Mediare conflitti o resistere alla crisi?

Servizio civile all’estero, tra “Obiezione di coscienza” e “Garanzia giovani”

Sebastiano Miele


Abstract.  In line with the Conscientious Objection, the Voluntary Civilian Service (Italian Law 64/2001) comes as a means of Civil disobedience and nonviolent defence. It aims to promote solidarity, cooperation and education to peace through the mediation of the conflicts. Lately it’s becoming to be rather perceived as a means of countering the youth unemployment and "staff shortages" of different institutions. After a brief historical overview, the paper focuses the analysis on people recently holding their Service abroad. Special attention is devoted to a sort of anthropological dimension that seems positively characterize this experience in recent years.

Keywords.  Conscientious Objection; Civilian Service; mediation of conflicts; Youth Guarantee; ethnography of thought

Journal. EtnoAntropologia, 3 (2) 2015

La legge italiana n. 64 del 2001 istituisce il Servizio Civile Nazionale Volontario, che può essere svolto in Italia o all’estero. Sulla scorta della storia dell’obiezione di coscienza, esso nasce come mezzo di difesa civile non violenta, per promuovere solidarietà, cooperazione ed educazione alla pace attraverso la mediazione dei conflitti. Negli ultimi anni, l’infelice congiuntura economica e la forte diminuzione dei posti messi a bando, stanno mettendo in discussione queste sue finalità. Il rischio è che venga percepito principalmente come un mezzo per contrastare la crisi di occupazione giovanile e la carenza di personale di molti enti pubblici e privati. In questa sede si rifletterà in particolare sul servizio svolto all’estero, cercando di metterne in luce gli aspetti che oggi lo contraddistinguono maggiormente. Analizzando il pensiero dei giovani partiti negli ultimi anni, si rifletterà su come sia possibile scorgere, in queste esperienze, una dimensione antropologica, di incontro e scoperta della diversità culturale. Dimensione che pare caratterizzare positivamente il servizio civile all’estero e che sarebbe forse da approfondire e valorizzare, anche in virtù delle incoraggianti conseguenze sui giovani, che sembrano trarne beneficio e affrontare il futuro con maggior fiducia.

La storia del Servizio Civile Nazionale affonda le sue radici nella storia dell'obiezione di coscienza di cui è il naturale erede in un rapporto di continuità che non lascia né vuoti né rimpianti.

