Conflitti del lavoro, lavoro in conflitto

Trasformazioni aziendali globali e nuove forme di fragilità e precarizzazione

Fulvia D’Aloisio


Table of Contents

Premessa. Quale conflitto nella precarietà?
Cronache del conflitto. I “ventuno giorni” e i licenziamenti disciplinari
Polverizzazione del conflitto e nuova precarietà nell’Azienda globale. Quando il lavoro confligge con la vita
Conclusioni
Riferimenti bibliografici

Abstract. The paper focuses on the issue of conflict in contemporary metal-mechanic work and inside the traditional site of blucollars conflict, the factory. Based on an ethnographic research on the Fiat-Sata factory of Melfi (founded in 1993), it shows the progressive change of the line of conflict between workers and owners towards a more subjective and existential conflict between time of work and private and familiar life. As some scholars think, the ‘old fashioned’ conflict has not totally disappeared, rather it has changed its sense and value, flowing towards a different configuration. The work reduction, started in Melfi from 2011, when the factory began the decline of its production and resorting to layoffs, has radically changed the work condition and the perception of the future. The sense of the recruitment in FIAT, for the lucky ones who were hired in 1993 and 1994, was such as an existential turnabout, compared to a very contrary past; more recently, the long period of CIG (Cassa Integrazione Guadagni, from the end of 2011 to 2014), and then the new configuration of the multi-national enterprise FCA, has increased uncertainty, precariousness,fear to loss the job. In this scenario, the conflict should appear as already exceeded, or simply we have to rethink our idea of class conflict, in the current era of manufacturing production, as a new win of the upper classes.

Keywords. Work; enterprise; conflict; change

Journal. EtnoAntropologia, 3 (2) 2015

Premessa. Quale conflitto nella precarietà?

Il presente contributo si propone di declinare la tematica del conflitto nel lavoro industriale metalmeccanico, a partire dallo studio di un caso che ha per oggetto i lavoratori della Fiat-Sata di Melfi, l’ultima fabbrica realizzata dalla casa automobilistica in Italia nel 1994, oggetto di una recente ristrutturazione nel quadro della nuova configurazione aziendale multinazionale FCA (Fiat Chrysler Automobile).

Il conflitto ha costituito una questione centrale, per così dire classica, degli studi sul lavoro industriale, nelle scienze sociali; in Italia, infatti, già dalla fine degli anni 50, l’industria e la classe operaia sono state al centro di studi politicamente orientati: celebre il caso della rivista Quaderni Rossi, che ebbe grande influenza nei movimenti di contestazione e di lotta dei decenni successivi. I protagonisti di questa esperienza, gli operaisti, tenevano saldamente insieme, con lo strumento dell’inchiesta, attività di studio e riflessione, da un lato, e proposte d’azione politica, dall’altro [Borio, Pozzi, Roggero 2005; Mantelli e Revelli 1979] mentre, come sottolinea Bonazzi, solo quando questo periodo caldo di lotte fu sfumato, «riaffiorarono le distinzioni e rispuntarono ricerche vere e proprie» [Bonazzi 2000, 47].

L’antropologia approda alla tematica del lavoro industriale in tempi più recenti, a partire dagli anni 90, e con un certo ritardo in Italia, per ragioni imputabili ad un pregiudizio operaista, come riteneva Signorelli già negli 80, pregiudizio che vedeva negli operai gli artefici della rivoluzione di classe [Signorelli 1984]; inoltre, secondo quanto osservato in modo analogo da Papa, la forza stessa del movimento operaio italiano ha indebolito l’interesse scientifico, a causa di una visione parziale legata al suo ruolo centrale nel conflitto sociale, cosa che ha portato a considerare gli operai come soggetto politico più che come oggetto di studio [Papa 1999].

A partire dagli anni 90, alcuni studi antropologi, quali quelli di Sélim [1996], Althabe e Sélim [2000] e, in Italia, Papa [1999], hanno delineato progressivamente un’idea dell’impresa come osservatorio elettivo dell’intersezione tra logiche e processi globali e pratiche locali. Recentemente Sélim ha rimarcato che il lavoro rappresenta il terreno sul quale maggiormente si abbattono gli effetti della globalizzazione, con esiti che ridefiniscono anche il rapporto tra economia e politica, nel senso di una maggiore distanza e polarizzazione. Da un lato, osserva l’autrice, alcuni effetti della globalizzazione di fatto si spalmano in maniera uniforme sugli assetti del lavoro, come la crescente frammentazione delle condizioni di lavoro, la moltiplicazione delle forme di contratto e dei tipi di retribuzione; dall’altro lato l’impresa diviene a sua volta sempre più frammentata, attraverso subappalti e catene finanziarie [Sélim 2012].

