Faide indiane e allarmismi lombardi

La mediatizzazione del conflitto ‘etnico’ e la sua eco sulla quotidiana convivenza migranti/autoctoni

Sara Bonfanti


Table of Contents

Niente di nuovo sul fronte orientale?
L’infrazione delle regole del gioco migratorio: il caso “Cantamessa”
L’esplosione della crisi: come monta il razzismo diffuso
Interpretazioni a caldo
Riletture a freddo
Timidi tentativi di riparazione
Chiacchiere. Ancora in cerca di soluzioni
Riferimenti Bibliografici

Abstract. Drawing from my research on Panjabi diasporas in Lombardy, I discuss the media hype which followed the accidental murder of an Italian lady doctor occurred in Bergamo in 2013, during a brawl among Panjabi family clans. An embittered xenophobic and racist imagination tainted the local public opinion, replacing the typecast of Indians as mild laborers with ruthless criminals, enmeshed in feuds of southern Italian memory. Through ethnographic narratives and local chronicles, I contrast the stakes of immigrants and natives, citizens and officials, unraveling how the identity outcomes of that drama affected social interactions and integration of the Panjabi communities long established in the area.

Keywords. Indian immigrants in Italy; media; stereotypes; family feud; 'ethnic' conflicts

Journal. EtnoAntropologia, 3 (2) 2015

Niente di nuovo sul fronte orientale?

Nel corso di quest’intervento presenterò un caso di studio minuto ma significativo, che ricopre una porzione del mio lavoro etnografico condotto in Italia e India, Lombardia e Panjab, tra il 2012 e il 2014 per l’elaborazione della tesi di dottorato. Mi sono occupata delle comunità di origine panjabi immigrate nel bergamasco e bresciano, analizzando il passaggio storico da una generazione primo migrante ad una seconda con un sguardo critico sulla dimensione di genere. Tramite osservazione partecipante, interviste narrative e storie di vita dei membri di quattro famiglie migranti panjabi (selezionate in base a diversità di fede, casta e classe), ho provato a mettere in luce e discutere i nuovi processi di differenziazione sociale in atto in questi gruppi diasporici, straordinariamente eterogenei rispetto all’immagine che se ne può cogliere dall’esterno [Bertolani 2013]. Dinamiche che attingono congiuntamente al contesto di partenza e a quello di arrivo, da un lato alle discriminazioni su base microcastale a livello di jati o gruppo di discendenza nella società panjabi e alle relazioni interreligiose hindu/Sikh [Judge 2010], dall’altro alle coordinate di esclusione e stratificazione civica che gli immigrati affrontano nel loro insediamento in Italia [Kofman 2002]. Processi interconnessi che si inscrivono in politiche, legislazioni e immaginari transnazionali [Jain 2010] e che non sono solo subiti, ma anzitutto agiti dai soggetti della ricerca e appena inizialmente messi in discussione [Bonfanti 2015].

Se consideriamo che le migrazioni dal Panjab verso l’Italia conoscono una prima fase sul finire degli anni Ottanta e un’impennata verso l’inizio degli anni Duemila, tali per cui la minoranza indiana nei confini nazionali registra oggi oltre 150.000 unità regolarmente censite [Caritas 2013], è tuttavia un dato di fatto che per lungo tempo queste comunità sono rimaste all’ombra di ogni risonanza pubblica, soprattutto perché i pionieri della migrazione erano giovani uomini inizialmente impiegati nelle aziende agricole e zootecniche a conduzione familiare nelle campagne della pianura padana, noti tutt’al più come buoni bergamini, “turbanti che non disturbano” (dove il riferimento univoco a indiano Sikh che indossa il dastar era spesso implicito ma non sempre noto, Bertolani et al. 2011). Quando poi oltre 70.000 istanze di ricongiungimento familiare hanno portato una nuova redistribuzione demografica di donne e minori [ISTAT 2013], l’immagine dominante è comunque rimasta quella di Indiani «brava gente, che sta al suo posto[1]»: lavoranti disciplinati e fidati, famiglie coese e numerose, donne dai vestiti colorati e sorrisi miti, bambini che gli insegnanti a scuola spesso descrivono come timidi e rispettosi [Galloni 2009].