Così recita la frase di apertura del sito istituzionale del servizio civile alla sezione Storia. Tale presentazione impone quantomeno un breve richiamo alla storia dell’obiezione di coscienza, che fu resa legale nel 1972 dalla legge n. 772. Dal 1948, entrata in vigore la Costituzione Italiana, qualunque cittadino avesse rifiutato di prestare servizio militare sarebbe stato prima arrestato poi processato. Quasi certamente ne sarebbe scaturita una condanna, che comunque non avrebbe estinto il reato. Frequenti erano i casi in cui si ripeteva più volte il circolo vizioso costituito da rifiuto, processo, condanna, esecuzione, condanna, nuova chiamata alle armi [Righi 2004; Battistelli 2004]. Il reato commesso andava contro l’articolo 52 della Costituzione, il quale sanciva che "la difesa della patria è sacro dovere del cittadino e il servizio militare è obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge", non contemplando alcuna forma di contrapposizione. Negli anni, un insieme di circostanze, mobilitò l’opinione pubblica che cominciò gradualmente a guardare gli obiettori senza ostilità. Le principali furono la presenza in carcere di circa 150 giovani oppositori al servizio militare e la nascita di gruppi che rivendicavano il diritto all’obiezione di coscienza, tra cui il Gruppo d’azione non violenta nel 1963 e la Lega per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza nel 1969. L’organizzazione delle stesse in manifestazioni di protesta di fronte al Parlamento e ai Tribunali militari ebbe impatto anche sulla classe politica, che nel dicembre del 1972 giunse all’approvazione della legge “Marcora”. Si trattava di una legge che considerava l’obiezione di coscienza non come un diritto, ma un modo di effettuare il servizio militare in maniera alternativa [Righi 2004]. La domanda di obiezione andava sottoposta allo stesso Ministero della Difesa, con evidente conflitto d’interessi, dopo che un’apposita Commissione ne aveva precedentemente valutato la sincerità. Solo nel 1985, con sentenza del Consiglio di Stato, si limitarono i poteri della Commissione, vincolandoli al solo accertamento della presenza di circostanze oggettive che contrastassero con l’obiezione, come il possesso di una licenza per la detenzione di armi o carichi penali per porto abusivo di armi [Albesano 1993]. Tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, la Corte Costituzionale si pronunciò varie volte in merito all’obiezione di coscienza. Tuttavia, il suo pieno riconoscimento giuridico fu sancito solo nel Luglio 1998, con l’approvazione definitiva da parte del Senato della legge n. 230, Nuove norme in materia di Obiezione di Coscienza. La legge, che rese l’obiezione di coscienza un diritto della persona e non mera concessione di un beneficio [Cipriani 1998], introdusse anche il concetto di Servizio civile Nazionale, contemplando per la prima volta la partecipazione femminile. In seguito, con l’approvazione della legge Norme per l’istituzione del servizio militare professionale del novembre 2000, anche l’Italia si avviò ad adottare, come altri paesi europei quali Olanda, Belgio, Francia, Spagna e Gran Bretagna, un esercito composto esclusivamente da volontari/professionisti. E con l’approvazione della legge 64 del 2001, che istituì il Servizio Civile Nazionale, si aprì definitivamente una nuova fase: quella di un modello di servizio civile non più basato sull’obbligatorietà, ma sulla disponibilità dei giovani a dedicare una parte della loro vita al servizio di progetti proposti da Enti non lucrativi pubblici e privati [Filippini, Grandi 2003]. Ma i riconoscimenti introdotti dalle leggi 230/98 e 64/2001 giunsero anche grazie alle azioni di disobbedienza civile di obiettori di coscienza in servizio che, pur in assenza di una normativa che regolamentasse l’espatrio, si recarono fuori dai confini nazionali senza autorizzazione, per sostenere progetti umanitari e di promozione della pace, soprattutto durante il conflitto nei territori della Ex-Jugoslavia.

Oggi per candidarsi ad un progetto di Servizio Civile Nazionale occorre avere tra i 18 e i 29 anni ed essere in possesso della cittadinanza italiana (seppur diverse sentenze abbiano giudicato incostituzionale questo requisito). I giovani selezionati percepiscono 433,80 euro mensili, a cui si aggiungono 15 euro al giorno nel caso dei progetti svolti all’estero. I progetti hanno durata annuale, per un totale di 1400 ore complessive, corrispondenti a un impegno medio di 30 ore a settimana.

A partire dal 2001 il numero di posti banditi è andato aumentando fino a quando, nel 2006, si è raggiunta la quota più alta di volontari per anno, poco meno di 46.000. Da allora il numero è calato, scendendo fin sotto i 20.000 posti. Nel 2011, poi, e anche nel 2013 (con la sola eccezione di alcuni bandi straordinari come quelli legati al sisma emiliano) non è stato pubblicato alcun bando di servizio civile.

Seppure nell’anno in corso dovrebbe essere ormai quasi certa la pubblicazione di un bando con un aumento del numero dei posti, è facile immaginare che questo calo di attenzione degli ultimi governi non può non aver avuto un certo impatto sugli enti storicamente legati al servizio civile. Il calo dei posti disponibili ha contribuito all’aumento, ormai esponenziale, dello squilibrio strutturale tra domanda e offerta di servizio civile. Uno squilibrio molto evidente al Centro e al Sud, che negli ultimi anni si sta verificando anche nelle regioni settentrionali dove, nel caso dei bandi speciali per il terremoto emiliano, si è registrato un notevole incremento del rapporto tra domande e offerta: sei domande presentate per ogni posto disponibile.

Questo squilibrio è ancora più accentuato nel caso del servizio civile all’estero. I dati in possesso del Coordinamento Provinciale degli Enti di Servizio Civile di Bologna, ad esempio, mostrano come gli enti bolognesi che propongono progetti all’estero abbiano, in certi casi, ricevuto fino a venti domande per ogni posto disponibile [Giannoni, Miele 2013].