Dal canto suo, Narotzky ha invece ricordato che l’antropologia economica, le correnti femministe e gli studi sull’economia informale hanno concorso all’elaborazione di una nozione più complessa di lavoro, maggiormente estesa a tutte le attività connesse con la sussistenza e con la riproduzione della società [Narotzky 1997]. Sempre secondo l’autrice, la crescente attenzione di economisti e di antropologi verso l’economia sommersa, sia nel cosiddetto Terzo Mondo che nei paesi occidentali, ci consente di ripensare le tradizionali barriere tra lavoro e tempo libero, collocando crescenti forme di lavoro invisibile proprio all’interno di quest’ultimo. Se tuttavia nelle economie in via di sviluppo, ma più in generale nel lavoro sommerso, è possibile ritrovare la problematica dissoluzione di questa demarcazione, vi sono all’inverso ambiti di lavoro dove la rigida turnazione, la produttività intensa, l’estensione crescente dell’orario di lavoro dettata dalla produzione, hanno creato una divaricazione altrettanto negativa, che pone in crescente contrapposizione, quando non proprio in conflitto, il lavoro, da un lato, e la famiglia, la vita privata, il tempo libero dall’altra. E’ questo il caso del lavoro metalmeccanico nell’industria automobilistica Fiat-Chrysler di Melfi, proprio a seguito della lunga fase di crisi, della successiva ristrutturazione e della nuova fase produttiva iniziata nel febbraio del 2015. Ed è proprio sui tempi di lavoro che, non a caso, si è giocato molto del conflitto di fabbrica in questi anni, per poi arrivare, nella recente nuova fase produttiva, ad una quiescenza del conflitto stesso.

Sulla scorta del lavoro etnografico, la condizione degli operai di Melfi nella fase attuale sembra prospettare la nascita di nuove forme di conflitto, che non si muovono più sull’asse lavoro salariato versus capitale, secondo la teorizzazione classica di Marx, e che invece colloca gli operai nostrani nel pieno delle ben note modificazione delle classi un tempo protagoniste del conflitto sociale, ma anche della dinamica (dialettica) che le caratterizza.[1] Il conflitto sperimentato e tematizzato dagli operai oggetto di questo studio, è piuttosto spostato sul versante della crescente contraddizione tra lavoro e vita, ovvero un conflitto che tocca la trasformazione del lavoro industriale, i suoi assetti, da un lato, e dall’altro l’organizzazione della vita quotidiana che ne consegue, nel presente e più ancora nel futuro.

La trasformazione del conflitto di matrice ottocentesca, tema molto discusso, si lega innanzitutto al crescente assetto globale delle imprese, tra cui la Fiat: le configurazioni multinazionali, infatti, spostano, decentrano e disperdono la controparte classica dei lavoratori, la proprietà aziendale e il management che la rappresenta [Mollona 2009; Standing 2012]; nello stesso tempo scorporano e distribuiscono per il mondo il processo produttivo e quindi la manodopera, collocando i lavoratori in una geografia internazionale del lavoro, che collega entro relazioni meno omogenee e più divergenti i destini occupazionali di lavoratori anche distanti, creando meno possibilità di coesione ed anche minore coscienza dei potenziali collegamenti [Gallino 2007; 2014].

Con la trasformazione della Fiat nel nuovo gruppo multi-nazionale Fiat-Chrysler (con sede legale in Olanda e core-business a Detroit), iniziata nel 2009 e terminata nel gennaio del 2014, la fabbrica di Melfi va assumendo una nuova collocazione e una diversa funzione [Berta 2011]. Melfi ha conosciuto, nel ventennio di vita che la caratterizza, una parabola che l’ha vista dapprima assumere, almeno per il primo decennio, un ruolo di spicco nella produzione e nel mercato automobilistico internazionale: essa ha rappresentato la prima fabbrica italiana ad applicare il cosiddetto modello giapponese della qualità totale [D’Aloisio 2003], la più produttiva d’Europa con più alta intensità del lavoro, in cui si è sperimento un contratto di lavoro a sé stante (siglato con la new co. SATA), che aveva sancito retrocessioni in termini salariali e di diritti rispetto alle altre fabbriche italiane; essa è anche quella in cui sono stati applicati per la prima volta nuovi sistemi di metrica del lavoro (TMC2 e poi l’Ergo UASS), estesi poi alle altre fabbriche Fiat.[2] Parallelamente all’ascesa di Melfi, in Italia Fiat procedeva alla progressiva riduzione dello stabilimento di Mirafiori e alla chiusura, nel 2011, di Termini Imerese, mentre realizzava anche nuove delocalizzazioni in Polonia e in Serbia. Nel 2010 la crisi ha generato a Melfi i primi saltuari periodi di riduzione della produzione e di ricorso alla CIG (Cassa Integrazione Guadagni), mentre dall’autunno del 2011 il lavoro ha cominciato a ridursi sistematicamente in tre giorni lavorativi su sei per settimana, fino al febbraio del 2013, quando ha avuto inizio una nuova fase di lavoro a singhiozzo e di CIG straordinaria per ristrutturazione.

