La política es winka, la historia es mapuche

Alleanze, conflitti e trasformazioni all’interno della pratica politica mapuche.

Olivia Casagrande


Table of Contents

I primi anni ’70: la lotta campesina
Il colpo di Stato del 1973: il ritorno del winka
Gli anni ’90 e il movimento mapuche: l’emergere di un equivoco
Conclusioni: connessioni parziali
Riferimenti bibliografici

Abstract

The struggles for the land of the '70s saw the alliance between the Mapuche communities and the Chilean left in a "class struggle" in which the indigenous society was included within the general category of campesinos.

This process was brutally interrupted by the coup of Pinochet, whose violent repression has contributed to reshape the contraposition according to the previous axis Mapuche-winka (non-Mapuche). Also as a consequence of these tensions, the current Mapuche movement is based on the ideas of self-determination and recovery of the ancestral territory, constituting as a particular "cosmopolitics" that seems to distance itself both from the Western political conception, and from the previous alliance with the Chilean left.

The present paper compares the two moments through the analysis of the indigenous leader’s narrative, aiming at understanding the transformations of the Mapuche political practice and its dialectical relationship with the Chilean Other.

Keywords

Mapuche; Chile; cosmopolitics; land; class struggle

Be other so that we will not ossify,

but be in such a way that we are not undone,

that is make yourself doable to us.

[Povinelli 2001, 239]

Nel corso delle nostre conversazioni, incentrate sul racconto della sua partecipazione alle lotte per la terra nel sud del Cile, tra gli anni ’60 e ’70 del 1900, Rafael ripeteva spesso una frase: «la politica è winka, la storia è mapuche»[1]. Una dichiarazione decisa che mi lasciava perplessa: in che senso la politica poteva essere dello straniero, dell’invasore, quando molte comunità indigene avevano partecipato al fermento degli anni di Allende? Come era possibile che Rafael rivendicasse il proprio ruolo all’interno del movimento degli anni ’70, e allo stesso tempo rifiutasse con questa frase secca l’idea di politica? E che cosa voleva dire dichiarando la storia assolutamente mapuche? Di quale storia stava parlando?

Queste domande sono state il punto di partenza per le considerazioni e l’analisi che qui propongo rispetto alle trasformazioni della pratica politica mapuche, così come il dubbio, a tratti fastidioso, che la parola “politica”, per me e per Rafael, non significasse esattamente alla stessa cosa.

Ho scelto di prendere sul serio l’affermazione di Rafael, considerando la pratica politica mapuche nella sua profondità storica e mettendo in relazione il movimento indigeno attuale con le lotte per la terra degli anni ’70 durante il governo di Salvador Allende (1970-1973), cercando così di comprendere lo scarto tra i due momenti attraverso l’analisi delle narrazioni di leader indigeni attuali e degli anni ’70[2]. Nel passaggio dall’adesione alla “lotta campesina” della sinistra cilena alle successive forme di rivendicazione in cui sono centrali i concetti di autodeterminazione e recupero del territorio ancestrale ha avuto un ruolo decisivo la violenza della repressione politica del golpe, contribuendo brutalmente alla riconfigurazione della contrapposizione secondo i termini mapuche-winka. La profonda rottura provocata dal regime Pinochet porta però allo stesso tempo ad interrogarsi sulla fragilità dell’alleanza tra la sinistra rivoluzionaria cilena e le comunità indigene, e ad uno sguardo più attento emergono le tensioni e le incomprensioni che hanno caratterizzato questo incontro.

A partire dal concetto di equivoco di Viveiros de Castro [2004], nell’analisi della pratica politica mapuche e delle sue trasformazioni faccio riferimento al dibattito recente sui movimenti indigeni dell’America Latina, in particolare ai lavori di Marisol de la Cadena [2010], Mario Blaser [2004, 2009] e Valentina Bonifacio [2013a, 2013b], che prendono le mosse dalla nota riflessione di Bruno Latour rispetto alla “costituzione moderna” e alla conseguente delimitazione di sfere distinte: quella politica e quella scientifica, quella tra natura e cultura, e conseguentemente quella tra “noi”, che facciamo questa distinzione, e “loro” [1993]. Una distinzione, come sottolineato in particolare da Marisol de la Cadena, che non corrisponde però al mondo indigeno, le cui pratiche «eccedono i termini» della politica occidentale, entrando quindi a far parte dell’inaccettabile, e venendo relegati allo status di “folclore” o “credenze”. Ciò che è gioco è allora un conflitto tra diverse «cosmopolitiche», che rivelano una tensione tra mondi differenti e che possono avere tra loro connessioni soltanto parziali [2010].

I primi anni ’70: la lotta campesina

Negli ultimi anni del 1960 nel sud del Cile, in particolare nella regione dell’Araucanía, cuore dell’antico territorio mapuche e successivamente una delle zone di espansione dei grandi proprietari terrieri, si avvia un fermento politico e sociale che durante il governo di Salvador Allende (1970-1973) esplode in numerose occupazioni di terre da parte del settore campesino e indigeno,per la maggior parte costituito da mapuche che dalla fine del 1800 erano stati radicati nelle reducciones della zona[3].