Nel generale mutamento di contesto avvenuto dal 2001 può dunque essere utile chiedersi se ha ancora senso parlare di servizio civile come “naturale erede” dell’obiezione di coscienza. Che cosa è rimasto dello spirito degli obiettori nelle esperienze dei giovani che lo svolgono negli ultimi anni, soprattutto all’estero? E cosa pensano di quest’esperienza, nata come mezzo di mediazione di conflitti, i giovani che la vivono in questa particolare congiuntura di crisi economica?

A simili domande, tra le altre, hanno cercato di rispondere diverse ricerche, molte delle quali condotte e realizzate col supporto di diversi enti dell’Emilia-Romagna, storicamente una delle regioni più sensibili alle vicende del servizio civile [Iannoni 2014; Filippini 2007]. Di queste ricerche, un paio, realizzate seguendo un approccio di etnografia del pensiero [Geertz 1982; Lazarus 1996 e 2001; Romitelli 2005; Miele 2014] orientano la maggior parte delle riflessioni che seguiranno. Se il primo di questi lavori [Giannoni, Miele 2013], focalizzato su progetti svolti nella provincia di Bologna, contribuisce in generale alle tesi del presente articolo, il secondo [Miele 2012], relativo a progetti svolti all’estero, verrà ampiamente ripreso e analizzato. Si tratta di una ricerca realizzata tramite interviste in profondità che hanno coinvolto sei responsabili di enti emiliano-romagnoli con progetti di servizio civile all’estero e quattordici giovani partiti negli ultimi anni. I giovani intervistati erano partiti coi bandi pubblicati tra il 2006 e il 2011 ed avevano svolto il loro servizio in Albania, Bangladesh, Cile, Lituania, Kossovo, India, Ruanda, Zambia, Ecuador, Brasile.

Per inquadrare meglio alcuni aspetti che emergono dal pensiero degli intervistati occorre partire da alcuni fattori che sembrano aver contribuito a creare una sorta di situazione di stallo del servizio civile negli ultimi anni. Il primo di questi è messo ben in evidenza soprattutto dalle parole dei responsabili intervistati. “Burocrazia”, “specificità”, “rigidità”, mancanza di “flessibilità” sono i concetti più utilizzati per spiegare alcuni dei nodi in cui resta imbrigliato il servizio civile all’estero. Tutti i responsabili intervistati auspicherebbero dei progetti più “flessibili”, ma la scheda per la presentazione dei progetti predisposta dall’Ufficio Nazionale per il servizio civile richiede di indicare, in maniera molto specifica, tutte le attività in cui potranno essere coinvolti i ragazzi, che dovrebbero poi occuparsi solo di quanto è stato effettivamente dichiarato. Nella maggior parte dei casi i responsabili di servizio civile dei diversi enti, pur avendo seguito dall’Italia i giovani in servizio all’estero, hanno imparato a conoscerli abbastanza bene e giudicano le loro esperienze e il loro operato molto positivo. Per questo, secondo loro, lasciare più margine di azione ai volontari, non “ingabbiandoli” in progetti troppo rigidi e dettagliati potrebbe apportare dei cambiamenti positivi.

Alla rigidità di progettazione si aggiunge un aspetto ancora più scoraggiante per i responsabili, che è legato ai tempi di attuazione del progetto. Ovvero i tempi che trascorrono dal momento della presentazione del progetto fino all’effettiva partenza dei volontari. Gli enti possono presentare progetti solo durante l’apertura degli appositi bandi di progettazione, all’Ufficio nazionale o regionale per il servizio civile. Questi li esaminano e predispongono delle graduatorie. Nel limite dei fondi stanziati annualmente, i progetti che ottengono i punteggi più alti vengono poi finanziati ed inseriti nei bandi per la selezione dei volontari, pubblicati nella Gazzetta ufficiale della Repubblica. Questo processo dura mediamente un anno mezzo. Ciò significa che le attività di cui dovranno occuparsi i volontari vanno programmate con almeno 18 mesi di anticipo, il che sembra paradossale agli occhi di chi si occupa di scrivere progetti rivolti a contesti che potrebbero subire dei cambiamenti significativi da un momento all’altro. Con questa situazione, spiega bene un responsabile, non si può che puntare su progetti legati a realtà consolidate da anni, per avere la certezza che tutte le condizioni restino il più possibile invariate, perché non c’è possibilità di apportare modifiche relative al momento nel quale si va a operare:

Tendenzialmente tentiamo di presentare progetti che abbiano una vita abbastanza lunga proprio per ragioni legate ai tempi del servizio civile perché, dalla presentazione alla messa in atto del progetto, passano più o meno un paio d’anni e quindi si punta su progetti che sappiamo avranno ancora ragione di esistere sul lungo periodo. Purtroppo è un po’ brutta come cosa, però non si ha la libertà di apportare eventualmente modifiche relative effettivamente al momento nel quale poi si va a operare.

Altro aspetto che influisce sulla situazione di stallo della progettazione è legato al processo di accreditamento delle sedi. Tutti gli enti che intendono presentare progetti di servizio civile, in Italia o all’estero, devono sottoporsi ad una procedura di accreditamento atta all’iscrizione in un albo nazionale o regionale (a seconda delle dimensioni territoriali dell’ente). Accreditarsi significa dimostrare di possedere i requisiti strutturali e organizzativi per gestire progetti di servizio civile ed ospitare i volontari. Questo vuol dire che ciascun ente può presentare progetti esclusivamente nelle sedi che risultano accreditate. A questo proposito, il responsabile di servizio civile di un altro ente descrive chiaramente cosa si è verificato negli ultimi anni ed i rischi che questa situazione comporta:

Purtroppo, da questo punto di vista, essendo chiuso l’accreditamento di nuove sedi da diversi anni, è impossibile modificare la progettualità. Ad esempio, se io volessi scrivere un progetto in Ruanda, dove noi abbiamo una presenza come ente, non potrei farlo perché non esiste una sede accreditata e sono tre anni che non è possibile accreditare sedi. Per cui siamo costretti a proporlo in quelle realtà in cui sono già anni che lo facciamo. Questo è molto rischioso. Il rischio è che il servizio civile non sia per fare un progetto ma diventi quasi strutturale all’interno di una presenza in un altro stato.

È evidente, dunque, come in questa situazione sia minata la stessa logica del progetto. I giovani in servizio all’estero possono essere percepiti dalla stessa controparte locale come una presenza strutturale dell’ente. Una presenza che serve sostanzialmente a portare avanti, anno per anno, le stesse attività, seppur con un ricambio annuale dei giovani che se ne occupano.

In proposito occorre notare che, con la circolare del 23/09/2013, Norme sull'accreditamento degli enti di servizio civile nazionale, l’Ufficio Nazionale ha modificato il sistema basato sulle “finestre” di accreditamento. Gli enti ora possono chiedere di accreditarsi o, se già accreditati, effettuare delle modifiche (come l’inserimento di nuove sedi) in qualsiasi momento. Gli esiti di questo nuovo sistema saranno forse meglio valutabili tra qualche anno, ma è indubbio che, per il momento, gli enti di servizio civile, abbiano accolto positivamente questo cambiamento atteso da anni.

Certamente questa situazione di stallo, di cui abbiamo visto alcune cause, ha avuto degli effetti e delle ripercussioni sul tipo di esperienza che il servizio civile all’estero rappresenta oggi per i giovani, oltre all’eredità storica dell’obiezione di coscienza e degli obiettori che partivano all’estero senza autorizzazione, spinti soprattutto dall’urgenza della promozione della pace e della mediazione dei conflitti. Uno degli aspetti più interessanti in questo senso, messo bene in luce dalle parole dei giovani partiti negli ultimi anni, è quanto il servizio civile possa risultare un’esperienza in un certo senso “antropologica”. Si tratta probabilmente di una delle poche possibilità per i giovani italiani di fare esperienza diretta e approfondita della relatività culturale. Parole legate al concetto di “diversità” sembrano identificare in modo trasversale tutte le esperienze dei giovani intervistati. Seguendo la definizione offerta da una volontaria, si può parlare di una “diversità che comprende una quantità infinita di cose”. In alcuni casi si tratta di una “visione diversa”, “un altro tipo di pensiero”, la consapevolezza delle “diversità che esistono nel mondo”, come si può notare dagli esempi di altri volontari, convinti anche che tutto ciò possa generare delle conseguenze positive in Italia:

Nella maggioranza dei casi torniamo in Italia e questo è poi il contesto dove possiamo mettere in pratica concetti ed esperienze sperimentate lì: io penso che sicuramente avrei una visione diversa adesso se non avessi fatto il servizio civile.

