro questo tipo di manifestazioni tradizionali. Si può anche notare come certi accenti polemici si impongano per un forte accento propagandistico e una certa veemenza priva di argomentazioni precise e organizzate, quanto piuttosto scatenata sull’onda di eventi – e relative immagini – particolarmente cariche di emotività, senza mai andare al fondo delle questioni poste da questo stesso scontro di visioni e pratiche[12].

Dall’altro l’osservazione etnografica ci ha permesso di notare come all’interno delle associazioni carristiche l’animale è tutt’altro che reificato, ma semmai personalizzato, al punto tale che i buoi hanno i loro nomi propri, se ne ricorda e segnala con cura ogni dettaglio morfologico e ogni abitudine riconosciuta, si conserva memoria di tutte le loro gesta, della loro storia personale e agonistica (quando sono arrivati alla stalla, quando hanno corso per la prima volta, quando sono stati domati, scapezzati, ecc.).

Se per gli animalisti le fotografie e i video delle Carresi divengono elemento essenziale di documentazione degli abusi e delle pratiche da combattere e tale documentazione utilizzano per accendere l’opinione pubblica e sollecitare le autorità a prendere provvedimenti, nonché per farsi un’idea, spesso piuttosto a distanza di ciò che il mondo delle Carresi sia, dall’altro lato la riproduzione mediatica della performance rituale moltiplica nelle comunità di carro l’affetto verso gli animali, le memorie relative a tutti i buoi e i cavalli che nei decenni hanno reso possibile il ripetersi del cerimoniale e la vittoria di questo o quel carro.

Si riscontra, inoltre, un sempre più cospicuo numero di immagini emblematiche, debitamente fatte circolare sui social networks, di momenti di esplicito affetto tra uomo e animale (baci, abbracci, lacrime e sorrisi rivolti dagli uomini del carro verso i buoi e i cavalli coinvolti nella gara tradizionale). Tali immagini e i video – continuamente ritrasmessi e rivisti durante l’anno carristico, in situazioni sia pubbliche che private – divengono una sorta di icona emblematica del rituale e materializzano ripetendolo e moltiplicandolo all’infinito il vincolo di affetto, ammirazione e devozione, persino, verso gli animali coinvolti nella performance agonistica rituale.

Una doppia patrimonializzazione

Da un certo punto di vista le due posizioni in contrasto patrimonializzano, seppur in modi del tutto opposti, i buoi (e, più marginalmente, gli stessi cavalli).

La maggior parte delle istanze animaliste considerano l’animale, infatti, quando non addirittura un soggetto autonomo di diritti, un ‘bene’ da tutelare e proteggere dalle pratiche tradizionali a loro giudizio attardate e cieche dinanzi alla nuova, più ragionevole e compassionevole sensibilità globale verso il rispetto dei loro diritti, con tutte le ambivalenze, come si è visto, che questa stessa nozione contiene. L’animalismo, in ultima istanza, sia come intreccio di posizioni teoriche che come insieme di pratiche di difesa e advocacy attribuisce agli animali nuovo valore, li porta al centro del dibattito, ne aumenta esponenzialmente la visibilità, si impegna nella loro difesa e, pur non volendo esplicitamente individuarli come ‘oggetti’ dell’esercizio giuridico e politico umano, di fatto ne fa un patrimonio da tutelare nel quadro più complessivo delle teorie della salvaguardia della natura e della biodiversità[13].

Dall’altro le comunità che condividono e da secoli ripetono le corse rituali patrimonializzano i buoi e i cavalli difendendone il loro ruolo di cooperatori del comune obiettivo rituale di celebrazione del santo patrono e del vincolo comunitario stesso, ricomprendendoli in un più ampio concetto di patrimonio culturale condiviso da difendere.

Non è un caso che negli ultimi 30 anni l’UNESCO stessa abbia prodotto Convenzioni specificamente dedicate ai due corni di questo dibattito e che mostrano quanto la riflessione sul mondo animale come bene da tutelare e proteggere e il patrimonio culturale immateriale come diritto culturale delle comunità siano al cuore stesso della mission di valorizzazione e tutela della diversità naturale e culturale che l’agenzia globale si prefigge[14].