La condizione lavorativa degli operai e il conseguente senso del lavoro, nella lunga fase di contrazione della produzione e di passaggio al nuovo assetto aziendale, è stata contrassegnata dall’ingresso in una nuova diversa condizione di precarietà: essa rievoca negli accenti di incertezza quella che tutti i giovani operai ed operaie di Melfi conoscevano all’atto della loro assunzione in Fiat, nel 1994, quando avevano lasciato alle spalle, con una certa soddisfazione, molteplici esperienze di lavoro precario e a nero, per entrare finalmente in un lavoro con contratto a tempo indeterminato, tutelato e garantito; nella loro percezione, si è trattato di una svolta radicale, che aveva portato i ragazzi di Melfi a importanti passaggi esistenziali, come sposarsi, acquistare una casa, arredarla, acquistare l’auto, avere dei figli [D’Aloisio 2003].

Alla fine del 2011, dopo una prima fase di sollievo per l’obbligata riduzione dei ritmi di lavoro, l’etnografia coglieva, via via nei mesi successivi e con la prosecuzione della cassa integrazione, una contrazione sensibile del tenore di vita e una crescente preoccupazione per il futuro dell’azienda e per gli assetti lavorativi. In una fase lavorativa contraddistinta dalla nuova precarietà, in cui il futuro si profilava sempre più buio e incerto, è divenuto sempre più difficile per i lavoratori pensare all’attuazione di forme di conflittualità all’interno della fabbrica: rivendicare condizioni di lavoro migliori, protestare per la pesantezza di una postazione, lamentare un aumento indebito della velocità di linea è divenuto, nell’esperienza dei lavoratori, del tutto impraticabile, a fronte di esplicite reazioni, da parte di capi UTE o gestori, di tipo ostativo e ricattatorio: «Ti sta bene così? Se no vai a casa!» Questa minaccia è stata di fatto resa più realistica dal regime lavorativo della CIG, in cui si veniva chiamati a lavorare senza preavvisi, con un SMS del capo UTE inviato la domenica per il lunedì, o viceversa lasciati a casa, sempre senza preavvisi e senza motivazioni di volta in volta chiaramente esplicitate.

La ristrettezza materiale provocata dalla cassa integrazione prolungata (dal settembre del 2011 al 2013, con la cassa integrazione ordinaria, e poi lungo tutto il 2014, con la cassa straordinaria per ristrutturazione),[3] ha fiaccato gli operai e messo da parte, dunque, qualunque possibilità di contestazione o rivendicazione. Lo spettro dei licenziamenti, ma anche di una possibile chiusura dello stabilimento, ha aleggiato a lungo nelle vite dei lavoratori, la maggior parte dei quali con famiglie e mutuo della casa da pagare. La possibilità di entrare in conflitto aperto con i dirigenti e con l’azienda, per motivazioni come i carichi di lavoro o le generali condizioni del lavoro, divengano effimere, nonostante la velocità della linea abbia continuato ad essere alta, pure a fronte della riduzione della produzione e delle ore lavorative (un pressing esercitato proprio sfruttando il riposo forzato imposto dalla cassa integrazione). Anche altri disagi, dalle postazioni con problemi tecnici alle iniquità compiute talvolta dai capi (nell’assegnazione dei giorni di malattia, ma anche nei riposi e nella stessa organizzazione dei turni di cassa), temi classici di una contrattazione anche accesa, sono progressivamente passati in second’ordine: l’imperativo è lavorare, in qualunque modo e a qualunque condizione, “stringere i denti” e aspettare tempi migliori. Sperando che siano migliori.

Cronache del conflitto. I “ventuno giorni” e i licenziamenti disciplinari

Eppure, dinamiche anche fortemente conflittuali non sono estranee alla storia recente della fabbrica di Melfi: proprio alla scopo di rimarcarne la quiescenza attuale, è utile fare cenno a due di questi episodi, ovvero lo sciopero dei 21 giorni del maggio 2004 e, più recentemente i licenziamenti disciplinari di tre operai, Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, di cui i primi due delegati della Fiom, avvenuti nel 2010.

“E’ stato veramente un momento di coesione, di tutti quanti, eravamo tutti uniti, compatti, è stato un grande momento di democrazia: veramente un livello di democrazia, diciamo un momento di democrazia della base, proprio. Era la base che decideva: cioè, si faceva la riunione col microfono, si decideva per alzata di mano. (…) Veramente ti sentivi il protagonista della lotta, portavi proprio il tuo contributo in questa lotta, non era una chiacchiera: portavi proprio la tua partecipazione attiva, in prima linea...”