Quello che guadagna l’Italia si vedrà nel futuro o nel cambio di generazioni, se questo servizio civile avrà una continuazione, perché chi non ha fatto il servizio civile ha un altro tipo di pensiero.

Io mi auguro che l’Italia ricavi cittadini più consapevoli. Consapevoli della diversità delle differenze e pluralità che esistono nel mondo.

Le loro parole mostrano, inoltre, come il servizio all’estero rappresenti un’occasione per i giovani di fare qualcosa di nuovo e diverso ma, soprattutto, che li rende diversi da chi non la fa. Ciò può avvenire perché, come afferma un altro ragazzo, quella che ci si trova di fronte inizialmente può essere una realtà davvero molto lontana da quella di provenienza: «L’inizio è stato un impegno molto grande soprattutto perché la realtà di fronte a me era molto diversa da quella che avevo sempre visto.»

La “scoperta” di questa realtà è spesso descritta dai giovani come uno degli aspetti più appassionanti delle loro esperienze. In molti casi si parla di “altri modi di fare”, “altri schemi mentali”, “una vita inimmaginabile” in “mondi completamente diversi” dal proprio paese, in cui “nulla era scontato”. Ecco un paio di esempi in proposito, tra cui quello della volontaria di cui abbiamo già visto la precedente definizione di diversità:

Mi ha appassionato la scoperta. La scoperta della diversità, di tutto. Sia del luogo, dei colori, delle cose, del mondo attorno a me. Sia le persone, la cultura, l’educazione, il modo di usare le parole, i gesti: tutto un mondo intero diverso da quello a cui sei abituata da quando sei nata!

La diversità, era tutto da scoprire, praticamente niente da dare per scontato: questo è appassionante per me, di sicuro. Poi la scoperta quotidiana di mille dettagli, ma anche cose piccole […] la loro vita religiosa […] Questa in realtà è solo una parte di quello che dicevo prima della diversità che comprende una quantità infinita di cose…

Molte altre parole utilizzate frequentemente dagli intervistati restituiscono il senso antropologico dell’esperienza di servizio civile. Tra queste le più evidenti sono legate a concetti come “interpretare”, “punti di vista diversi”, e anche un “diverso sguardo sugli immigrati”. E proprio mettere in discussione il proprio punto di vista, durante tutto l’anno di servizio, è ritenuto un grande esercizio dai giovani che, in diversi casi, lo spiegano in modo efficace:

Mi ha appassionato anche il doversi arrovellare per cercare di interpretare altri modi di fare, un tipo di comunicazione diverso, altri schemi mentali… è stato difficile ma, fosse stato tutto facile e liscio, potevo stare a casa!

Sicuramente il mio sguardo sugli immigrati è diverso, non che prima fosse connotato, però prima per me erano semplicemente delle persone non italiane, non mi rendevo conto della diversità e della difficoltà che queste persone probabilmente vivono quando vengono qua…

MI ha appassionato scoprire che non c’è un solo punto di vista sulle situazioni. Ed è più difficile impararlo qui, credo. Quando per un anno metti sempre in discussione il tuo punto di vista, perché sai che la tua prospettiva non è quella degli altri, è gran esercizio […] io mi sento fortunata perché almeno uno scorcio di diversità l’ho visto, che si vive anche in un altro modo rispetto a come viviamo noi.