Nel 1978 venne siglata a Parigi la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Animale: un documento innovativo che superava l’atteggiamento protezionistico, pietistico, paternalista o più sentimentalmente zoofilo che sin lì i gruppi anche più sensibili al rispetto verso gli animali avevano di fatto maturato, orientando il ‘discorso’ dell’animalismo su un piano di radicale biocentrismo, specismo, di rispetto della comunità biologica nella sua interezza (biosfera, biodiversità), se non di vera e propria giustizia interspecifica. Pur non dichiarando in alcuna delle sue parti il nesso tra mondo animale e idea di ‘patrimonio’ – il ché forse sarebbe di fatto sembrato un ricadere in un’impostazione eccessivamente reificante e antropocentrica – , di fatto la Dichiarazione dei Diritti dell’Animale ricomprende l’intera biosfera e la vita di tutti gli esseri viventi nella nozione di patrimonio da tutelare e difendere dalla violenza e dai maltrattamenti dei singoli, ma soprattutto dalle forme più industriali di maltrattamento animale (produzione industriale di carni e altri prodotti derivati) che impongono ritmi, luoghi e modalità di produzione e di vita insostenibili e angoscianti o ancora da modalità di lavoro e condizioni eco-ambientali che rendono progressivamente impossibile la vita di cospicue quantità di animali e, talora, di intere specie. L’idea è quella di tutelare tutte le forme di vita esistenti sulla terra come ricchezza della biodiversità e come destinatari di diritti che, pur non essendo in grado di far valere direttamente in prima persona (la vecchia argomentazione critica circa l’aporia della teoria dei diritti soggettivi animali), meritano di essere rispettati.

All’inizio del nuovo Millennio, invece, ancora in una logica di tutela e valorizzazione delle diversità – in questo caso delle molteplici culture umane – , da sempre al cuore della mission UNESCO, l’agenzia internazionale dell’ONU licenzia un’altra Convenzione quella sui patrimoni immateriali (Convenzione sull’Intangible Cultural Heritage, 2003), in cui i patrimoni di saperi e di pratiche diffusi nelle diverse comunità del pianeta vedono riconosciuto il loro diritto non solo ad essere rappresentati e conosciuti, ma anche salvaguardati e valorizzati, accanto a quelli materiali e paesaggistici, già da tempo riconosciuti come patrimonio dell’Umanità. Pochi anni dopo – e in forte connessione con la riflessione maturata nel quadro della Convenzione sul Patrimonio immateriale – il Consiglio di Europa produrrà un’ulteriore Convenzione (Convenzione di Faro, 2005, in corso di ratifica in Italia) che raccoglie le indicazioni della Convenzione UNESCO “sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali” in cui si ricorda esplicitamente che:

“la diversità culturale rappresenta un patrimonio comune dell’umanità e che dovrebbe essere valorizzata e salvaguardata a beneficio di tutti, […] crea un mondo prospero ed eterogeneo in grado di moltiplicare le scelte possibili e di alimentare le capacità e i valori umani, rappresentando quindi un settore essenziale per lo sviluppo sostenibile delle comunità, dei popoli e delle nazioni…ricordando che la diversità culturale germogliata in un contesto di democrazia, tolleranza, giustizia sociale e rispetto reciproco tra culture e popoli diversi è un fattore indispensabile per garantire pace e sicurezza sul piano locale, nazionale e internazionale…”.

A partire da queste premesse la suddetta convenzione stabilisce

“l’importanza del sapere tradizionale quale fonte di ricchezza immateriale e materiale e, segnatamente, dei sistemi di conoscenza dei popoli indigeni, il loro contributo positivo a favore di uno sviluppo sostenibile nonché la necessità di garantire loro protezione e promozione in modo adeguato”

e prende atto della

“necessità di prendere misure volte a proteggere la diversità delle espressioni culturali e i loro contenuti, in particolare nei casi in cui le espressioni culturali possono essere minacciate di estinzione o soggette a gravi alterazioni”.

In questo nuovo quadro di valorizzazione e tutela dei diritti culturali specifici delle comunità, l’UNESCO riconosce nei patrimoni immateriali radicati nelle comunità e nei territori un ‘bene comune’ meritevole di salvaguardia e protezione, andando a configurare anche potenziali elementi di conflittualità con altri livelli della tutela della diversità quale quello del mondo animale, così come dei diritti fondamentali (genere, diritti dei bambini, ecc.). Di qui la necessità di riflettere con cura su questi casi in cui con maggiore evidenza i diritti fondamentali – ad esempio degli animali – vengono a confliggere, almeno parzialmente o episodicamente col diritto delle comunità a vedere tutelate le loro pratiche tradizionali e festive, un aspetto di tensione tra livelli diversi del diritto sempre più frequentemente rilevabile.