Tale fermento politico faceva parte di una decisa strategia portata avanti dai settori più radicali della sinistra cilena, che mirava ad accelerare e intensificare il processo di espropriazione da parte dello Stato nell’ambito di una politica di Riforma Agraria[4] percepita come eccessivamente lenta e insufficiente rispetto alle gravi condizioni di povertà e marginalità sociale del settore rurale. Già nel corso degli anni ’60, gruppi di militanti avevano cominciato a frequentare le zone circostanti a Temuco, dando inizio a quello che nei loro intenti costituiva un “processo di risveglio” delle masse. Durante questo periodo avviene l’incontro con le comunità indigene, che si trovavano in una situazione di estrema scarsità di terra a disposizione a causa dell’occupazione del proprio territorio da parte dei coloni e dei grandi proprietari terrieri (winka). Dal loro punto di vista, la mancanza di accesso alla terra derivava da un’antica usurpazione del proprio territorio. Ma nel clima del più generale fermento politico del paese, che nella figura di Salvador Allende vedeva la possibilità di costruire il socialismo all’interno delle istituzioni (la nota “via cilena al socialismo”), in molti all’interno della società mapuche intraprendono la via della “lotta di classe” per recuperare la terra, scegliendo di allearsi con i militanti cileni.

Per il contesto che qui mi interessa analizzare, l’organizzazione politica dominante è quella del MCR (Movimiento Campesino Revolucionario)movimento nato appunto dal congiunto del MIR (Movimiento de Izquierda Revolucionaria)e alcune comunità mapuche del settore rurale nel comune di Temuco. Tale alleanza si consolida ed entra nello spazio pubblico soprattutto con la vittoria elettorale di Unidad Popular, il 4 settembre 1970. Comincia però a costituirsi anni prima, con l’arrivo nelle comunità di alcuni giovani militanti - spesso identificati nei racconti di quegli anni come “gli studenti”, perché appunto studenti universitari - attraverso il tramite di mapuche che avevano fatto esperienza di lavoro al di fuori delle comunità, spesso in ambito operaio o nelle miniere[5]. Si tratta di un processo di avvicinamento che comincia con una serie di visite e conversazioni prima con i più giovani, poi con gli anziani, che raccontavano ai militanti la storia di usurpazione e progressiva erosione della terra indigena. Si costruiscono così relazioni che prendono forma nel corso di anni di frequentazione delle comunità, spesso basate sul consolidarsi di rapporti di amicizia, e soprattutto sull’esistenza di un obiettivo comune: la lotta per la terra[6].

A partire però dalla vittoria di Allende e dal radicalizzarsi delle occupazioni dei grandi latifondi, si fa sempre più forte l’idea di lotta campesina - come sottolinea lo stesso nome del MCR, scelto poco dopo la vittoria elettorale di Unidad Popular - che ha come aspetto centrale l’intento di ridistribuzione della terra in mano ai grandi proprietari terrieri in base ai concetti di lotta di classe e giustizia sociale. L’idea di recuperare una terra usurpata, propria del mondo indigeno, scivola sullo sfondo. Uno degli slogan del tempo - «la tierra para quien la trabaja» - esprime chiaramente questi aspetti, ancorando le occupazioni dei grandi latifondi a una visione politica precisa, che si richiama ad altre battaglie del continente americano, prima tra tutte la rivoluzione cubana.

In questo quadro e particolare momento storico, e così come accade ad altre società indigene che si trovano ad allearsi con le sinistre sudamericane, i mapuche vengono percepiti come campesinos dai miristi, e la lotta congiunta per la terra si inserisce a pieno titolo nella rivoluzione socialista. Le particolarità culturali, sociali e anche politiche del mondo mapuche sono messe da parte, relegate nell’ombra e in spazi delle comunità a cui i militanti raramente avevano accesso.

La politica - che è la politica dei miristi, degli studenti, di “quelli venuti da fuori” - era un’altra questione. E nella politica, da parte mapuche, sembrava possibile trovare una strada per recuperare quel territorio che, all’interno di tutt’altra narrativa e visione della realtà, spettava loro di diritto.

Il racconto di Rafael rispetto all’incontro con il MIR mette in luce il momento di incontro e dialogo che dà luogo, pur partendo da posizioni diverse, a un agire comune e alla successiva alleanza:

Allora mi dissero, io stavo giocando a palla, mi dissero: «la seconda domenica ti piacerebbe partecipare a una riunione?». […] «Io, io vengo a vedere» dico. Andai. E mi piacque la chiacchierata. C’erano diciotto studenti, però la maggioranza erano del MIR. [...] Chulín raccontava, le donne, tutti raccontavano, come gli avevano rubato la terra, tutte queste cose... Io avevo molto chiaro tutto, non avevo motivo di domandare, però loro [gli studenti] domandavano. [...] Io avevo questa storia, sempre dicevo loro: «beh, perché, qual è il timore?» Dicevano: «[…] e con che ci difenderemo? Non abbiamo armi». All’inizio... «però perché state pensando alle armi - gli dicevo io - quando Lautaro non ha combattuto con le armi! Caupolicán non ha combattuto con armi, combatté a sangue freddo e lo uccisero». Questo era il mio zelo. [...] E [fu] tanto [che] gli studenti mi acchiapparono. Mi dissero: «guarda Rafael, continueremo a lavorare». Certo, gli dissi, nessun problema. [Rafael, gennaio 2012]

Nel racconto di Rafael è centrale il riferimento alla storia dell’invasione del territorio indigeno e alla secolare resistenza mapuche, qui rappresentata dalle figure, tra la storia e il mito, dei due guerrieri Lautaro e Caupolicán. Si tratta di una storia profondamente sentita da Rafael, parte integrante della propria visione del mondo: «io avevo molto chiaro tutto, non avevo motivo di domandare». In questo senso non dice di sapere ma di avere questa storia. Ed è proprio a partire da questa storia incorporata, condivisa con gli studenti che ha inizio e che è possibile l’alleanza.