Questa esperienza di alterità sembra lasciare un segno nei giovani rientrati tanto da rendersi conto di essere diversi essi stessi, di essere tornati cambiati. E non solo rispetto a com’erano qualche mese prima ma, inevitabilmente, rispetto a quanti non hanno fatto la loro stessa esperienza di diversità. Un’intervistata in servizio in India arriva a spiegare come “il vero tesoro” che ci si porta a casa sia proprio il fatto di avvertire questa sensazione di diversità:

Io personalmente sento che l’esperienza che ho vissuto mi rende diversa dalla mia amica che non l’ha mai fatta perché ora qui, ogni volta che vedo un indiano, forse ho più presente il contesto culturale in cui vive di quanto ce l’abbia presente la mia amica. E una cosa che mi piace è che mi rendo conto quanto sia incredibile per loro trovarsi qui, come per me è stato incredibile trovarmi li dopo 27 anni che ho vissuto in Italia […] Penso a quella cosa che ho provato io quando sono andata là, cioè che ti trovi in un posto che funziona in un modo diverso da tutto ciò a cui sei stato abituato. Secondo me, per me, è questo il vero tesoro che ti porti a casa: il fatto di avvertire la diversità.

Se questa scoperta della diversità, che pare rappresentare dei uno tratti maggiormente caratterizzanti l’esperienza, è ritenuta anche uno degli aspetti più appassionanti non si può non menzionare almeno qualcuno di una serie di ulteriori aspetti che gli stessi giovani sembrano considerare utili. Seguendo le parole utilizzate per descriverli, notiamo che si tratta di competenze maturate a diversi livelli. Si possono suddividere in almeno tre grandi categorie.

La prima, relativa a competenze professionali trasversali, utili in diversi ambiti professionali, come l’apprendimento di una nuova lingua o l’assunzione di incarichi di responsabilità, come in questo esempio:

Sicuramente potrei reinvestire la lingua inglese per un futuro lavorativo in Italia o all’estero […] Per il resto ho imparato un mestiere, a portare un po’ avanti, diciamo, un’azienda e, sempre nello stesso contesto, ho iniziato a capire cosa vuol dire stare in una posizione leggermente più ‘alta’.

La seconda categoria riguarda competenze professionali tecniche, più specifiche dell’ambito della cooperazione internazionale. In questo caso le locuzioni più utilizzate dagli intervistati sono “progettare interventi”, “corsi di formazione”, “produrre rendicontazioni”, “rapportarsi con enti ed istituzioni”.

In una terza categoria si possono inserire lo sviluppo di alcune capacità sul piano comportamentale, utili sia nella vita privata che in ambito professionale. In proposito, nelle interviste, le parole che ricorrono con maggiore frequenza sono “disponibilità”, “tolleranza”, “gestione dell’autonomia”, “autostima”, “diplomazia”, “coraggio” e “sicurezza”.

Ora, è indubbio che questi concetti rimandino a competenze e capacità estremamente preziose, soprattutto come sostegno in vista del futuro lavorativo dei giovani rientrati. Allo stesso tempo molte di esse si potrebbero acquisire anche in esperienze diverse dal servizio civile all’estero. Anche restando in Italia, per esempio, durante corsi di formazione, stage, o tirocini. Ma c’è qualcos’altro che, sicuramente, è più difficile imparare restando in Italia. Ed è qualcosa che è legato proprio a quella dimensione antropologica del servizio civile di cui si è detto. Lo spiegano bene le parole di una delle intervistate: «Ho imparato una cosa: che non c’è un solo punto di vista sulle situazioni. Ed è più difficile impararla qui, credo».

Più avanti, precisa come questa molteplicità di punti di vista derivi dalla possibilità, che il servizio offre ai giovani, di “vede come il mondo è grande”:

Penso sia una possibilità preziosa per tanti giovani di vedere come il mondo è grande e, per fortuna, non dappertutto si vive come qui da noi. Ed è importante che un giovane apra il suo sguardo al di fuori del suo piccolo mondo.