Un risultato abbastanza paradossale di questo scontro tra visioni diverse del mondo e della relazione uomo-animale è che la tradizione culturale viene raccontata, nei pamphlets e nelle iniziative dei movimenti animalisti, come arrogante ed egemone rispetto a una sensibilità animalista presentata come minoritaria e bisognosa di tutela e disseminazione. Molti ‘discorsi’ animalisti invocano il cambiamento e l’aggiornamento e la revisione radicale di queste ‘attardate’ pratiche culturali, ribaltando con ciò una relazione tra mondi locali e ideologie translocali oggi decisamente egemoni.

Al contrario i diritti culturali delle comunità attaccate dai movimenti animalisti per le loro pratiche festive oggi sembrano essere sempre più minoritari e la colpevolizzazione e criminalizzazione di queste comunità ha toccato punte a tratti preoccupanti e leso in profondità l’immagine esterna di queste comunità.

L’etnografia non circoscritta ai soli momenti collettivi della tradizione ci ha permesso, in realtà, di notare una relazione di affetto e cura costante delle comunità delle Carresi nei confronti dei loro animali e una più complessiva dimestichezza uomo-animale (non limitata a buoi e cavalli) presente sin dalla più tenera età in queste comunità. Seppure si presentino e siano in larga parte cerimoniali a forte impronta maschile, tale familiarità con gli animali si estende anche alle donne e ai bambini, ricomprendendo l’intero sistema di significazione di queste comunità. Tra le persone che fanno parte di queste comunità spesso si utilizzano, infatti, metafore connesse al sistema delle Carresi e alle abitudini e forme dell’animale anche in ambiti di significazione esterni a quello strettamente connesso alla Carrese. Le interazioni tra uomini e buoi e uomini e cavalli sono costanti, così come è molto forte e imprescindibile una forte sintonia e intimità tra buoi e cavalli che non si limita, come è ovvio, al momento della corsa, ma si affina durante tutto l’anno nella vita di stalla, nel corso dei continui e regolari allenamenti e nelle prove.

Una mediazione possibile tra diritti locali e diritti globali?

Secondo schemi di comportamento e relazione improntati alle teorie sulle relazioni uomo-animali molti autori parlano di un rapporto di engagement (Davis-Maurstad 2008; Davis-Maurstad-Cowles 2013) caratterizzato da forte emotività nell’interazione (ad esempio il rapporto tra uomini e pets nella sfera domestica in cui la relazione è fortemente personalizzata e affettiva) oppure di interpatience (nel quale la relazione è comunque frequente e intensa, ma caratterizzata da una sorta di cooperazione operativa, assolutamente non disimpegnata, ma meno carica di affettività e antropomorfizzazione dell’animale (Matei 2010). Potremmo dire, sulla scorta di queste riflessioni dei più recenti animal studies che nelle Carresi ci troviamo di fronte a entrambi i tipi di relazione uomo/animale e che persino negli animali è possibile riconoscere, a un’attenta osservazione, elementi di corresponsione e risposta alle sollecitazione umana, come ad esempio piccoli giochi, movimenti in risposta a certi richiami, parole, gesti degli uomini che sono loro più familiari.

Questo universo di relazioni differenziate e stratificate nel tempo e per tipologie e qualità del rapporto non può e non viene, quasi mai, colto a un’osservazione superficiale della performance carristica nella sua espressione culminante nei giorni della corsa e della successiva processione religiosa. Solo conoscendo i diversi momenti in cui la relazione tra uomini e buoi si struttura e si consolida – così come per i binomi cavalieri-cavalli – si può pienamente comprendere l’interazione profonda necessaria a realizzare lo sforzo agonistico per l’ottenimento del risultato e la sua ricompensa cerimoniale.

L’antropologo che lavora in questi contesti di conflittualità tra ordini e gerarchie di valori distinti e tra loro opponentisi, viene a trovarsi sempre più spesso nella posizione di mediatore in un conflitto tra opinione pubblica esterna al contesto locale (sensibilità e campagne animaliste) e dimensione locale (difesa della tradizione). In molti casi egli si trova, più di quanto già non faccia costantemente nello svolgimento del proprio lavoro, a essere chiamato a svolgere la funzione di vero e proprio ‘traduttore di codici’ e di comunicatore verso l’esterno di pratiche e saperi altrimenti sconosciute alla maggior parte dell’opinione pubblica esterna ai contesti locali, oggi sempre più spesso in contatto con queste realtà sia a causa dei flussi e della curiosità turistica crescente, sia della circolazione sempre più diffusa e reticolare di immagini di queste tradizioni sul Web, con tutto ciò che ne consegue[15].