(Cristina, 50 anni, operaia montaggio, diplomata, un figlio, 2012)

Io ero seduta proprio nelle prime file, i poliziotti iniziarono a toglierci di peso, non iniziarono subito con le cariche, noi stavamo seduti, così, tutti stretti stretti ci tenevamo, tutti insieme, e questi poliziotti ci prendevano di peso e ci portavano via, e cercavano poi di farsi un varco. (…) Ma fanno paura, eh! Fanno paura veramente, perché tu vedi questi… si dispongono tutti davanti a te, veramente sembra…mamma mia, ora ci ammazzano! (…) E poi abbiamo ottenuto tante cose. Tante migliorie, l’eliminazione della doppia battuta, il premio Melfi di luglio, perché noi non avevamo la quattordicesima, l’annullamento dei molti rapporti disciplinari. E insomma in fabbrica si stava meglio, si respirava meglio. Insomma, i rapporti si sono un po’ più distesi, un po’ più umani. Abbiamo iniziato a lavorare bene, fino a qualche anno fa. Poi i toni si sono di nuovo modificati.

(Iolanda, 35 anni, diplomata, single, 2012)

Il racconto di Cristina fa riferimento allo sciopero scoppiato il 19 aprile del 2004 e conclusosi la sera del 9 maggio (21 giorni di blocco della produzione) e descrive la vicenda come è passata nei discorsi e nella memoria collettivi. Uno sciopero che ha rappresentato un evento unico nella storia della fabbrica locale, per durata ed estensione della protesta: cancelli picchettati e nessun operaio al lavoro, hanno testimoniato all’epoca una partecipazione massiccia, anche se con diverse modalità e intensità. Iolanda riferisce invece di un episodio interno allo sciopero, la carica della polizia, anche questa una durissima esperienza, nuova e sconosciuta non solo per i lavoratori Fiat di Melfi, ma nella storia stessa delle scarse attività industriali della zona.

Lo sciopero scoppiò nel 2004 a seguito di alcuni fermi ingiustificati della produzione, che colpivano a catena la Sata, partendo dalle fabbriche dell’indotto, ma fu in realtà il risultato di dieci anni di silente accettazione di condizioni di lavoro e stipendiali dure e mortificanti (basti pensare al regime di gabbie salariali rispetto alle fabbriche Fiat del Nord). Non c’è accordo, tra gli operai, sulla gestione sindacale dell’evento, sul ruolo di leadership più o meno esercitato dalla Fiom, che comunque negli anni precedenti aveva condotto poderose battaglie, pagando spesso proprio con i licenziamenti esemplari, come l’ultimo, quello di Barozzino e dei due colleghi del 2010, di cui si dice di seguito. L’ultimo perché il clima cambia proprio dal 2011, con la cassa integrazione e poi la successiva nuova configurazione societaria, che vede anche la ripresa della produzione a pieno regime, nel 2014, con due nuovi modelli di auto (Jeep Renegade e Fiat 500L).

Lo sciopero è una realtà che emerge nei racconti degli operai in forma vivida e intensa, ma non con le stesse modalità: per alcuni ha rappresentato un evento periodizzante e catartico, per altri invece riemerge sono dopo una mirata sollecitazione nell’intervista; alcuni operai si sono commossi, ricordando episodi particolarmente coinvolgenti, come la carica della polizia descritta da Iolanda. In quell’occasione, la deplorazione degli organi di stampa fu abbastanza diffusa, e per lo più le opinioni si concentrarono sulla cattiva gestione dell’ordine pubblico, essendosi trattato di un sit-in di operai, disarmati e non violenti, davanti ai cancelli, per impedire il passaggio e l’ingresso in fabbrica di un bus di tecnici destinati alla manutenzione degli impianti. In quell’occasione, la foto di una giovane delegata Fiom che offriva una margherita colta nel “prato verde” ai poliziotti del reparto celere in assetto antisommossa, fece il giro del mondo [D’Errico 2004].