Se però il punto di partenza per la costruzione di un percorso comune ha un profondo legame con la realtà e la prospettiva mapuche, l’esplosione delle occupazioni di terreni nel corso degli anni successivi mette in primo piano altri aspetti, insistendo sulla lotta di classe e rielaborando l’asse delle contrapposizioni in campo, come sottolinea la narrazione di Félix[7]:

Io le dico che ci riunimmo con i sindacati, questi sindacati ce li avevano i winka pobres[…]. Perché quando si occupava un terreno, c’erano mapuche e c’erano winka, allora lì noi arrivavamo a conversare con loro […]: «qui devono rimanere quelli che lavoravano, i mapuche e i winka, perché voi non siete l’opposto, voi siete compañeros di lavoro, voi non siete nemici, siete fratelli, fratelli però fratelli di classe perché entrambi siamo sfruttati, il winka pobre, il mapuche pobre, sfruttati»… E chi era l’opposto? Il padrone, quello che aveva i soldi. Quello era l’opposto, però il winka pobre, il mapuche pobre erano fratelli di classe. [Félix, dicembre 2012]

Il cuore del racconto di Félix sono le espressioni «winka pobre » e «fratelli di classe», che con la loro densità restituiscono i termini dell’alleanza con la sinistra da parte mapuche. L’ultima frase è particolarmente significativa, fornendo un quadro delle parti in gioco e delle connessioni messe in campo: è il padrone ad essere «l’opposto», il ricco latifondista, mentre il termine winka abbandona la generica connotazione negativa di invasore del territorio indigeno. Il winka - il bianco - sembra essere osservato più da vicino, abbandonando la massa indistinta dell’alterità ostile e trovando nell’aggettivo pobre una caratterizzazione che ne segna invece la prossimità, la comunanza, la possibilità di condivisione. Anche il winka, come il mapuche, può essere “povero”, ai margini, in condizioni che appunto rendono possibile un’alleanza sulla base del principio ideologico, qui riappropriato da Félix, della lotta di classe proposto dal MIR.

Frutto di una rielaborazione simile è l’espressione «fratelli di classe». Anche se Félix utilizza lo spagnolo hermanos, questo termine richiama la parola mapuche peñi, modo in cui ci si rivolge comunemente l’un l’altro[8], e che in questo caso viene applicato agli stessi winka, in un contesto in cui la “fratellanza” è mediata dalla comune lotta politica, a partire dall’idea di classe introdotta dalla presenza dei militanti.

Si tratta di termini chiave, che rivelano diversi piani di un'alleanza che porta con sé radici antiche delle relazioni tra due mondi[9]. Uno è quello della lotta portata avanti insieme ai campesinos, con i quali esisteva un certo grado di condivisione della vita quotidiana, considerando che gli stessi mapuche, in seguito all’istituzione delle riserve, erano stati costretti a diventare tali. L’altro è quello dello scambio con gli studenti, che «hanno studiato», che arrivavano dalla città, e che proponevano una visione della giustizia e dell’ingiustizia con cui era possibile trovare delle connessioni. Questi due piani però si intrecciano, perché sono i discorsi degli studenti, le lunghe conversazioni, a costruire questa nuova dicotomia in cui la realtà appare divisa tra ricchi e poveri, non più tra mapuche e winka. La povertà può essere di tutti: «ci hanno spiegato che esiste il povero ed esiste il ricco», diceva qualcuno ricordando quegli anni di intense discussioni[10]. Come sottolinea l’antropologo Roberto Morales, all’interno di molte comunità mapuche la proposta del MIR era probabilmente vista come una strada possibile per la soluzione di una domanda di terra che risaliva al primo periodo della costituzione delle riserve [Morales 1999, 94]. Allo stesso tempo, le espressioni utilizzate da Félix sono indice di una tensione inerente all’alleanza stessa, in un gioco di distanza e vicinanza che se da una parte sposta l’asse della contrapposizione - non contro il winka ma contro il ricco - dall’altra lascia inevitabilmente qualche cosa fuori dai giochi: il winka è fratello di classe, ma per definirlo tale viene utilizzato un termine spagnolo, non quello mapuche la cui densità rimanda a fondamentali aspetti linguistici, culturali, sociali, che nell’assimilazione di quel mondo indigeno ai campesinos all’interno della “lotta di classe” vengono lasciati in disparte.

Il colpo di Stato del 1973: il ritorno del winka

Con il colpo di stato del 1973, le occupazioni di terre vengono brutalmente interrotte e i terreni espropriati gradualmente restituiti ai precedenti proprietari. Comincia una repressione feroce nelle zone rurali, che si caratterizza per sommare alla violenza politica l’odio razziale, sfogando contro le comunità mapuche sentimenti di disprezzo per l’indio e soprattutto l’aspra vendetta per le precedenti occupazioni. Le stesse modalità di repressione da parte dei militari sono spesso più brutali nelle zone rurali rispetto a quelle urbane, giocando sulla totale impunità (chi abitava nelle comunità arrivava molto più raramente alla rete di solidarietà e ai pochi organismi di denuncia, gestiti prevalentemente dalla Chiesa) e sulla complicità dei latifondisti che prestavano le loro proprietà come centri di tortura, spesso partecipandovi in prima persona [Morales 1999; Pérez, Bacic, Durán, 2001].