Anche le teorie animaliste e le pratiche di difesa, sensibilizzazione e protezione degli animali nel corso della storia, per lo più della cultura Europea e Nord-americana degli ultimi due secoli, infatti, possono essere analizzati come sistema di saperi e di condotte sedimentatisi nel tempo con un complesso avvicendarsi di posizioni e orientamenti mutevoli nel tempo comunque rivolti, seppur per ragioni e secondo modalità e gradazioni diverse, ad aumentare il grado di benessere animale (Singer 1975; Regan 1983; Mingley 1984; Noske 1997; Digard 2009). Più complessivamente le posizioni animaliste vengono a ricadere in quell’insieme di teorie della salvaguardia e valorizzazione degli habitat e della biodiversità come valore e come patrimonio dell’umanità che non a caso è stata ricompresa ufficialmente tra i principi cardine dell’UNESCO già dalla fine degli anni Settanta (Convenzione sulla tutela della biodiversità del 1978) e che in fondo erano al cuore della mission UNESCO sin dalla sua fondazione, con un progressivo allargamento della nozione di tutela e di valore da un più rigido verso un sempre meno deterministico antropocentrismo e specismo.

Sull’altro fronte anche il sistema di patrimonializzazione dei beni immateriali era sullo sfondo della tutela sancita dall’UNESCO dei beni culturali, ampliata poi a partire dalla metà degli anni Ottanta a un’idea di cultura sempre meno etnocentrica e che ha condotto, nel 2003, alla ratifica di una Convenzione esplicitamente dedicata ai beni culturali immateriali come forma compensatoria e restitutiva per i contesti culturali meno caratterizzati da un patrimonio culturale centrato sul modello occidentale e al contrario basata su un’accezione di cultura sempre più ‘plurale’ e sempre meno riducibile all’erudizione. Questa nuova accezione di cultura e di bene culturale determina un allargamento della base di selezione dell’idea stessa di patrimonio culturale e un sempre maggiore protagonismo – almeno negli intenti delle convenzioni internazionali summenzionate – delle comunità locali nella selezione, definizione e tutela dei loro stessi patrimoni culturali.

Ci veniamo a trovare, così, di fronte a due teorie di patrimonio naturale e culturale in larga parte e sovente confliggenti tra loro, che riprende la dicotomia classica tra approccio multiculturale ai diritti e richiami all’autodeterminazione dei popoli rispetto a un approccio maggiormente universalista al sistema dei diritti fondamentali su cui già richiamava l’attenzione lo stesso Herskovits nella celebre nota sulla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo nel 1947.

Lo scontro tra dimensione locale del valore culturale che pure aspira a collocarsi e rendersi visibile in una gerarchia sempre più globale dei valori e la dimensione translocale, universalistica del bene culturale e del valore eticamente condivisibile e politicamente corretto come quella della tutela della biodiversità e dei diritti animali viene a costituirsi, in alcuni contesti patrimoniali, come vero e proprio oggetto del contendere presentando le tradizioni culturali locali pratiche e modalità espressive lesive di diritti fondamentali sempre più ampiamente condivisi e rispetto ai quali l’opinione pubblica tende a creare gerarchie di preferibilità e di selezione.

In questi contesti, pertanto, l’antropologo finisce per avere il compito di rendere più chiari possibili i contesti etnografici in cui viene a incrociare le tematiche in questione, deve sforzarsi di restituire l’equilibrio e/o il disequilibrio delle forze in campo, la genesi ideologica e l’uso che si fa di entrambi i corni del problema. Egli deve altresì sforzarsi, insieme e accanto alle comunità locali, di costruire percorsi sempre più partecipati di mappatura e messa in valore sia delle istanze locali di difesa dei diritti culturali (inventari partecipati, ad esempio, come esplicitamente sollecitato dalla Convenzione di Faro del 2005), ma anche delle tradizioni locali delle istanze animaliste e del modo in cui esse interagiscono con gli scenari maggiormente translocali e globali di questo dibattito.