L’infrazione delle regole del gioco migratorio: il caso “Cantamessa”

Da questo quadro appena abbozzato e decisamente edulcorato, l’incremento statistico dei gruppi panjabi in Italia e le diversificazioni demografiche e occupazionali dei suoi membri hanno iniziato a mettere in scacco processi di interazione e integrazione locale che andavano via via maturando. Tra Bergamo e Brescia, l’una roccaforte degli indiani soprattutto Sikh, l’altra dei pakistani musulmani (due comunità distinte per nazionalità e fede, ma che condividono una certa cultura regionale e parlano due lingue affini e permeabili nell’interazione orale, Jayaram 2010), gli effetti della crisi economica post 2008 hanno iniziato a ripercuotersi anche sulla presunta competizione tra italiani nativi e immigrati “extracomunitari” nell’accesso al mercato del lavoro [Perocco 2012], soprattutto in quelle fasce low-skilled labour, braccianti agricoli ma anche manovalanza industriale e manifatturiera, che degli indiani sono il bacino di approvvigionamento.

Alla crescita demografica della migrazione panjabi si sono accompagnate incomprensioni e frizioni con la popolazione locale, ma anche più acerrime relazioni agonistiche tra gli immigrati stessi, con un escalation del fenomeno di brokerage [Azzeruoli, Perrotta 2014]. Come ebbe e a dirmi Avtar, un giovane 1.5, 24 anni e in Italia da undici, operaio in una azienda metalmeccanica nel bresciano:

Venire qui dal Panjab una volta era facile, adesso ti chiedono di più, loro [i dalal, middlemen] e non è che ti sistemano… dopo tre, quattro mesi basta, finito, anche in nero… qualcuno ti deve aiutare, se non hai uno della famiglia devi pagare anche chi ti fa dormire a casa sua. Quando va male, ti menano, mettono paura. Non ti fidi di nessuno, i miei amici non san più perché son partiti in qui momenti lì… non lo raccontano a casa.

Avtar descrive con lucido terrore l’insostenibilità esistenziale di molti giovani panjabi neoarrivati e fa riferimento non solo a una categoria di intermediari che specula sulla mobilità dei connazionali (passeurs che chiedono fino a 10.000 euro per trasferire in Europa chi non avrebbe altro sponsor reale), ma anche ai vari tentativi di trovare ancoraggio nelle reti parentali in fase di insediamento[2]. Sono qui in gioco una serie di fattori quali il racket dei traghettatori dall’India all’Italia e le dinamiche d’integrazione sul territorio, che non derivano solo dal percorso istituzionalizzato di inserimento lavorativo, stabilità residenziale, permesso di soggiorno e così via, ma anche da un’introduzione situata nella comunità indiana già ivi consolidata. Nessuno arriva nell’anonimato, e collocarsi nel nuovo contesto immigratorio significa fare anzitutto riferimento a networks e appartenenze della terra d’origine, coltivando legami che in genere offrono reale sostegno reciproco, talora nascondono abusi e sfruttamenti.

Mentre io ho lavorato soprattutto con donne e adolescenti in questi anni, quindi con dinamiche intrafamiliari, rapporti di genere e intergenerazionali, in nuclei domestici dove la migrazione era per lo più esito di ricongiungimento con un capofamiglia ormai stabilizzatosi [Bonfanti 2015], la collocazione sociale dei panjabi in Italia dipende anzitutto dalla loro provenienza distrettuale e di villaggio o pind specifica, dalle loro adesioni non solo religiose hindu/Sikh o castali, più o meno apertamente esibite, ma anche e soprattutto da una rete di biraderi o fratellanze, che individua affiliazioni multiple sfumate e potenzialmente conflittuali [Malhotra, Fir 2012]. E’ all’interno di queste dinamiche tra biraderi in competizione per accesso alle risorse, soprattutto ai posti di lavoro, che si inscrivono le crescenti risse riportate nella stampa tra “famiglie indiane”. Un episodio in particolare è balzato alle cronache nel bergamasco orientale, quando uno di questi scontri ha varcato i confini “etnici” della comunità indiana e si è tragicamente concluso con l’omicidio accidentale di un giovane indiano e di una dottoressa locale. Riporto in ordine cronologico stralci delle prime pagine di cronaca del quotidiano orobico L’Eco di Bergamo (organo di stampa di orientamento centrista e cattolico) la settimana stessa dell’accaduto[3].

Fig. 1 La scena del crimine: la statale di Chiuduno la notte dell’incidente. Foto pubblicata su L’Eco di Bergamo, 9-09-2013

L’esplosione della crisi: come monta il razzismo diffuso

Gli articoli che seguono vanno intesi come veri e propri documenti etnografici e andrebbero esaminati testualmente applicando una rigorosa “analisi critica del discorso”; ciò permetterebbe di cogliere la forza politica del discorso mediatico e la sua interdipendenza rispetto ai contesti sociali, che i mezzi di comunicazione rappresentano e contribuiscono a ri-produrre [Fairclough 1995]. Per ovvie ragioni di tempo, ricorro qui a un semplice espediente tipografico, sottolineando con l’uso del corsivo le parti del discorso più cariche di significato su cui avanzo ipotesi di lettura.