Con la violenza devastante del golpe, la lotta per la terra conosce un arresto per molti anni. L’alleanza con la sinistra, invece, sembra un capitolo che si chiude per sempre, almeno in termini così forti e ampli. Tornerò in seguito sugli equivoci e le parzialità di quest’alleanza, alla base di questa impossibilità di riprendere un discorso comune, mentre vorrei ora concentrarmi su un altro aspetto che ha avuto a mio parere un ruolo importante nello spezzarsi di questa alleanza: la violenza devastante della repressione della dittatura Pinochet e il modo in cui essa è stata affrontata all’interno delle comunità mapuche.

Il primo aspetto connesso a questo tema riguarda l’assenza quasi totale dell’appoggio della sinistra nel contesto della repressione. Sia per una reale impossibilità di azione e di organizzazione a causa della ferocia della repressione nei primi anni del regime militare, sia per la paura generalizzata e paralizzante, sia per l’arresto e l’uccisione di molti militanti del MIR, le comunità indigene vengono quasi completamente abbandonate a se stesse, mentre i miristi sopravvissuti, costretti a fuggire dalla zona, si rifugiano prevalentemente in città, contando sulle reti di sicurezza e di appoggio che si costituiscono a Santiago, Temuco o Concepción. Ma chi era nato e cresciuto lì non aveva alcun posto in cui fuggire. Molti dei leader mapuche si nascondono infatti nelle zone rurali, contando sulle reti di appoggio basate prevalentemente su legami familiari e comunitari.

In questo contesto di terrore, le comunità erano molto spesso bersaglio di una repressione caratterizzata da modalità particolarmente crudeli, come già accennato, sia nel corso delle ricerche da parte dei militari dei leader che avevano portato avanti le occupazioni nel periodo precedente, sia nell’ambito di una generale punizione e regolamento dei conti. Il sentimento di abbandono cresce così negli anni, anche perché spesso i militanti del MIR non sono mai più tornati nelle comunità che frequentavano prima del golpe, neppure quando la dittatura era ormai finita. Ancora oggi è possibile percepire un sentimento di forte delusione e soprattutto di diffidenza generalizzata nei confronti della sinistra cilena, quando non un’aperta attribuzione di colpa per la violenza subita. La questione è delicata, soprattutto perché spesso le relazioni tra i leader indigeni e i militanti del MIR erano caratterizzate da legami di amicizia. Inoltre, non sempre le comunità sono state abbandonate, e in alcuni casi i miristi sono successivamente tornati a visitarle [cfr. ad esempio Mallon 2004]. Esiste però una sensazione di abbandono e di rabbia, oltre a un’autocritica in questo senso da parte di alcuni militanti del MIR, come è emerso nel corso di interviste e conversazioni. Soprattutto, il punto principale che qui mi interessa sottolineare rispetto a una questione ancora controversa e poco affrontata, è la reazione da parte della maggior parte della comunità indigene alla repressione, e il modo in cui si spiegano la violenza politica di cui si trovano ad essere vittime.

Le comunità si sono chiuse in se stesse, nella diffidenza e nel rifiuto del mondo esterno, mettendo in atto pratiche culturali e sociali per far fronte al processo repressivo del regime dittatoriale, in una postura che, facendo riferimento all’inizio del 1900, lo storico José Bengoa ha definito di «resistenza culturale» [1985, cfr. anche Morales 1999]. Probabilmente tale postura di ripiegamento verso l’interno è leggibile anche come una reazione alle modalità repressive a cui ho accennato: essere vittime della violenza che, pur essendo politica, assumeva nel contesto delle comunità chiari connotati di odio razziale contribuiva a riportare in campo la contrapposizione con lo stato dominante. La chiusura e la diffidenza verso l’esterno, nel tentativo di far fronte alla violenza della repressione, contribuiscono infatti a un’ulteriore ridefinizione delle parti in gioco, che sembra riportare all’epoca precedente ai brevi anni dorati dell’alleanza con la sinistra cilena. Come emerge chiaramente dalle parole di Rosa, che ricorda il golpe in questi termini: «lì è stata terribile la vita. Lì ho conosciuto la vita che mi raccontava mia madre, prima... Tutto quello che raccontavano... Anche la mia matrigna raccontava, e anche altri anziani, raccontavano sempre... Però io non ho mai... non mi immaginavo, non credevo che questo sarebbe potuto accadere. E’ stato terribile»[11].

La violenza politica è spiegata da Rosa, come da altri intervistati, attraverso il riferimento ai racconti, interni alla comunità, della brutale invasione del territorio mapuche - la cosiddetta Pacificazione dell’Araucanía - a fine 1800 da parte dell’esercito cileno. In questo senso «la vita che mi raccontava mia madre», parole che dicono il ripetersi di un altro terrore, e che vedono la repressione della dittatura come un “ritorno” di una violenza più antica: la violenza del winka. L’asse della contrapposizione è brutalmente riportata a quella precedente alle lotte per la terra di primi anni ‘70: non più povero/ricco, ma di nuovo mapuche/winka. Torna anche il riferimento alla storia, tante volte tramandata all’interno della comunità, ascoltata dai più anziani che ancora hanno memoria del conflitto vissuto in prima persona. È quella storia a fornire una spiegazione, un senso, per una violenza brutale e assurda: l’invasione del winka, l’antica contrapposizione che era stata solo temporaneamente sospesa. Il significato della violenza è nella storia, o nella mito-storia, che torna all’ordine morale per cui winka significa pericolo. Ed è con questi aspetti sullo sfondo che bisogna avvicinarsi all’analisi dell’attuale movimento mapuche e della sua distanza dalla sinistra cilena.