Al di là delle diverse opinioni diffuse tra gli operai circa l’utilità e soprattutto gli esiti dello sciopero, considerati anche gli accordi che ne conseguirono, non proprio risolutivi delle dure condizioni di lavoro, è rinvenibile comunque un tono di fondo comune nella rielaborazione di quell’evento: una cosa che andava fatta, un atto necessario, anche tardivo per i più accesi sostenitori, ma una decisione che andava comunque sostenuta e rispettata, anche per coloro che non picchettavano i cancelli, né passavano le notti in bianco fuori dello stabilimento, ma più semplicemente da casa attendevano notizie sull’evoluzione degli avvenimenti. Tutti ricordano la solidarietà del paese, di una parte dei politici locali, persino della curia di Melfi, come pure le vettovaglie e la legna per scaldarsi, arrivate come segno di solidarietà da parte di vari donatori. Non solo la stampa, ma anche più tardi il sindacato, hanno riportato le appassionate testimonianze dei partecipanti [Ferrero, Lombardi 2004]. Possiamo ragionevolmente dire che lo sciopero ha costituito l’unico momento della storia della fabbrica in cui, nella terminologia marxiana, gli operai si sono coagulati in quanto classe per sé, dotati di una auto-coscienza di classe, uniti e partecipi, seppure in diversi gradi e con diversa forza, per il riscatto del lavoro e di sé stessi nel lavoro. Da quel momento in poi, dopo la fase di pace che durò un po’ di mesi, secondo alcuni anche qualche anno, il conflitto si individualizza, per così dire, e al contempo si sposta sul più ampio piano nazionale, assumendo i toni della lunga battaglia tra Fiat e sindacato (la Fiom), finita nelle aule giudiziarie, a colpi di sentenze e di atti manageriali forti, che arriverà fino ad escludere e negare il diritto di rappresentanza in azienda ai delegati Fiom.

Il licenziamento di Giovanni Barozzino, delegato Fiom eletto con il maggior numero di voti, cui si aggiunge quello dei suoi compagni di lavoro Lamorte e Pignatelli, nell’estate del 2010, ha rappresentato il culmine di un conflitto volto specificamente, questa volta, a colpire il sindacato più radicale ed oppositivo e a modificarne nella sostanza la configurazione e la capacità di azione.

Le vicende di licenziamento nella storia Fiat sono tutt’altro che nuove o isolate: solo per restare al caso di Melfi, a partire dal 1994 (col licenziamento del delegato Fiom Paolo Laguardia), una serie di licenziamenti ha segnato le punte più acute di un contenzioso che per lo più ha riguardato la Fiom e i vertici aziendali, ma anche rappresentati di sindacati autonomi (Cub e Cobas). Il licenziamento Barozzino, avvenuto nel 2010, si colloca però in un momento capitale dell’esacerbarsi delle relazioni aziendali, dal momento che in quell’anno avvenne la firma degli accordi separati prima per Pomgliano e poi per Mirafiori (firmati dalle sigle sindacali senza la Fiom), accordi poi divenuti sostitutivi dell’accordo nazionale, ratificati con due referendum (rispettivamente, nel 2010 a Pomigliano e poi a Mirafiori nel 2011), preparando il terreno per l’esclusione dei delegati Fiom dalle aziende, con un cavillo legale, nel 2012.[4] In questo complesso scenario, che non è possibile riassumere qui, il licenziamento di Giovanni assume davvero un valore esemplare e didattico, per così dire, che intende segnare la fine di un tipo di azione sindacale oppositiva e conflittuale, con un esplicito monito relativo alla conservazione del posto di lavoro. L’opinione diffusa, durante la mia prima fase di campo nell’autunno del 2011, si caratterizzava per un generale consenso verso il comportamento dell’operaio e viceversa per la stigmatizzazione del comportamento aziendale. Nei confronti di Giovanni ho avuto modo di raccogliere solo opinioni positive: “una persona seria”, “un lavoratore”, uno che il sindacato lo faceva davvero”. Al di là dell’accusa che nello specifico è stata rivolta a Barozzino, ovvero il presunto blocco di un carrello da trasporto (e quindi della produzione) durante il turno di notte del 7 luglio del 2010 [Barozzino 2011], la vicenda giudiziaria che ne è seguita è essa stessa indicativa della sproporzione di forse in campo, della prova di forza esercitata dall’azienda, ed è utile ricordare che si è conclusa, con sentenza della cassazione del 31 luglio del 2013, con la condanna del licenziamento e il reintegro dei tre operai.

I due casi, solo brevemente descritti, esprimono i momenti culmine, nella storia della fabbrica, del conflitto frontale tra azienda e lavoratori: nel primo caso, uno sciopero alla vecchia maniera, per così dire, porta gli operai a prendere coscienza, per la prima volta, della propria forza come classe coesa e oppositiva, in grado di contrastare la durezza del sistema lavorativo aziendale; si è trattato di un evento periodizzante, nella memoria di buona parte dei lavoratori, anche se significativamente, per alcuni, i peggioramenti degli anni a seguire, ovvero il ritorno ad un duro regime lavorativo e la stessa contrazione della produzione, avrebbero costituito una sorta di ritorsione da parte aziendale, quasi una legge del contrappasso. La vicenda Barozzino, invece, può ragionevolmente essere letta come un tassello, un importante tassello, della strategia nazionale di riduzione del potere della Fiom di contrastare l’organizzazione del lavoro: in questo più vasto quadro nazionale, la punizione esemplare locale inflitta a Giovanni e ai suoi compagni, ha di fatto avuto l’effetto preordinato, quello cioè di scoraggiare (se non propriamente eliminare) una pratica sindacale radicale e oppositiva.