Interpretazioni a caldo

  • 9 settembre 2013. Far West ieri sera Chiuduno. E' stato ricostruito nei dettagli l'investimento mortale costato la vita a due persone a Chiuduno, nella Bergamasca.

    Le vittime sono Eleonora Cantamessa, ginecologa 44enne di Trescore Balneario [dipendente alla clinica Sant'Anna di Brescia], e Kamur Baldev, indiano che viveva a Gorlago, provvisto del permesso di soggiorno. Non è ancora stato individuato il presunto investitore. Diverse decine di persone, soprattutto indiani, sono stati sentiti in queste ore in caserma dai carabinieri di Bergamo.

  • 10 settembre 2013. Eleonora aveva 44 anni ed era nota e stimata in paese. Era stata "l'angelo custode" di tante mamme al parto, anche straniere che visitava gratuitamente. Sgomento e dolore tra chi la conosceva.

  • 11 settembre 2013. Rissa e doppio investimento mortale a Chiuduno: c'è un fermo. L'uomo fermato ha 25 anni ed è il fratello dell'altra vittima, Kumar Baldev, 32 anni, morto dopo essere stato prima colpito a sprangate e bastonate, poi travolto da un'auto insieme alla dottoressa Eleonora Cantamessa, investita mentre soccorreva il ferito.

  • 12 settembre 2013. Bhajan Kumar è stata accolta con i suoi quattro figli, bambini fra i 12 e i 4 anni, in casa di parenti a Borgo di Terzo.

    La moglie di Baldev Kumar ignora ancora la morte del marito.

    «Sa - dice un parente - che è rimasto coinvolto in una rissa. Le abbiamo detto che è ferito alla bocca e non è in grado di parlare. Non capisce l’italiano. Speriamo che possa arrivarci da sola, poco alla volta. Altrimenti qualcuno dovrà dirglielo. Sarà un momento terribile». Sunita, la giovane moglie di Vicky Vicky, il fratello di Baldev in carcere per omicidio, è incinta e si trova in ospedale. Sono sposati da febbraio. «Un fratello - dice un indiano - non uccide un altro fratello. Vicky non ha ucciso Baldev: si volevano bene, lavoravano insieme, vivevano nella stessa casa a San Paolo».

  • 13 settembre 2013. Rissa e investimento mortale. Il sindaco di Chiuduno: ormai a immigrati è concesso tutto. Salvini: ennesima tragedia figlia del lassismo su sicurezza e immigrazione. E' duro l'affondo del sindaco del paese bergamasco, dove si è consumata la tragedia che è costata la vita alla dottoressa-eroe: "Per colpa dello Stato i sindaci sono soli e non hanno più nessun tipo di strumento atto a fronteggiare l’emergenza sicurezza sulle nostre strade. Oltre al danno c’e’ poi la beffa: siamo costretti a concedere la residenza a chiunque e non possiamo più operare nessun tipo di controllo concreto”.

Nell’impeto del reportage di quei giorni, si evidenzia da subito una certa retorica che dipinge con tratti manicheistici i protagonisti della vicenda. Da un lato, l’italiana, l’unica riconosciuta come vera vittima ed eroina da onorare: la dottoressa che si spendeva per le tante donne e madri migranti in provincia e che non ha esitato a soccorrere un ignoto ferito rimanendo travolta sulla strada. Dall’altro, gli indiani: il presunto killer, un giovane di cui compare solo una foto segnaletica sbiadita e il fratello inspiegabilmente investito dopo esser stato aggredito in uno scontro tra connazionali. La dinamica degli eventi sembra spostarsi dal piano della cronaca nera a quello della denuncia sociale, come se un improbabile tribunale mediatico (e l’opinione pubblica che lo cavalca) avesse tracciato una linea di demarcazione tra noi e loro, italiani ed indiani, buonanime e facinorosi. Una frattura di genere attraversa inoltre l’episodio: le mogli dei due fratelli Kumar sono citate come inconsapevoli vittime della violenza brutale dei mariti, perpetuando triti stereotipi che vedono nelle donne migranti (tanto più indiane, giovani madri di prole numerosa) soggetti muti, passivi e subordinati, alla mercé dei loro barbari uomini [Campani 2001].