Gli anni ’90 e il movimento mapuche: l’emergere di un equivoco

Facendo un salto agli anni ’90 del 1900, con il ritorno della democrazia ha luogo una rinascita del movimento mapuche, che andava riorganizzandosi già dal 1978, anno in cui erano ricominciate le prime e caute associazioni, mascherate all’interno dell’ambito culturale, in risposta alla legge di divisione delle comunità in proprietà individuali promulgata dal regime[12].

La storia della riorganizzazione del movimento mapuche è complessa, e non è possibile prenderla in considerazione qui. Gli aspetti che qui mi interessa sottolineare sono il sempre più deciso allontanamento dalla possibilità di un’alleanza con i partiti della sinistra e la una progressiva “radicalizzazione” del movimento che porterà a nuove occupazioni di terre soprattutto a partire dal 1998. Il ritorno del paese alla democrazia, inoltre, segna un ulteriore momento di spaccatura profonda con la sinistra cilena, e più in generale con la politica cilena, configurandosi come un passaggio fondamentale per la ricerca di una strada politica autonoma[13].

Precedentemente alle elezioni del 1990, le prime libere elezioni dopo 17 anni di dittatura, Patricio Aylwin, a capo della coalizione per la democrazia, la Concertación, aveva stretto un accordo con i rappresentanti delle organizzazioni mapuche, noto come Acuerdo de Nueva Imperial, che prevedeva una serie di misure in cambio del sostegno elettorale, tra cui la creazione di una Legge Indigena, il riconoscimento costituzionale dei popoli indigeni e la firma della Convenzione 169 della OIL. Una volta vinte le elezioni, però, tale accordo viene rispettato solo parzialmente, portando al radicalizzarsi della protesta, parallelamente al formarsi di nuove organizzazioni, alcune delle quali avevano sin dall’inizio rifiutato qualsiasi accordo con la Concertación.

Un aspetto importante in questo scontro è inoltre la questione economica. La continuazione da parte dei governi democratici del percorso iniziato dalla dittatura verso il libero mercato garantisce l’immagine del Cile, anche a livello internazionale, come paese prospero e moderno, aperto agli investimenti stranieri, e allo stesso tempo il consenso di quella parte di popolazione che aveva appoggiato Pinochet. Ma è proprio il proseguimento delle politiche economiche inaugurate dalla dittatura a contribuire al progressivo inasprirsi del conflitto con la società mapuche, fino a un nuovo esplodere della protesta tra il 1997 e il 1998, con il noto caso Ralco[14]. In assonanza con il più ampio contesto dell’America Latina, il movimento mapuche si riorganizza, adottando modalità di lotta che se da una parte recuperano l’idea dell’occupazione dei terreni, dall’altra incorporano importanti elementi precedentemente lasciati da parte. Emergono con forza aspetti culturali e spirituali nell’ambito della rivendicazione della terra indigena, che all’interno del discorso dell’attuale movimento mapuche si configura come “recupero della terra ancestrale”, spostando l’attenzione sui concetti di autonomia e autodeterminazione, soprattutto successivamente alla nascita della Coordinadora Arauco Malleco (CAM) [15].

In questo nuovo periodo di mobilitazioni, che pur hanno al proprio centro la questione della terra, sono il segno e il significato delle occupazioni a essere differenti: non si tratta più di ridistribuzione, all’interno della logica della lotta di classe su cui si basava l’alleanza con la sinistra cilena, ma di recupero della terra usurpata, che non è più terra ma territorio, e le azioni concrete di rivendicazione e protesta comprendono spesso la realizzazione di cerimonie tradizionali all’interno della terra recuperata così come la semina di piante native, in una riappropriazione dello spazio che assume un significato che tocca contemporaneamente aspetti politici, sociali, culturali e spirituali.

Uno scarto rispetto alle occupazioni precedenti, che conferisce un significato profondamente distinto della lotta per la terra. In assonanza con altre «ri-emergenze indigene» [Bengoa 2000] nel continente americano, gli accenti sono posti su aspetti che definiscono un popolo distinto e rivendicano un’autonomia e un territorio, come appare nelle parole di Victor, leader del movimento mapuche dalla fine degli anni ’90:

Qui, come dirti, si parlava di campesinos… e di fatto parlare di campesinos… ci stanno abbassando il profilo, perché, chiaro, noi siamo campesinos, siamo agricoltori, però, questi agricoltori, questi campesinos, appartengono a un popolo, in questo caso al popolo mapuche! E abbiamo un territorio, abbiamo una cultura, abbiamo una lingua, e abbiamo tutto un patrimonio culturale, territoriale. […] in questo modo fu l’unica maniera di dire: «Oye!? Beh, siamo qui noi...! Siamo quelli che hanno combattuto più di 400 anni contro gli spagnoli, e continueremo con voi ora! Perché voi non ci volete restituire quello che ci hanno preso, quello che ci hanno rubato». [Victor dicembre 2008]

Rispetto alla precedente narrazione da parte di Félix la lotta di classe è scomparsa del tutto, per lasciare il posto alla lotta di un popolo che si riconnette allo scontro di secoli prima con gli spagnoli e che rivendica un «patrimonio culturale e territoriale». Ed è proprio questo scarto tra le narrazioni riguardo le lotte per la terra nei due momenti distinti - gli anni ’70 e il momento attuale, a partire dagli anni ’90 - a costringere a una riflessione più approfondita. Se da una parte la già analizzata questione della violenza contribuisce a chiarire alcuni aspetti fondamentali, soprattutto per quanto riguarda la rottura profonda con la sinistra cilena e la ridefinizione delle parti nelle contrapposizioni in campo, e senza dubbio, come già accennato, il generale riemergere delle identità indigene nel contesto più ampio del continente ha una certa importanza, c’è qualche cosa di più profondo che emerge soprattutto nel corso degli anni ’90 ma che caratterizzava la stessa alleanza con la sinistra rivoluzionaria degli anni di Allende.