È chiamato, inoltre, a correggere, ove possibile le versioni distorte e pregiudiziali dell’uno e dell’altro polo della diatriba, consentendo così, auspicabilmente la ripresa del dialogo tra le parti e l’individuazione di buone pratiche che tengano conto di tutte le istanze.

In tal senso attraverso un’accurata restituzione etnografica e una sorta di implicito empowerment delle forze in campo, egli può riaffinare un flusso comunicativo positivo tra le diverse posizioni aiutando le comunità a conservare e valorizzare le proprie tradizioni e al tempo stesso ad adeguarsi a sensibilità globali, quale quella animalista sembra diventare sempre più, in ciò finendo per svolgere, di fatto, un ruolo di mediatore vero e proprio rispetto a teorie del patrimonio culturale e della identità e appartenenza locale sempre più in dialogo con livelli translocali della condivisione culturale e dell’appartenenza stessa, trasversali ai luoghi e alle culture embedded e sempre più costituite come reti globali di condivisione e attivismo in rete[16].

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[1] La ricerca si è svolta e continua a svolgersi nel quadro di una Convenzione della Cattedra di Antropologia del Turismo con la Provincia di Campobasso “Mediterraneo delle minoranze”, iniziata nel 2012, rimodulata in data 30 marzo 2013 e ancora in corso. La ricerca prevedeva l’indagine etnografica delle quattro celebrazioni e sistemi festivi molisani interessati dall’uso di bovini e dalle Carresi e una serie di azioni di valorizzazione delle feste a partire dagli archivi audiovisuali delle stesse, dalla realizzazione di una mostra e dalla pubblicazione di un volume scientifico che è ad oggi in corso di preparazione. Inoltre abbiamo – con Katia Ballacchino – che è stata collaboratrice sin dall’inizio e poi borsista del progetto – documentato, fotograficamente e con video, tutti i rituali festivi. Un primo risultato di questo lavoro di ricerca è stato presentato nel Novembre 2013 al Congresso annuale dell’American Anthropological Association in un workshop dal titolo “Future past: cultural heritage and identities”, nel quale ho presentato alcune prime osservazioni critiche in particolare sulla diatriba tra movimenti animalisti e associazioni locali.

[2] Durante la corsa, infatti, il connubio animali-uomini sembra divenire un ‘corpo unico’. Non solo gli animali devono essere in perfetto stato di salute, ma lo devono essere anche gli uomini che, oltre all’allenamento costante e al tempo e alle cure dedicate alla stalla nel corso dell’anno, devono avere chiara la modalità di stare insieme agli altri sul carro o accanto ai cavalli, devono guadagnarsi il loro ruolo, saper stare in gruppo, conoscere la coppia dei buoi che correrà insieme e che solo insieme va pensata, perché un bue – direbbero i carristi – si comporta in un certo modo solo se ha accanto un compagno adatto alle sue esigenze. Insomma esiste ed è necessaria una consapevolezza dei dettagli che compongono il team e l’organizzazione minuziosa di esso, una squadra fatta di particolari che è diretta dai leader dei carri e dai collaboratori più stretti e che si fonda su strategie e segreti condivisi e svelati durante le riunioni, ma spesso mantenuti inaccessibili ai più.

[3] Tra i carristi, per parlare degli animali, è frequente l’impiego di espressioni che ricordano l’ammirazione verso il mondo femminile: “quel bue ha petto grande e fianchi larghi”, “è sinuoso nelle forme”, etc. Oppure ancora non è infrequente l’uso, nel linguaggio comune quotidiano delle comunità di pratica carristiche, di un’espressione che avvicina il loro mondo a quello delle posizioni dei buoi durante la corsa, cioè quando due uomini camminano in coppia si usa dire che l’uno sta “sotto il solco” e l’altro “sopra il solco”, cioè l’uno è come il bue che durante la corsa sta a destra del carro e quindi sotto il solco del tratturo, e l’altro sta a sinistra del carro e quindi sopra il solco del tratturo. Ancora, un’espressione che tra carristi si usa per indicare quando un uomo è forte e virile è la seguente: “è un bue che corre”, sottolineando la capacità straordinaria di correre che “naturalmente” non apparterebbe al bovino e che, invece, quando si riesce ad ottenere rappresenta la massima espressione della forza e del vigore maschile. Anche il mondo delle donne che accompagnano i carristi utilizza continuamente espressioni di ironica gelosia nei confronti dei loro uomini che ritengono che passino più tempo e consacrino più cure ai buoi e ai cavalli, di quante ne diano a loro.