Si tratta quindi di un’apertura mentale, una consapevolezza di altri mondi che avviene attraverso il “confronto” e lo “scambio” con le popolazioni locali incontrate. Un punto importante è che i volontari comprendono che c’è molto da scoprire e da imparare da queste popolazioni. Proprio come farebbe un antropologo. E c’è di più. I giovani sperimentano che da queste popolazioni si può imparare molto di più delle, pur preziose, competenze menzionate prima. A volte si tratta di una vera “scuola di vita”, come la definisce un volontario:

Mi viene da chiamarla…la scuola di vita dei poveri! […] Io vado in un posto con le mie competenze, capacità e limiti, ma non mi metto sulla cattedra. Mi metto sui banchi con le persone che non san leggere né scrivere, però tirano avanti sei figli. Il concetto vuol essere quello lì: avere l’umiltà di non mettersi dalla parte della cattedra ma dietro al banco, pur sapendo che ti confronterai con dei campesinos, dei contadini, degli analfabeti, dei ragazzi di strada…

E sono spesso proprio queste popolazioni, i vari campesinos, analfabeti, ragazzi di strada o donne in difficoltà che permettono ai giovani non solo di conoscere realtà diverse ma anche di imparare a pensare in maniera diversa, a “trovare altre vie”, come nel caso di chi afferma quanto per lui sia stato importante: «…anche il vedere come certe donne, di fronte a una durezza di vita inimmaginabile, trovino la forza di reagire, di essere felici, di trovare altre vie che non sono quelle che penserei io».

A far comprendere quanto questi aspetti siano determinanti per il futuro dei giovani rientrati vi sono le parole dei responsabili degli enti di invio, i quali sembrano tutti concordi nell’affermare, come in questo esempio, che praticamente “tutti i volontari rientrati hanno trovato lavoro in pochissimo tempo”:

Penso che un’esperienza di questo genere, al di là delle competenze tecniche, dia un grossissimo bagaglio di esperienza di vita vissuta. Non so se è un caso, ma tutti i ragazzi rientrati hanno trovato lavoro in pochissimo tempo, anche in settori molto diversi, ma proprio perché veniva riconosciuta la capacità di adattamento a realtà diverse, la capacita di relazione, di entrare in contatto con culture diverse, di vivere un servizio anche a tempo pieno, più doti umane che doti tecniche insomma.

Un responsabile si spinge a parlare dei giovani rientrati come di ragazzi “con una marcia in più” tale da renderli addirittura “indispensabili per superare l’attuale crisi economica”:

Il servizio civile all’estero è una forma strutturata trasparente per far fare delle significative esperienze ai nostri ragazzi che sono indispensabili per superare l’attuale crisi economica, perché la gente che va all’estero gli si aprono le idee e ha una marcia in più. È un investimento della collettività che poi ritorna indietro.

Seppur queste ultime citazioni inducano una certa tentazione, qui non si tratta di correlare il servizio civile ad un maggior successo nella ricerca di lavoro da parte dei giovani. Sarà eventualmente compito di analisi quantitative valutare se i giovani rientrati dal servizio siano mediamente più avvantaggiati dei loro coetanei nell’inserimento lavorativo. In questa sede è interessante notare come le considerazioni emerse possano far riflettere maggiormente sulle potenziali ricadute che il servizio civile, anche se svolto all’estero, possa avere in Italia e su quali aspetti possano eventualmente essere tenuti in considerazione dalle politiche che se ne occupano. In effetti, una delle delusioni maggiori per i giovani rientrati è rappresentata dalla difficoltà di mettere a frutto, in Italia, tutte le consapevolezze che affermano di aver acquisito all’estero. In diversi casi appaiono scoraggiati dal fatto che l’esperienza si concluda, semplicemente, col rientro in Italia. Un rientro forse un po’ brusco, se comparato all’importanza istituzionalmente conferita alla fase pre-partenza e di accompagnamento in loco. Ogni progetto di servizio civile all’estero, infatti, deve obbligatoriamente prevedere un preliminare periodo di formazione in Italia e diverse ore di formazione specifica in loco durante il servizio. Nulla, nessun tipo di attività concreta, è invece prevista per il rientro. Nessun modo per veicolare, valorizzare, “mettere a frutto” quanto sperimentato e appreso durante l’anno. Ecco il dispiacere con cui si esprime una volontaria:

…tutto il resto, cioè il tipo di esperienza più intellettuale e culturale, purtroppo non posso farlo fruttare. Mi dispiace perché ci sono tante persone che periodicamente partono […] e poi però ognuno se ne sta per i cavoli propri. Cioè: qua ci sono un sacco di extra comunitari…: io adesso, quello che mi rimane, è di fare la splendida dicendo delle cose in bengali con i ragazzi che gestiscono i negozi qui. Cioè io non ho la più pallida idea di come si possa rendere questo tipo di esperienza.