Si tratta di quello che Viveiros de Castro ha definito «uncontrolled equivocation», un equivoco che avviene non a partire da differenti prospettive sul mondo, ma dalla mancanza di riconoscimento dell’esistenza di mondi distinti: una disgiuntura comunicativa che ha luogo a partire dal fatto che gli interlocutori non stanno parlando della stessa cosa, e non lo sanno [2004]. Tale tipo di equivoco è ciò che ha probabilmente caratterizzato l’incontro tra sinistra rivoluzionaria e mondo mapuche, nel nome di una lotta per la terra che aveva però significati profondamente distinti a partire dallo stesso concetto di terra: se per la sinistra si tratta di un mezzo di produzione, di cui ci si appropriava nel nome della ridistribuzione della ricchezza, secondo l’ottica della costruzione di una società egualitaria, per il mondo mapuche si trattava del proprio territorio, usurpato dall’invasore, che andava recuperato. Soprattutto, nella concezione mapuche la terra (mapu) non si limita ad essere fonte di sostentamento economico, ma è «lo spazio materiale e immateriale in cui si manifestano le diverse dimensioni della vita» [Marimán et. al. 2006, 275], conferendo quindi un significato più vicino a quello di cosmo e sottolineando gli aspetti spirituali e sociali interconnessi - e non scindibili da - quelli produttivi.

Esempio significativo di tale equivoco è un dialogo riportato da Elizabeth, attivista mapuche, tra un’altra attivista indigena, Juana, e il ministro delle opere pubbliche, rispetto alla costruzione di una strada che dovrebbe passare nel territorio della comunità:

[Il ministro] le disse: «Juana, ma noi ti abbiamo offerto terra da un’altra parte, se te ne vai ti diamo tutta la terra… ti diamo più terra di quella che hai! Perché non accetti?». «No! È che io sono nata lì. Guarda, io… ammazzami, meglio, e mi seppellisci lì! Sotto la strada! Ma io non me ne andrò da lì, né i miei se ne andranno da lì! Noi difenderemo sempre la terra! E - lei disse - e infine, winka - disse al ministro - chi ti ha detto che avevo messo la terra in vendita? La terra non si vende! La terra è per colui che lotta! Che se la merita! A lui io dò la terra, ma non ti ho detto che avrei venduto la terra. O ti piacerebbe che io ti obbligassi a vendere casa tua?» [Elizabeth, dicembre 2008]

Al centro della scena, pur in riferimento alla stessa parola, terra, e allo stesso oggetto materiale che essa indica, le due visioni del mondo fanno riferimento a significati completamente diversi, quasi opposti. Per il ministro, che deve costruire una strada, una terra vale l’altra, e anzi il suo valore è strettamente economico, per cui gli è impossibile comprendere l’ostinato rifiuto di Juana davanti a una proposta che, in termini strettamente monetari, dovrebbe essere invece allettante: l’offerta di pi ù terra in cambio di quella della comunità. Ma per Juana la questione non è né quantitativa né monetaria. Non è neppure strettamente qualitativa dal punto di vista della produttività del terreno. Per Juana la terra non si limita ad essere suolo adibito alla produzione, né spazio edificabile per la comunità. È l’antico territorio per cui hanno combattuto altri mapuche prima di lei. È il luogo degli antenati. In questo senso, la terra è casa.

La discrepanza dei significati connessi a questa parola, pur utilizzando lo stesso termine, mette in luce la distanza tra due mondi, e l’impossibilità di considerare, all’interno del contesto mapuche, la lotta per la terra come distinta dai suoi significati storici, affettivi e cosmologici. L’ambito economico non può essere separato da altri aspetti della tradizione e della società indigena. Il discorso di Juana, con il suo riferimento alla terra come «casa», e con la sua rivendicazione di un legame profondo con essa a partire dalla dichiarazione «io sono nata lì», non sposta il piano della discussione, ma rivendica diverse dimensioni all’interno dello stesso ambito del politico, riportando ai diversi e interconnessi significati del termine mapu.

Sono questi significanti distinti attribuiti allo stesso termine a veicolare, in modo simile, la fondamentale incomprensione che ha segnato, a mio parere, l’alleanza soltanto parziale tra i partiti della sinistra cilena e le comunità mapuche anche negli anni ’70, a partire da un equivoco che si delinea come una modalità di comunicazione che emerge quando «views from different worlds, rather than perspectives about the same world - use homonymical terms to refer to things that are not the same» [corsivo mio, De la Cadena 2010, 351; cfr. anche Viveiros de Castro 2004]. Se da una parte, infatti, le occupazioni di quegli anni avvengono sulla base dell’elemento materiale comune, dall’altra parte è questo stesso elemento ad essere alla base di un equivoco costruito su una sorta di “traduzione parziale” del concetto di mapu attraverso la parola tierra.