[4] Si noti, anche in questo caso, a proposito dell’uso delle immagini e del loro valore cruciale sulla scena festiva e conflittuale che durante questo momento di tensione particolarmente duro tra comunità festiva e autorità pubbliche, venne impedito a chiunque di filmare o scattare fotografie su esplicito e perentorio invito delle stesse forze dell’ordine, anche alla sottoscritta che stava riprendendo proprio il momento concitato del cambio dei buoi durante la Carrese di San Martino. L’invito perentorio a spegnere la videocamera così come i telefonini e gli Ipad che in molti stavano utilizzando per documentare sia i tafferugli tra uomini dei carri e forze dell’ordine che lo sconcerto dei moltissimi che assistevano alla scena. È evidente che in un contesto così teso anche le autorità pubbliche non avevano interesse a documentare la sostanziale violenza del loro intervento nel contesto festivo, seppur volta a smascherare eventuali pratiche di doping o di maltrattamento o sfruttamento degli animali appena utilizzati per la prima parte della corsa. Analogamente, durante la Carrese di Ururi, il Delegato alla Carrese, con il quale stavo viaggiando sulla macchina della Giuria per seguire le fasi concitate della competizione, mi chiese di riprendere esplicitamente un motociclista non autorizzato che zig-zagava tra i pochi mezzi legittimamente ammessi a seguire i carri, per poterlo in seguito punire con un’ammenda o richiamare formalmente nel quadro di una sempre maggiore tendenza securitaria delle feste. Anche in questo caso l’uso delle immagini – che peraltro feci in modo di non fornire, dato l’intento delatorio – veniva inteso come forma di prova dei fatti e di controllo sul sistema festivo, così come all’arrivo della Carrese, sempre a Ururi, le contestazioni di uno dei partiti – quello dei Giovani – circa la partenza, che a loro giudizio sarebbe stata anticipata e dunque non valida, vennero discusse e contestate attraverso l’acquisizione sia delle riprese di Telemolise che di quelle realizzate da Katia Ballacchino durante la corsa dal pick-up della giuria.

[5] Sono posizioni espresse sia da esponenti delle forze dell’ordine in più occasioni pubbliche e riconfermate, informalmente, anche in occasione delle celebrazioni locali del 2014 dinanzi ai disordini che si erano venuti a creare in ragione degli episodi summenzionati. Al contempo alcune figure politiche di spicco di livello locale e regionale continuano a riaffermare le ragioni della legalità e dell’ottemperanza delle regole da parte delle associazioni carristiche come unica vera forma di tutela e salvaguardia dei rituali e ad invitarle a una autoregolamentazione concordata con i veterinari dell’ASREM e le istituzioni nei loro vari livelli che riporti lo svolgimento dei cerimoniali nell’alveo delle normative vigenti. Anche in questo caso si noterà come il ‘discorso dominante’ si indirizzi verso un adeguamento sempre più stringente verso i quadri di riferimento normativo nazionali e internazionali cercando di spingere in tale direzione anche le comunità festive locali convincendole che non vi sia altra strada per tutelare i cerimoniali da loro stessi percepiti come centro della stessa identità locale.

[6] Ad Agosto 2014 è stata annunciata da alcuni giornali l’emissione dei risultati delle analisi svolte a ridosso della competizione rituale. Questo ha scatenato notevole dibattito nei diversi Comuni, ma, nonostante le notizie giornalistiche vi facessero riferimento, nessun avviso di garanzia è stato emesso o è pervenuto sino a questo momento né alle autorità pubbliche né alle varie associazioni carristiche.

[7] Ciò conferma, ove ancora ve ne fosse necessità, quanto sulla scena festiva stiano entrando la comunicazione pubblica e l’uso dei media. Buona parte delle vicende osservate e documentate sul territorio interessato dalle corse dei carri o Carresi sono state oggetto di una cospicua copertura da parte della stampa e dei media locali e questi hanno in alcuni casi avuto un peso determinante sugli equilibri, già piuttosto delicati, delle comunità di carro e più complessivamente dei paesi.

[8] Ordinanza contingibile ed urgente concernente la disciplina di manifestazioni popolari pubbliche o private nelle quali vengono impiegati equidi, al di fuori degli impianti e dei percorsi ufficialmente autorizzati. (09A10569) (G.U. Serie Generale n. 207 del 7 settembre 2009).