Da subito, le istituzioni e i presidi locali si autorizzano a intervenire: la vicenda diventa cartina tornasole di una situazione sociale descritta come instabile, un’intercultura mai realizzata e un malcelato allarme sotto un multiculturalismo agonizzante [Vertovec, Wessendorf 2009]. Trascorrono i mesi e la memoria collettiva dell’evento non accenna a placarsi, anzi si nutre di ulteriori illazioni con una pornografica ossessione dei media di svelare dinamiche e retroscena del calderone panjabi: un imbroglio etnico “orientalista” che corrobora l’ideologia differenzialista e di esclusione sociale [Gallissot et. al. 1997]. Lo spettro della violenza perpetrata dagli immigrati diventa alibi per operare scelte politico amministrative restrittive dell’immigrazione, coercitive e di controllo sociale mirato. Si fa strada anche una sorta di segregazione e ri-significazione degli spazi, come mostrano alcune immagini di repertorio dove il tempio Ravidassia di Cividino, luogo sacro e punto di raccordo di molti Sikh della zona (a quanto pare frequentato dagli indiani coinvolti nella rissa), viene sottoposto a continui pattugliamenti.

Fig. 2 Cividino, controlli a tappeto: luoghi simbolo della presenza indiana. Foto pubblicata su L’Eco di Bergamo, 15-09-2013

Riletture a freddo

  • 9 Dicembre 2013. Per il momento è ancora un sospetto, perché l’indagine è tutt’altro che conclusa. Fatto sta che gli inquirenti che stanno cercando di far luce sulla morte di Kumar Baldev – l’indiano massacrato di botte la sera dell’8 settembre scorso da un gruppo di connazionali e poi travolto dall’auto [guidata dal fratello] che uccise anche la dottoressa Eleonora Cantamessa, fermatasi a prestargli soccorso – ipotizzano che dietro la lite in strada a Chiuduno, in realtà una delle tante, possa esserci proprio il fenomeno del caporalato nel settore dell’agricoltura.

  • 31 dic 2013. Le notizie più lette sul nostro sito nel 2013 sono praticamente tutte di cronaca nera con il massimo riscontro, quasi 70 mila contatti, per la rissa e l’investimento di Chiuduno con la morte della dottoressa Eleonora Cantamessa e di un indiano.

  • 15 Gennaio 2014. Indiani, ennesima rissa dopo l’omicidio Cantamessa La faida non è terminata col sangue di Baldev Kumar ed Eleonora Cantamessa. Continua a suon di sprangate, agguati, risse, alimentata dall’animosità dei protagonisti, dall’orgoglio delle fazioni in lotta e da una concezione quasi tribale della giustizia che vira al fai-da-te. L’ennesima rissa tra indiani, continua lo scontro tra gruppi rivali nella zona orientale della Bergamasca. La rivalità dalla quale nascono le recenti risse tra indiani [quella di Cividino è il terzo episodio dopo i fatti di Chiuduno] sembra legata sia a un odio arcaico tra gruppi familiari diversi, i Kumar e i Ram, ma anche a motivi più pratici, una certa gestione dei posti di lavoro nelle serre di insalata, oppure a moventi passionali.

  • 16 Gennaio 2014. Bolgare, Bergamo. Provvedimenti anti-immigrazione. Nuovo pacchetto sicurezza deliberato da giunta comunale, coprifuoco per i negozi del centro e tariffe differenziate per idoneità abitative, penalizzati gli immigrati.

  • 8 Settembre 2014. Bergamo News [giornalismo d’inchiesta] La sera dell'8 settembre 2013 sulla strada provinciale di Chiuduno si consuma un duplice omicidio: Vicky Vicky, indiano al volante della sua auto investe il fratello Baldev Kumar, 31 anni, che è ferito a terra dopo una rissa mentre viene soccorso da Eleonora Cantamessa, ginecologa di 44 anni di Trescore Balneario. Un anno dopo dalle indagini emerge un dettaglio non indifferente: Si parlò di tifo estremo per il cricket, ma dalle carte dell'inchiesta condotta dal pubblico ministero Fabio Pelosi c'è un dettaglio: a scatenare quella maxi rissa era una faida di caporalato per lavorare nelle serre di San Paolo d'Argon . Oltre a Vicky Vicky, accusato di omicidio volontario, nel registro degli indagati ci sarebbero altri sei appartenenti al gruppo familiare di Kumar , che fa riferimento ad un vecchio caseggiato a Borgo di Terzo. Altre dieci persone risultano formalmente indagate, quasi tutte per rissa aggravata. Questo secondo gruppo apparterebbe al clan dei Ram di Vigano San Martino, da anni protagonisti di scontri, denunce e segnalazioni per aggressioni a mani nude, accoltellamenti proprio con i Kumar di Gorlago. Quella notte nella concitazione tutti gli indiani fermati indicavano in Baldev “il capo”.