Abbiamo ripercorso, dunque, alcune delle cause che stanno portando una trasformazione nel mondo del servizio civile negli ultimi anni, come la rigidità e le tempistiche della progettazione. Se a queste si aggiunge lo squilibrio tra la domanda e l’offerta di servizio, che abbiamo visto essere in crescita esponenziale, si comprende meglio come la stessa concezione del servizio civile si stia modificando rispetto allo spirito che lo animava nei primi anni, fortemente calato nella tradizione dell’obiezione di coscienza. Uno dei rischi è quello di essere concepito, sempre più, come una delle poche vie d’accesso al mondo del lavoro, specialmente nell’ambito specifico della cooperazione internazionale, dove, per iniziare una carriera, è effettivamente difficile trovare alternative al servizio civile all’estero. Ma perché questa esperienza, presentata ancora come mezzo per promuovere la pace e la mediazione dei conflitti, “erede” dell’obiezione di coscienza, non si trasformi banalmente, agli occhi dei giovani che vi si accostano, in una delle poche e poco retribuite possibilità di impiego temporaneo, occorrerà non solo ricordarne e difenderne le radici storiche. Occorrerà conoscere e valorizzare il più possibile soprattutto gli aspetti nuovi, quelli rintracciabili nelle esperienze effettivamente vissute dai giovani negli ultimi anni, come alcuni di quelli fin qui accennati, ed eventualmente pensare anche a dei modi per mettere a frutto le potenziali ricadute di queste novità.

In questo senso, le scelte operate ultimamente dal Governo in tema di servizio civile, sembrano al contempo infondere sia fiducia che perplessità. In effetti, per la prima volta dopo diversi anni, i fondi stanziati per il 2015 sembrano poter garantire nuovamente l’avvio di un contingente significativo di giovani, sia in Italia che all’estero, contribuendo probabilmente a diminuire il forte squilibrio tra richieste e posti disponibili. Nel 2013 è stato approvato unprogetto sperimentale di servizio civile in Albania (Caschi bianchi oltre le vendette) con nuovi paramenti più flessibili [Di Blasio 2013]. Questo progetto è stato tra le premesse per lo stanziamento di un fondo dedicato ai Corpi Civili di Pace, figure attese da decenni, che si occuperanno principalmente di azioni di peacebuilding in zone di conflitto. Se questi provvedimenti hanno contribuito a creare un clima di maggiore attenzione e comprensione rispetto al mondo del servizio civile, altre scelte appaiono più dubbie. Tra queste l’inserimento, forse in maniera un po’ frettolosa, del servizio civile tra le misure previste da “Garanzia Giovani”, il programma finanziato dall’Unione Europea che intenderebbe assicurare ai ragazzi fino a 29 anni, che non studiano e non lavorano, nuove opportunità per acquisire competenze ed entrare nel mercato del lavoro. Ponendolo alla stessa stregua delle altre misure previste dal programma (come apprendistato, tirocinio, sostegno all’autoimprenditorialità, mobilità professionale) si rischia forse di aumentare la confusione sul senso del servizio civile. Agli occhi dei giovani che si rivolgono ai centri per l’impiego per iscriversi al programma, il servizio civile può risultare una misura esattamente come le altre. Ciò certamente rende difficile promuoverne i valori legati alle sue radici storiche ma, soprattutto, può sminuire quelle che sono le attuali peculiarità delle esperienze di servizio civile, di cui qui si è cercato di presentarne alcune. Le ricadute positive emerse dalle parole dei giovani che hanno svolto il servizio all’estero, infatti, inducono a riflettere su quanto possano essere valorizzate, ma anche studiate con più attenzione, proprio le particolarità delle esperienze attuali. Magari proprio a partire da quella dimensione di scoperta della diversità che rende il servizio civile interessante anche per l’ambito degli studi antropologici.

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