Polverizzazione del conflitto e nuova precarietà nell’Azienda globale. Quando il lavoro confligge con la vita

No, per qualunque cosa da risolver, me la vedo io! E poi perché sono una ragazza che ha sempre lavorato, cioè non ho dato mai problemi, hai capito? Quindi non mi toccano, perché toccano le persone che danno fastidio. Ora siamo arrivati al punto che licenziano: hai sentito? Ora licenziano proprio! Cioè prima non esisteva, per farti un rapportino disciplinare, non se ne fregavano proprio, tipo se ti fai una tirata di sigaretta sulla linea, o parli con un’amica… Prima non ti vedevano proprio, ora non puoi nemmeno parlare, non ti puoi neanche muovere da qua a un metro per andare dall’amica a parlare… E’ diventata una cosa! I sindacati zero! Cioè, non contano niente. Ora siamo arrivati che devi lavorare, devi fare il lavoro tuo, devi stare per i fatti tuoi e basta, perché se ti trovano una cosa… è perché ti devono licenziare! La minima cosa ti mettono alle strette, tre rapporti disciplinari, ti cacciano. (…) ci so’ stati tanti licenziamenti, ultimamente, quei tre ragazzi… Quei tre ragazzi non c’entrano proprio niente! Però il fatto è che erano della Fiom, erano casinisti e gli anno fatto la festa!

(Irene, 41 anni, tre figli, divorziata, licenza media, operaia montaggio, 2012)

Con la trasformazione dell’azienda in FCA, completata nel 2014, i datori di lavoro, la proprietà dell’azienda, il management si sono trasformati in entità sempre più anonime e diffuse, distanti, sempre meno individuabili nella loro identità e nella loro collocazione. La specificità della fase della globalizzazione che stiamo vivendo, secondo quanto sottolineato da G. Standing, è «l’odierna frenesia» secondo cui le stesse imprese sono divenute merci e sono sempre più vendute e acquistate in base a fusioni e acquisizioni, producendo quale effetto immediato la riduzione del valore degli impegni assunti dai loro proprietari, dal momento che, nel corso di questi rimaneggiamenti, gli stessi assetti proprietari e del management possono non essere più gli stessi [Standing 2011, 54]. Direttamente collegata a quella che Standing chiama la mercificazione dell’impresa è dunque l’aumento dell’insicurezza dei lavoratori, che può riguardare sia la perdita di talune garanzie nel lavoro sia la minaccia di perdere il posto stesso di lavoro, perché l’azienda per cui lavoravano è stata rilevata o anche perché è fallita e riconvertita, mentre l’emissione di azioni, divenuta una pratica comune, accresce la costante probabilità di rilevamento delle aziende (la mercificazione, appunto). In questo scenario, ovviamente, il ruolo del sindacato locale si restringe e perde senso, tanto nelle sue capacità di mediazione quanto nella sua portata di conflittualità, dal momento che non è più a livello locale, né soltanto nazionale, che si decidono le sorti della produzione e gli assetti del lavoro.[5]

Un aspetto essenziale a Melfi, inaspritosi nella fase attuale, è il rapporto con i capi, il controllo sul lavoro e il più generale clima di fabbrica, che è diventato sempre più teso e fortemente condizionato dalla consapevolezza del rischio costante di una riduzione del personale, o di un’improvvisa delocalizzazione. E’ evidente che in questi termini qualunque focolaio di conflitto sul lavoro viene accantonato in partenza dai lavoratori, sia per il timore di divenire scomodi e dunque più esposti al licenziamento (come appunto nel caso di Barozzino), sia perché nello stesso circuito di precarietà e ricatto sono inclusi anche i capi con cui direttamente si contratta, capi UTE e gestori operativi, i terminali ultimi del comando sul lavoro. Nei racconti dei lavoratori le definizioni di caserma, di paura, di clima di lavoro da “fiato sul collo” sono costanti, e riflettono una fase aziendale dove, mentre si continua a spingere sull’intensità del lavoro, si insiste sulla paura della crisi e delle trasformazioni in atto per esercitare un controllo più duro, per eliminare forme di opposizione e quindi qualunque potenziale conflittualità [D’Aloisio 2013, 2014].