Questi documenti selezionati fanno in realtà parte di un repertorio molto più copioso di narrazioni e contro-narrazioni dell’episodio e dei suoi presunti antefatti. Senza entrare nel dettaglio segnalo l’eco mediatica di questi messaggi, apparsi sui telegiornali nazionali e soprattutto regionali e sulla cronaca locale, tanto sulla carta stampata che nelle edizioni online, con un effetto tam tam tale per cui per alcune settimane le rimostranze verbali dei miei vicini di casa e i post di commento agli articoli online avevo spesso lo stesso tenore (o forse dovrei dire livore). Catturati in una spirale allarmista tra media e pubblica opinione, tra iperbole mediatica e panico morale [Maneri 2013], semplici osservatori che non si erano mai curati di questioni migratorie e tantomeno di Indiani, si sentivano autorizzati a commentare i fatti e “sputar sentenze”. Come vuole l’adagio: “if a fight starts, watch the crowd” [Gamson 2004, 262].

  • «Hai visto cos’han combinato i tuoi amici indiani, criminali. Bella razza , stai attenta a chi ti metti in casa! Son bestie quelli li!» [Antonio, vicino di casa, vigile stradale]

  • «Gli indiani per natura eran tranquilli , un po’come i cinesi. Adesso son cambiati, anche in queste comunità in Italia da tempo i nuovi ragazzotti vogliono imporsi con la forza. Anche la grana del coltello dei Sikh… non è questione di diritti, parliamo di pubblica sicurezza . Dovremmo travestirci un pó da inglesi e metterli in riga.» [Fabio, istruttore capo polizia di frontiera in aeroporto]

  • «Non c’è da stupirsi, si sa che il sangue di questa gente è più caldo del nostro. Gli indiani qui non avevano mai dato problemi prima, ma adesso son troppi . Non ci bastavano le nostre mafie, le andiamo anche a importare da oriente … Questi son come i nostri terroni che venivano su da giù e si prendevano a fucilate. Le faide , le faide, son sempre quelle!» [Lina, vicepreside di scuola media]

  • Questi indiani in Italia fanno quello che vogliono delinquono e ammazzano e magari dopo il processo vengono assolti, mentre i MARO' sono ancora in India senza colpe… Governo Italiano svegliati!! [Commento anonimo ad articolo su “Il Giornale”, 12-09-2013]

Le dichiarazioni spontanee di funzionari pubblici e comuni cittadini[4] (elicitate solo durante l’incontro con la docente) sembrano riprodurre una serie di copioni con cui è intesa la minoranza indiana in Italia. Commenti discriminatori che combinano forme di razzismo, naturalizzazione e animalizzazione della differenza, intolleranza religiosa, assimilazione ad altre categorie migranti e criminali (con specifico riferimento alle ritorsioni meridionali trapiantate al nord come “strategie d’impresa”, Scionti 2012). Viene addirittura invocato un confronto governativo transnazionale tra la sorte degli ufficiali di Marina italiani detenuti in Kerala da due anni in attesa di giudizio e la presunta impunità riservata in Italia ai delinquenti indiani[5].

D’altro canto, anche tra la minoranza indiana cresceva la percezione che qualcosa fosse cambiato nello scandire il tempo del proprio percorso migratorio, come se quel fatto drammatico segnasse una cesura, anche a fronte di anni di immigrazione più o meno riuscita. Come segnalano alcune interviste improvvisate che ho sottoposto a informatori indiani di lungo corso e ai miei studenti nella scuola d’italiano per stranieri dove lavoravo.

  • Sunny [studente, 16enne, italiano di seconda generazione]: «Io ho la cittadinanza [italiana] ma faccio parte della comunità [indiana] Ravidassia e mi vergogno di quello che hanno fatto. Noi siamo della brava gente e il nostro dio non ci porta alla violenza. Però ci sono delle persone che stanno rovinando la nostra immagine.»

  • Amandeep [studentessa, 19enne, in Italia da 11 anni]: «Tornare a scuola a settembre è stato brutto, tutti ti guardavano in un altro modo, male… perché adesso associano gli indiani con il casino di Chiuduno. Quando vado a fare spesa con mia madre, sento le signore cosa dicono, sparlano... qualcuna pensa che siamo poverine, che le donne indiane non sanno cosa succede tra i loro uomini, che loro sono pericolosi.»

  • Meena [madre sposata casalinga, 28 anni, in Italia da 6]: «sai cosa vuol dire oggi chiamarsi Kumar? Che sei segnata, che tutti, panjabi e italiani, credono che sei una di loro, fai parte di quelle storie lì… E’ un nome di famiglia che portano in tanti, ma se vivi a Borgo Terzo, quello vuol dire.»