“Terra” è per i militanti del MIR l’elemento concreto, di sussistenza, di produzione e di assicurazione di una vita dignitosa per i campesinos, è ciò in nome di cui si lotta per la giustizia sociale e per la costruzione di un mondo migliore. È allo stesso tempo il simbolo di un’ingiustizia profonda: “terra sterminata” nelle mani dei grandi proprietari terrieri, “terra insufficiente” per la sussistenza dei campesinos, mapuche o meno. Dal punto di vista indigeno, “terra/mapu” è senza dubbio anche questo - e qui la possibilità dell’incontro, la parziale sovrapposizione di significati, la condivisione della lotta e delle sue motivazioni - ma non è solo questo. Ciò che rimane invisibile, silenzioso, in ombra, come rimangono in ombra le cerimonie tradizionali e le consuetudini comunitarie che continuano ad essere portate avanti in spazi altri, al di fuori della temporanea alleanza con la sinistra cilena, sono gli ulteriori referenti che danno forma al significato profondo di questa stessa parola. L’incontro che avviene con la costituzione del MCR, allora, si delinea come un incontro a metà. Se pure avviene sulla base della risonanza di significati legati alla “lotta per la terra”, tale risonanza è soltanto parziale[16].

Conclusioni: connessioni parziali

A uno sguardo approfondito e trasversale, la pratica politica mapuche mostra una tensione verso l’altro che si delinea come complessa e conflittuale. La relazione con l’alterità assume una connotazione dialettica, in cui la negoziazione tra prossimità e distanza è continua. Una tensione che acquista tutta la sua forza quando si prende in considerazione il livello dei significati, che mette in luce spazio imprescindibile di incomprensione, come sottolineato dalla questione del equivoco rispetto al significato della parola “terra”.

Ma che cosa significa tutto questo? Che cosa questi aspetti costringono a pensare, o ripensare?

Come hanno argomentato negli ultimi anni alcuni studiosi delle società indigene dell’America Latina, questi aspetti, a lungo ignorati o considerati marginali, sono invece al centro della questione, e richiedono un profondo ripensamento della categoria occidentale di politica applicata spesso in modo acritico ai movimenti indigeni contemporanei.

Il punto fondamentale è la constatazione per cui, all’interno del mondo indigeno, il concetto di politica non solo non corrisponde a quello costruito nel mondo occidentale, ma ne «eccede» i termini attraverso la riproposizione di pratiche e cerimonie tradizionali nell’ambito dell’attivismo - come avviene all’interno dall’attuale movimento mapuche - facendo sfumare la distinzione tra ambito della politica e ambito della natura [De la Cadena 2010]. Spesso però, come è accaduto negli anni ’70 e come in parte accade ancora oggi, le rivendicazioni indigene si trovano costrette a lasciare da parte, quando arrivano sul teatro della politica nazionale e internazionale, aspetti generalmente considerati folclore, “culturali” nella migliore delle ipotesi e “superstizioni arcaiche” nella peggiore. Avviene così una sorta di adozione mimetica del discorso dello Stato dominante da parte degli attivisti indigeni in nome del riconoscimento della legittimità della propria domanda, attraverso un processo di traduzione che mette da parte ciò che nell’ambito della politica occidentale è considerato «inaccettabile» [De la Cadena 2010, 349].

Negli anni in cui l’MCR è stato impegnato nelle occupazioni delle terre, le cerimonie mapuche venivano realizzate in uno spazio lontano dai contesti condivisi della lotta politica con il MIR. La creazione di un terreno di condivisione costringeva a rinunciare a qualche cosa per arrivare a quelle «connessioni parziali» che Marisol de La Cadena vede alla base della relazione tra differenti «mondi socionaturali» [2010]. In questo senso, anche se non c’è una situazione di incomunicabilità tra due differenti ontologie politiche, la possibilità di una comprensione reciproca - di connessioni - è soltanto parziale, lasciando spazio all’equivoco.

Ripercorrendo le trasformazioni della pratica politica mapuche, con le sue alleanze e i momenti di chiusura al mondo esterno, nel confronto costante e spesso tragico con il mondo winka, la frase di Rafael che dà il titolo a questo saggio è comprensibile in tutta la sua forza. E la risposta al mio dubbio iniziale, a partire dal quale hanno preso forma queste considerazioni, è proprio questa: io e Rafael non stavamo parlando della stessa cosa. Quando lui diceva “politica”, intendeva la politica winka, quella della rivoluzione e della lotta di classe, di Che Guevara e della giustizia sociale. Qualche cosa che veniva dall’esterno, che poteva essere utilizzata e accolta come uno strumento utile, esattamente come venivano accolti i trattori nelle comunità indigene. Serve al suo scopo. Ciò che invece è profondamente mapuche, ciò che è incorporato e iscritto nei luoghi, è la storia. Storia di resistenza e di scontro, del continuo sforzo di adattamento e del costante tentativo di farsi comprendere adottando, nel corso del tempo, il lessico e la postura che lo Stato dominante imponeva: diventando campesinos, accogliendo l’ideologia della sinistra rivoluzionaria, confrontandosi, oggi, con le contraddizioni del multiculturalismo in cui il proprio essere indigeni, nello spazio di vita ai margini dello Stato cileno, deve essere continuamente rinegoziato, limato, adattato. Storia intesa anche come figure mitiche ed eroiche, come il sangue degli antenati, come gli aspetti spirituali e cosmologici contenuti nella terra - mapu - rivendicata con forza. Ed è seguendo la storia, e seguendo Rafael, che questa frase acquista tutto il suo senso: «la politica è winka, la storia è mapuche».