[9] Si legge in particolare nella suddetta Ordinanza che lo svolgimento di tali manifestazioni popolari “ad eccezione di mostre, sfilate e cortei, devono garantire requisiti di sicurezza e salute per i fantini e per i cavalli” (requisiti stabiliti in un allegato alla stessa Ordinanza). L’Ordinanza fissa anche i criteri per individuare tali manifestazioni e fornire ad esse le necessarie autorizzazioni allo svolgimento: Le manifestazioni di cui al comma 1, a tutela delle tradizioni, usi e consuetudini locali, devono essere autorizzate previa presentazione di una relazione tecnica del comitato organizzatore e previo parere favorevole della Commissione comunale o provinciale per la vigilanza di cui agli articoli 141, 141-bis e 142 del regio decreto 6 maggio 1940, n. 625, integrata da un veterinario dell’azienda sanitaria locale territorialmente competente e dal tecnico di cui alla lettera d) dell’allegato alla presente ordinanza. Detta Commissione verifica il rispetto dei requisiti tecnici e delle condizioni essenziali finalizzate alla tutela dell’incolumità pubblica e del benessere degli animali”. Vieta l’uso improprio e/o eccessivo degli aiuti, l’autorizzazione a montare per fantini già pregiudicati o scoperti in flagranza di doping – attraverso controlli a campione nelle imminenze della manifestazione – , vieta, altresì l’uso di sostanze dopanti nei confronti degli animali (rinviando anche qui all’allegato) e definisce nel Comitato organizzatore della ‘manifestazione’ l’autorità responsabile dell’osservanza della stessa Ordinanza. Gli obiettivi dell’Ordinanza sono al contempo, esplicitamente, sia finalizzati alla tutela del benessere animale che dell’incolumità pubblica (Comma 2, Art. 1).

[10] I percorsi delle diverse Carresi si svolgono solo in parte su terreno battuto e le vie di fuga dal percorso principale o zone di sorpasso – le cosiddette ‘seconde strade’ – sono spesso risistemate appositamente solo per lo svolgimento della Corsa. Una parte di tutti e tre i percorsi si svolge, invece, in territorio urbano e dunque su fondo asfaltato, il che ha sollevato innumerevoli polemiche tra gli animalisti che fanno notare il maggiore rischio di danni e incidenti che su questo tipo di fondo possono verificarsi. Nell’allegato operativo dell’Ordinanza si richiede di provvedere alla copertura in tufo o sabbia dell’intero percorso della manifestazione, ma questo, ovviamente, ha dei costi molto elevati – trattandosi di percorsi molto lunghi – e comunque non mette al riparo da danni e incidenti, specie in caso di pioggia o intemperie. La richiesta di particolari ferrature in gomma antiscivolo per gli animali, ad esempio, viene indicata da molti uomini dei carri come potenzialmente ad alto rischio in quanto aumentando l’attrito degli zoccoli di buoi e cavalli sull’asfalto rischia di procurare distorsioni e maggiori problemi ai tendini. Ciò dimostra come normare questi complessi sistemi festivi nell’ottica di una maggiore tutela del benessere degli animali divenga spesso ragione di ulteriore dibattito e conflitto tra comunità esperte locali e legislatore che, nella distanza dallo specifico contesto locale, non è in grado di adattare la giurisprudenza alle specificità di situazioni di volta in volta distinte.