  • Guninder [studente, 18enne in Italia da 8]: «Con JasbirJi abbiamo invitato la famiglia della dottoressa a una veglia nel nostro gurdwara . E’ venuta tantissima gente, ma quasi tutti indiani e pochi italiani. La mamma della dottoressa ha parlato, piangeva ma ha detto delle belle parole e noi abbiamo chiesto perdono, perdono da parte dei Sikh. [Ma poi quei due fratelli non erano neanche veri Sikh. Andavano al darbar di Cividino la domenica, neanche sempre, così dicono.] Ma certo non è abbastanza, quando succede una cosa così viene tutto a galla e non è solo che è morto qualcuno innocente... ci sono tanti problemi tra gli Indiani qui a Bergamo e non riusciamo a risolverli da soli.»

  • Jasbir [in Italia da quasi 30 anni, sposato con una donna italiana e granthi dell’associazione Singh Sabha Gurdwara di Cortenuova]: «Io sono il portavoce della comunità Sikh in provincia di Bergamo. Una comunità che in tanti anni ha fatto di tutto per integrarsi in Italia e per accogliere ogni nuovo arrivato; ma non sempre si può. A volte ci sono persone, anche dei nostri, che non rispettano la religione e neanche la legge. Io mi fido dei carabinieri, giudici e forze d’ordine italiane, che facciano il loro mestiere, per chi non cammina sulla retta via. Noi abbiamo solo pietà.»

Tali esternazioni da un lato sono lo specchio delle rappresentazioni sociali della diaspora indiana nel nord Italia e dall’altro indicano quanto l’interazione sociale tra immigrati e locali sia divenuta piu complicata e di difficile negoziazione anche nella quotidianità spicciola. Tanto che Vikram, un negoziante indiano nel mio quartiere, titolare di una piccola rivendita di prodotti alimentari asiatici, mi apostrofò lo scorso novembre con un sorriso rassegnato: «e tu ancora vieni qui. Ma sai quanti clienti ho perso da quando è morta la dottoressa? Gli italiani non si fidano più di noi!»

In questo caso di studio sembra coesistere una doppia interpretazione di “conflitto etnico”. Da un lato si tratterebbe di uno scontro intestino, interno alla comunità immigrata indiana, dove le opposte parti in lotta sono misconosciute e si ricorre al lessico della “vendetta famigliare”, di italiana memoria meridionalista per addomesticarne l’inspiegabilità. Dall’altro, si contrappongono una minoranza immigrata potenzialmente pericolosa per la cittadinanza e una maggioranza nazionale che si sente minacciata e incapace di confrontarsi con la diversità “etnico-culturale” [Bowen 1996].

Molte delle dichiarazioni dei miei informatori panjabi tradiscono l’imbarazzo di sentirsi seduti al banco degli imputati, il rischio percepito di essere automaticamente identificati con i devianti del proprio gruppo. L’affannosa difesa della comunità risulta però inscritta in un dialogismo dove le posizioni di parità con la maggioranza accusatoria (se mai davvero esistite) sembravano saltate. Molti panjabi residenti in zona provarono a rispondere a questa situazione di debolezza con gesti pubblici quasi a chiedere perdono collettivo per un atto di violenza individuale (o comunque di una minoranza criminale), che aveva trasceso i confini spazio/temporali del “qui ed ora” [Riches 1991] per diventare paradigma della socialità ambivalente degli immigrati indiani lombardi.

Timidi tentativi di riparazione

Le profferte di dialogo che qui discuto sono squisitamente monodirezionali. Dapprima, sul fine settimana dell’incidente, il gruppo maggioritario di indiani residenti in zona organizzò una fiaccolata di solidarietà nella città di Trescore Balneario, con tanto di striscioni di contrita partecipazione al lutto delle famiglie delle vittime. Un mese più tardi, l’ultima domenica di ottobre 2013, i coniugi Cantamessa furono invitati al gurdwara di Cortenuova, epicentro della vita politica e religiosa dei Sikh in provincia, per commemorarne la generosità della figlia rimasta uccisa e reclamare la dimensione partecipativa e pro-sociale dell’intera comunità indiana lombarda. L’intervento pacificante e mai colpevolizzante dei Cantamessa contribuì non poco a ridare lucidità ai discorsi quotidiani permeati di rabbia, intolleranza e sete di giustizia[6].

Fig. 3 Fiaccolata solidale a Trescore. Foto pubblicata su L’Eco di Bergamo, 14-09-2013

Concludo la rassegna delle opinioni con uno stralcio da “Il Barometro dell’Integrazione” 2014, report annuale che l’ong Agenzia per l’Integrazione pubblica ogni anno proprio nella provincia di Bergamo:

Il 2013 è stato caratterizzato da due aspetti: il silenzio sul tema immigrazione e la forza delle persone. Un fatto drammatico, ma non è stato il solo purtroppo, ha squarciato questo silenzio: la morte tragica della dottoressa Eleonora Cantamessa, Tutti, come si suol dire in questi casi, ne hanno parlato e straparlato. Tutti, e giustamente, hanno messo in risalto la figura della dottoressa Eleonora, il suo gesto e l’esito tragico.