A giustificare lo sfumare di un conflitto frontale per il lavoro, un secondo aspetto riguarda il senso che il lavoro assume nelle esistenze dei lavoratori, sempre più configurato come nuova fonte di precarietà e di insicurezza e sempre meno coerente con dimensioni esistenziali di sicurezza e stabilità, caratteristiche che, solo qualche decennio, fa risultavano ascrivibili al lavoro in quanto tratto portante dell’identità e dell’esistenza [il lavoro cosiddetto maiuscolo: Accornero 2000]. Questa nuova dimensione di precarietà, sfuggente nelle sue cause immediate e nei suoi esiti futuri, delinea sempre più nei lavoratori una dimensione esistenziale di contrazione del quotidiano e di abbreviazione della prospettiva futura: le sue caratteristiche sono l’impossibilità di fare programmi di più lunga scadenza, di impegnare denaro per spese e investimenti, di proiettare l’esistenza in un corretto orizzonte temporale di crescita della vita personale e familiare. La letteratura sul lavoro ha da tempo rimarcato i caratteri crescentemente insicuri di un lavoro che si indebolisce e si precarizza, che esonda i limiti della razionalità economica, poiché non si tratta più di un fenomeno interamente monetarizzabile né praticabile nella sola sfera pubblica [Gorz 1992]; un lavoro che incarna una nuova flessibilità che rompe la linearità del tempo, spiazza le azioni nel lungo periodo e corrode la personalità [Sennet 2000]; un lavoro, da ultimo, che, nella perdita delle sue certezze consolidate, declina verso una società del rischio [Beck 2000). Quello stesso lavoro che, all’atto dell’assunzione a Melfi, aveva tutti i tratti del lavoro maiuscolo, stabile, definitivo, pregnante dell’identità e perno dell’esistenza torna dunque a delinearsi, come un lavoro non più in grado di garantire stabilità dell’esistenza e coerenza identitaria. E’ in questo senso, dunque, che il lavoro confligge con la vita: per la sua durezza nella quotidianità e per la costante incertezza relativa al futuro.

In queste condizioni di sfondo, l’idea di contestare, eventualmente fino allo scontro, perde di significato, nella misura in cui non è chiara né la controparte né l’idea che il lavoro per il quale si combatte possa permanere, anche a breve termine, nelle stesse condizioni e persino nello stesso luogo. Questa consapevolezza, ormai abbastanza diffusa a Melfi, cambia lo scenario della contrattazione, della rivendicazione, persino dell’aspirazione a condizioni di lavoro diverse. Allo stesso tempo, modifica ovviamente il significato del lavoro, sempre più instabile e contingente, fuori della possibilità di controllo:

… Perché quando un’ azienda chiude qua per andare all’estero, non è una cosa che si fa per l’emancipazione delle persone, qua mi togli lavoro, perché quando un’azienda chiude qua per andare là, non è che dice è aperto là, è aperto pure qua! No. Non è un di più, è una sostituzione del lavoro che fai in Italia, lo porti là, mi porti in povertà l’Italia, perché l’economia si basa su due fattori, la domanda e l’offerta, se mi togli la domanda, dell’offerta che fai? (…) Se si dà tanta forza all’economia finanziaria, che è quella che succhia dal lavoro, è una sanguisuga, succhia il lavoro, è un parassita… Allora, quello bisogna eliminare, e dare più forza al lavoro. E anche se ci sono delle belle differenze tra un lavoratore dipendente e uno autonomo, però io dico che per come va adesso, dipendente e autonomo siamo nella stessa barca.

(Alberto, 44 anni, licenza media, coniugato, un figlio, operaio montaggio, 2013)

Conclusioni

Nel quadro attuale di quella che Peter Marsh definisce una nuova rivoluzione industriale, la produzione manifatturiera, pur vedendo diminuire il numero degli addetti a livello mondiale, continuerà ad esercitare una forte influenza nell’economia mondiale, riconfigurando però radicalmente i suoi assetti [Marsh 2012]. Dalle biotecnologie alle nanotecnologie, nuove competenze e abilità vanno a costituire il core tecnologico della produzione industriale, in maniera più strettamente interrelata che un tempo. In quella che Marsh definisce «un’epoca di democrazia industriale nel senso più stretto» [ivi, 215], molti più paesi parteciperanno, a suo avviso, all’espansione produttiva e alla diffusione di nuovi prodotti in qualità di consumatori. Avremo dunque sempre meno una netta divisione tra paesi produttori e paesi consumatori, e anche l’attuale produzione concentrata in paesi a basso costo sarà affiancata in misura crescente da nicchie produttive a più alto costo nel vecchio Occidente, dove sarà utile mantenere alcune specifiche produzioni. Su quali gradini della scala, e quindi a quali livelli di dominio/subalternità si collocano, di volta in volta, i soggetti produttori (le imprese), i lavoratori, i consumatori, per quanto globalmente più dispersi e mutuamente intercambiabili, è però un interrogativo che l’autore non pone.