[11] Il legame tra movimenti animalisti e posizioni ambientaliste, femministe e antirazziste sono attestati e sedimentati nel tempo. L’“antispecismo”, sostenuto dal filosofo e psicologo inglese Richard D. Ryder (1975, 1989) e da Pete Singer (1975) e Tom Regan (1983) – seppur con notevoli differenziazioni tra le loro rispettive posizioni – , esplicita una di queste relazioni di discendenza intellettuale, giacché accomuna la battaglia per il rispetto e il benessere degli animali a quella per la tutela e il rispetto delle diverse appartenenze etniche. Molti sono, inoltre, i rapporti tra movimento femminista e impegno animalista, non solo perché moltissime sono le donne sostenitrici, un po’ ovunque nel mondo, ma soprattutto in Europa e Nordamerica dei diversi movimenti animalisti, ma anche perché la battaglia per il riconoscimento dei diritti animali è sembrato un evidente analogo con quella sostenuta proprio dai movimenti femministi per l’emancipazione e quindi il riconoscimento di autonomia decisionale e diritto di espressione da parte delle donne sostenuto e portato avanti dai movimenti di difesa e sostegno al genere femminile. La riflessione antropologica e filosofica dei movimenti femministi si è sviluppata, così, nell’arco dell’ultimo trentennio a partire dal femminismo radicale post-marxista che oltre a rilevare il silenzio e l’assenza dei soggetti femminili dai processi decisionali politico-sociali, rileva contemporaneamente l’assenza anche degli ‘animali non umani’, criticando radicalmente la posizione biecamente antropocentrica e androcentrica della nostra cultura occidentale e non solo, anche se vi sono molte autrici – Lynda Birke (2002), Carol Adams (1991, 1995) e Tracey Smith-Harris (2003) che notano come i movimenti femministi, pur ritenendosi radicalmente capaci di affrontare ogni schema ideologico antropocentrico egemone, abbiano colpevolmente lasciato in ombra la questione cruciale della subalternità del ‘non-umano’. Rosemary Radford Ruether (2002) e Lori Gruen (1993), teoriche del cosiddetto movimento ‘ecofemminista’, sostengono che una piena liberazione non sia possibile se non rompendo gli schemi di subalternità applicati storicamente al genere femminile, ma anche alla concettualizzazione stessa dell’animalità – tanto spesso associata alla natura stessa delle donne –, spingendo in tal senso verso una radicale riconsiderazione della nozione di alterità e agganciando con ciò la battaglia per la piena liberazione non solo al genere, ma anche alle relazioni uomo-animale. Altre autrici come Donovan associano direttamente la teoria femminista alla questione dei diritti animali. (Donovan, 1990).

[12] È ancora Mannucci a insistere nel suo saggio su questo tema della ‘teoria della crudeltà’ e del ‘ribrezzo’ per la violenza compiuta in pubblico ai danni dell’animale, riflettendo sull’articolo 727 del Codice Penale Zanardelli (1890) che evidentemente si concentrava su questo aspetto di pubblicizzazione sconveniente della violenza e dell’accanimento nei confronti dell’animale e che aveva come corrispettivo umano l’usanza delle esecuzioni capitali pubbliche sino agli inizi del XIX secolo, come ben ricorda Foucault 1976.

[13] Su questo nesso tra pratiche di allevamento, ad esempio, di particolari linee di cavalli e costruzione dei saperi allevatoriali ed equestri come patrimonio, si veda Bindi L., 2012b, Cheval-patrimoine. Culture, territoire, economie d’une relation homme-animal in Geopolíticas patrimoniales. De culturas, naturalezas e inmaterialidades. Una mirada etnográfica, a cura di Beatriz Santamarina, Valencia, Gérmania – Collectiò Antropologiques.

[14] Su questo nel giugno 2014 si è tenuto un importante workshop organizzato dal CE.STU.DIR (Centro Studi sui Diritti Umani) dell’università di Venezia ‘Ca Foscari dal titolo: Gli animali e la tortura che conteneva interessanti interventi anche sulla recente normativa UE e i diritti animali e sulle diverse istanze e filosofie animaliste contemporanee.

[15] Le comunità carristiche sono estremamente consapevoli dei rischi che le loro tradizioni stanno correndo dinanzi agli attacchi animalisti e alla sempre maggiore rigidezza dei controlli istituzionali. Coinvolti nel corso del lavoro etnografico in numerose discussioni, formali e informali, sul tema, hanno avanzato a più riprese l’esplicita richiesta a noi, che stiamo lavorando con loro, di ‘aiutarli a difendere la tradizione’ contro gli attacchi animalisti, ‘a far capire’ all’esterno l’amore per l’animale, ma ci hanno anche, talora, rivolto l’invito a sottacere gli aspetti necessariamente più duri della relazione, i momenti di difficoltà, gli incidenti. È una sorta di ‘patto etnografico’ che le comunità richiedono all’etnografo sul campo in cambio di una certa trasparenza nei loro comportamenti davanti ad esso. E’ anche in questo senso che avanzo qui l’idea di una funzione di vera e propria mediazione culturale da parte dell’antropologo nel contesto etnografico e nella relazione che esso intrattiene con l’esterno - immagine regionale, nazionale e sovra-nazionale – delle loro tradizioni.

[16] Su questo specifico livello di riflessione tra reti della salvaguardia e valorizzazione patrimoniale sia di carattere locale che di tipo translocale e mediato per lo più attraverso i ‘discorsi dell’etnografia’ raccolti non solo sul campo concreto, ma anche in rete si veda Ballacchino 2015