Anche il Barometro vuole unirsi a chi sinceramente è stato colpito e turbato per quanto accaduto. Ma accanto a questo figura e questo gesto è giusto ricordare Saliou Mbaye giovane senegalese, il primo ad intervenire per prestare soccorso, rimanendo ferito. Vanno inoltre ricordati i comportamenti dei genitori, che non hanno invocato la legge del taglione né sostenuto anche indirettamente posizioni di amministratori cinici. E vanno ricordati i leader religiosi indiani che hanno ringraziato e solidarizzato con la famiglia, invece di rinchiudersi ed evitare contatti, biasimando e rifiutando pubblicamente i comportamenti illeciti ed inaccettabili dei connazionali. Vanno menzionati altresì quanti hanno apprezzato e condiviso questi atteggiamenti, per molti inattesi, creando un clima accorato e preoccupato allo stesso tempo, ma maturo e responsabile.

Chiacchiere. Ancora in cerca di soluzioni

Le parole concilianti degli autori del Barometro, un sociologo e una mediatrice culturale che ben conosco e con i quali ho in precedenza collaborato, stendono un velo pietoso sui fatti di Chiuduno e oltre, con la volontà di stemperare un clima divenuto davvero più teso tra immigrati indiani e locali in zona. Mancano però di intercettare (forse volutamente, per non dare fuoco alla paglia) quei processi di escalation delle differenze sociali interne alla minoranza immigrata panjabi che la violenza ha portato alla ribalta pubblica per qualche settimana, ma che agiscono in maniera continua e pervasiva, e dove si incrociano forme di potere che attengono sia al contesto d’origine della migrazione che a quello d’approdo.

Non ho nessuna pretesa di detenere chiavi di lettura privilegiate di quell’episodio e di quanto vi è incastonato, non solo in termini di ripercussioni mediatiche come qui ho brevemente discusso, ma tantomeno in termini di analisi etnografica del caporalato tra la comunità immigrata indiana e le sue relazioni con un sistema di reclutamento della manodopera nelle floride aziende agricole della lombardia orientale, che sfrutta la vulnerabilità degli immigrati stagionali aggirando le esistenti norme sul lavoro e le falle nella governance del capitale migrante[7].

Tuttavia, una nota di chiusura provvisoria può emergere anche dalla mia ricerca etnografica. Un paio di settimane dopo l’accaduto, mi trovavo a casa di Asha, una delle mie più intime interlocutrici, a fare merenda con i nostri bambini. Il discorso tornò presto sul tragico evento, e la mia amica con impazienza prese a raccontare come il marito di Anuradha, un’altra delle nostre comuni conoscenti, avesse dovuto recarsi in commissariato per fare da interprete durante gli interrogatori dei fermati. (Naveen è un immigrato indiano panjabi con cittadinanza italiana, vive a Bergamo da sedici anni ed è impiegato in una grande azienda locale nel settore automobilistico. Laureato, padroneggia la lingua italiana tanto da praticare come traduttore giurato in tribunale.)

Immaginati come può essersi sentito Naveen? Trovarsi lì a dire in italiano le parole di uno che stava mentendo. Mica quello poteva dire tutta la verità, tutte le cose nascoste che fa certa gente che viene dall’India disperata e con idee strane. Quello diceva di non volere uccidere suo fratello, ma piangeva e si contraddiceva e faceva i nomi dei suoi nipoti […] e a Naveen chiedevano, ma secondo te dice il falso? Lui gli ha risposto che non lo poteva sapere, che traduceva e basta, ma che quei baazigar [nomadi] son gente viscida. Non come noi: mica gli indiani son tutti uguali! Sai che “Kumar” in India vuol dire SC [Scheduled Caste]. E non basta la religione per far capire se uno è bravo o no, serve anche tutta la famiglia[8]. Noi siamo hindu, ma ci sono dei Sikh bravi, come Majeeda... Ma fare queste cose, nessun Dio te le perdona! Adesso ci son due case senza padri, uno ammazzato e l’altro in galera, una donna italiana morta solo perché voleva aiutare. E in giro tutti che dicono che gli indiani sono pericolosi. Dopo quello che ho visto qui, di qualcuno comincio a pensarlo anch’io. Queste cose non le avevo mai sentite neanche quando vivevo a Jalandhar[9]. […]