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[1] Rafael è stato uno dei leader mapuche del Movimiento Campesino Revolucionario. Il termine winka significa in mapudungun “non mapuche, straniero” ma possiede spesso una connotazione negativa, in riferimento all’invasore. Prima dell’arrivo degli spagnoli, i mapuche (oggi circa il 10% della popolazione cilena) occupavano un territorio che si estendeva orizzontalmente nella zona centro-sud degli attuali Cile e Argentina. Per la storia mapuche si veda Bengoa 2008.

[2] Le interviste relative agli anni ’70 sono state effettuate nel corso del Dottorato (Università di Verona, 2011-2014), mentre le conversazioni con gli attuali leader indigeni fanno parte della ricerca condotta per la tesi di Laurea Specialistica (Università Ca’ Foscari di Venezia, 2007-2009). Tra il 2008 e il 2012 ho svolto diversi periodi di campo nella zona dell’odierno centro-sud del Cile, in cui si concentrano la maggior parte delle comunità rurali mapuche.

[3] Alla fine del 1800 i mapuche avevano perso il territorio che erano riusciti a mantenere indipendente per quasi tre secoli dopo l’arrivo degli spagnoli, invaso dall’esercito della recente costituitasi Repubblica cilena. La relegazione in riserve - reducciones - segna il definitivo e forzato passaggio a un’economia basata principalmente sull’agricoltura, e quindi la trasformazione da grandi allevatori a campesinos poveri [cfr. Bengoa 2008].

[4] Il processo di Riforma Agraria, che proponeva l’uscita dal sistema che aveva visto il potere indiscusso dell’oligarchia agraria, caratterizza in questo periodo tutto il continente. Nel contesto cileno, tale politica era cominciata con il governo Alessandri (1958-1964). Il democristiano Eduardo Frei aveva elaborato un nuovo progetto di legge nel 1964, dando inizio a un processo di riforme che raggiungerà il suo culmine con Allende e la promulgazione della legge 17.450 del 10 luglio 1971 [Correa, Molina, Yáñez 2005].

[5] In casi rari anche come studenti. Per la storia di incontri, alleanze e relazioni tra la politica cilena e il mondo mapuche, con un riferimento particolare anche al MCR, rimando a Samaniego, Ruiz 2007; per una storia del MIR, si veda Naranjo, Ahumada, Garcés, Pinto 2004.

[6] Florencia Mallon, nella sua analisi della storia della comunità mapuche Nicolás Ailío, mette in luce come questa alleanza avvenga inoltre in un particolare momento di transizione per la società mapuche, che con la morte delle generazione che era stata per prima relegata nelle riserve, tra cui molte autorità tradizionali e spirituali, si trova in un momento di vuoto e di «crisi dell’autorità tradizionale» [Mallon 2004, 222].

[7] Félix è un altro protagonista delle lotte degli anni ’70, tra i principali leader indigeni all’interno del MCR.

[8] Peñi è il termine mapuche per “fratello”, utilizzato da un parlante di sesso maschile per rivolgersi a un interlocutore di sesso maschile, mentre lamgen è il termine utilizzato da un parlante di sesso maschile per rivolgersi a un interlocutore di sesso femminile, e da un parlante di sesso femminile per rivolgersi a interlocutori di sesso sia maschile che femminile.

[9] La relazione con la politica cilena comincia subito dopo la sconfitta da parte dell’esercito nel 1881, in un precoce dialogo con lo stato dominante nel tentativo di trovare delle strategie di sopravvivenza a livello sociale, politico e culturale [Foerster, Montecino 1988]. Lo storico José Bengoa ha sottolineato come la pratica dell’alleanza fosse fondamentale per la società mapuche sia per quanto riguarda la forma interna di organizzazione, sia nel la relazione con l’esterno, basti pensare ai numerosi accordi e parlamentos con gli spagnoli [Bengoa 2008].

[10] Intervista a Lucy, giovane mapuche militante del MCR, novembre 2012.

[11] Rosa, moglie di Rafael, intervista di marzo 2012.

[12] Si tratta della costituzione dei Centros Culturales- Ad Mapu [ad esempio Marimán et al. 2006; Correa, Mella 2010]. Anche se il ridefinirsi del movimento mapuche acquista particolare visibilità soprattutto a partire dagli anni ’90, probabilmente le origini di tale ridefinizione e del progressivo allontanarsi dalla sinistra cilena partono anche dall’esperienza dei Centros Culturales .

[13] Queste dinamiche sono da considerare inoltre all’interno del più ampio contesto dell’America Latina che vede il costituirsi di numerosi movimenti indigeni [cfr. ad esempio Bengoa 2000].

[14] Si tratta della costruzione della centrale idroelettrica Ralco da parte dell’impresa spagnola ENDESA nella zona dell’Alto Bio Bio, a cui si opposero le comunità della zona che rifiutavano il dislocamento proposto dal governo.

[15] La CAM prosegue sul percorso autonomo intrapreso dal Consejo, scegliendo strategie di lotta più dirette. Mi sembra importante segnalare che a partire dai primi anni del 2000 nell’ambito della protesta indigena è stata più volte applicata la Legge Anti-terrorismo, creata dallo stesso Pinochet, portando all’incarcerazione di molti a attivisti indigeni, che oggi si definiscono “prigionieri politici mapuche”. Per la criminalizzaizone della protesta mapuche rimando al testo di Eduardo Mella [2007].

[16] Questa analisi riprende quella che Marisol De la Cadena fa per il termine quechua ally nel contesto delle lotte per la terra degli anni ’70 in Perù che vedeva l’alleanza tra gruppi indigeni e sinistra [De la Cadena 2010: 355].