Per quanto attiene al lavoro, Enrico Moretti disegna uno scenario in cui, partendo dal caso statunitense, la sua distribuzione mondiale procederebbe sempre più per specializzazioni e concentrazioni di specializzazioni, spazialmente localizzate, a partire dalla possibilità/abilità di ciascuna area di offrire le migliori opportunità di localizzazione, in base a variabili nuove e mutevoli [Moretti 2013]: più che le risorse ambientali o la disponibilità di manodopera idonea, Moretti individua novi attrattori, soprattutto per le imprese ad alta specializzazione, quali la presenza di venture capitalists, ma anche di spillover della conoscenza, che promuovono la concentrazione garantendo il rafforzamento della specializzazione, in una spirale che si alimenta in maniera circolare.

Resta dunque aperta la questione, in questo scenario complessivo, se il conflitto, storicamente configurato come lotta di classe sia ancora la cifra del lavoro industriale manifatturiero, se tale cifra sia stata superata dai nuovi assetti delle imprese e del lavoro, ma anche delle “classi”, e in questo caso quali nuove forma assumerà il conflitto centrato sul lavoro; oppure, in base alla tesi di Luciano Gallino, resta da chiedersi se la lotta di classe non si sia semplicemente trasformata, più che nella sua sostanza, nel suo vettore di direzione, spostandosi verso le classi alte, nella forma di una controffensiva di queste verso la classe operaia e le classi medie, con una forte redistribuzione del reddito verso l’alto, crescenti interventi normativi a tutela di questi redditi e un forte aumento delle diseguaglianze globali [Gallino 2012; Revelli 2014].[6] In questo caso, resta da capire se e come potranno strutturarsi nuove forme di conflitto, o se invece il conflitto debba essere considerato una frontiera superata, sotto la spinta, alquanto ricattatoria, della penuria di lavoro, dei contratti sempre più flessibili, della crescente riduzione delle tutele legislative: tutto questo tenendo conto delle nuove dinamiche, sempre più sperequate, della distribuzione del lavoro a scala mondiale e delle differenti possibilità di accesso ad esso che si vanno ridisegnando.

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[1] La sociologia del lavoro, che più si è occupata del tema della trasformazione della classe operaia, presenta alcuni interessanti studi empirici recenti, come quello curata da Cecilia Cristofori [2009] e quello di Giuliana Commisso [2004]. Anche De Masi [2010] ha di recente sottolineato come la presunta scomparsa del conflitto vada analizzata nella sua connotazione ideologica, e con una spinta a individuarne piuttosto le nuove forme.

[2] Sui sistemi di metrica del lavoro, introdotti in Fiat a partire dal contratto del 1971, si è espresso con chiarezza Claudio Serpico, nel cui giudizio l’ultimo sistema, il cosiddetto Ergo UASS, proposto come un miglioramento dell’ergonomia del lavoro, si trasforma comunque, all’interno di un sistema di lavoro meccanizzato, in una maggiore efficienza dell’interazione tra operaio e macchina, al fine di rendere l’azione dell’operaio quanto più possibile sottomessa a quella della macchina [Serpico 2013].

[3] La fase di ricerca di campo cui si fa riferimento è iniziata nell’autunno del 2011 ed è proseguita, con soggiorni prolungati a singhiozzo, fino al 2014. La fase precedente, che fa da sfondo complessivo ed è anche parte di una più mirata prospettiva di ricerca longitudinale, risale invece agli anni 1999/2002.

[4] Per la complessa vicenda sindacale in Fiat si rinvia a Garibaldo 2013, Antunes 2015 (specie i capp. 3 e 4, pp. 75-101)

[5] Ricordiamo solo che il primo gennaio 2012 la Fiom e le sue rappresentanze sindacali sono state estromesse dagli stabilimenti Fiat, trattandosi di un sindacato non firmatario degli accordi [Garibaldo 2012; Perra 2012]. La sentenza 231 della Consulta del 3 luglio 2013 ha riconosciuto il diritto di rappresentanza alla Fiom. Essa continua tuttavia a vivere, negli stabilimenti italiani FCA, forme di esclusione e di ostracismo, come espresso con chiarezza dai delegati sindacali nelle interviste.

[6] Marco Revelli sostiene che l’idea che «un eccesso di eguaglianza faccia male all’economia» ha alimentato le politiche di deregulation prevalse nell’epicentro anglo-americano e da qui diffusesi a livello globale [Revelli 2014, 3-4]. Egli ricorda inoltre come tali principi abbiano ispirato gli insegnamenti economici di università ed istituzioni, dopo la definitiva rottura della precedente idea regolativa, fondata sull’eguaglianza, che aveva ispirato le carte costituzionali e le politiche pubbliche dell’Occidente democratico.