In quello che Asha raccontava tra concitazione e riflessione come fosse un “pettegolezzo etnico”[10] [Gluckman 1968], mi sembrò racchiudersi il senso di un conflitto o meglio di un “dramma sociale” di cui in pubblico era emersa solo la punta dell’iceberg, l’episodio violento. Cito qui chiaramente Victor Turner [1974, 37] e intravedo la possibilità di applicare il modello da lui elaborato di “dramma sociale” (con le sue fasi costitutive di “infrazione, crisi, azioni riparatrici e risoluzione”) per provare a comprendere come differenze e discriminazioni a monte, nel contesto di partenza dei percorsi migratori, si riattivino e riempiano di nuovi significati nel contesto di insediamento. Turner stesso suggeriva la possibilità di far procedere l’analisi etnografica «from empirical social drama to a meta social commentary on the lives and times of the given community» [cit. 39]. I drammi sociali che vivono molti immigrati nel loro locale quotidiano interrogano come si co-producono processi di sopraffazione su scala transnazionale. Che migranti e nativi ne prendano atto o meno e che alcuni provino in vari modi e misure a denunciarlo e porvi rimedio, è il resto del mio lavoro dottorale, dove tento un’etnografia critica delle esperienze di vita dei panjabi lombardi. Una microscala di grande complessità, come qui abbiamo solo intravisto.

Riferimenti Bibliografici

Azzeruoli V., Perrotta M. 2014, Informal brokerage in the Italian agricultural labor market, paper presented at «Migrant Labor and Social Sustainability of Global Agri-food Chains», University of Murcia.

Bertolani B., Ferraris F., Perocco F. 2011, Mirror Games: A Fresco of Sikh settlements among Italian local societies, in K. Myrvold, K. Jacobsen, Sikhs in Europe, Farnahm: Ashgate, 133-161.

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[1] Da un’intervista rilasciata da un imprenditore bergamasco, che impiegava abitualmente salariati Indiani nella propria azienda metallurgica [17/05/2013].

[2] Benché il lessico genealogico dei noti «brothers’cousins» indichi una relazione non sempre biologica, piuttosto un vincolo d’obbligo e fiducia verso individui con cui si scambiano beni e favori al limite della corruzione minuta [Kelly, Turner 2009].

[3] Le tre immagini qui presentate sono tratte da diversi numeri del quotidiano in oggetto. Ho selezionato fotografie rappresentative dell’iconografia cronistica su migrazione/criminalità, ma ho volutamente scartato scatti che, pur pubblicati, identificassero i personaggi implicati nell’incidente. La volontà di non speculare sulla vita (e morte) delle persone coinvolte e di tutelare la riservatezza dei miei interlocutori mi ha impedito di mostrare alcune foto scattate la sera della fiaccolata e la domenica al gurdwara in presenza della famiglia Cantamessa.

[4] Tutti i nomi di persona che ricorrono nell’articolo sono fittizi, per tutelare la privacy delle persone intervistate e dei miei interlocutori, salvo le identità di coloro che sono apparsi negli episodi di cronaca che qui fedelmente riporto.

[5] Il legame pretestuoso tra la sorte dei Marò italiani in India e degli immigrati indiani in Italia era già stato rilevato dai panjabi stessi, che, in più occasioni in diverse città italiane, hanno manifestato per la “liberazione dei fratelli Marò”: una richiesta formalmente indirizzata al governo indiano, ma anche una mossa rivolta a quello italiano nella speranza di rinsaldare la credibilità civica del gruppo e ottenere congrui benefici.

[6] Mentre il processo è tuttora in corso, anche a distanza di mesi trapelano indiscrezioni colte al volo dalla stampa, che ciclicamente riportano a galla la vicenda e le questioni sottese.

[7] La sola Agronomia, dove lavoravano i fratelli Kumar, copre quasi il 70% della produzione nazionale di insalate in busta e dirige un gruppo agroalimentare diversificato dalla Lombardia alla Puglia.

[8] Asha parlava di parivaar, inteso come nucleo domestico e affettivo, piuttosto che di biraderi, genealogia estesa.

[9] La registrazione è stata tagliata per questioni di privacy e per proteggere informazioni di potenziale rilevanza giudiziaria. La citazione che riporto è una mia traduzione-trascrizione di una conversazione condotta in registro linguistico misto: italiano, inglese e hindi.

[10] Gluckman attribuiva alla chiacchiera scandalistica una funzione di catalizzatore dell’identificazione collettiva, che reitera la coesione, l’etica e i valori di un gruppo sociale. Anzi, sarebbe proprio il diritto (in questo caso dei giornali e dei loro lettori) a sparlare dell’altro a sancire la divisione in campi antagonisti tra un noi e un loro.