Crescere nella migrazione Generi e sessualità fra gli adolescenti di origine straniera

Federica Tarabusi


Abstract

Based on an ethnographic work carried out in the context of Bologna and surrounding area, the paper investigates the symbolic construction of gender and sexuality among the teenagers of foreign origin. Exploring their multiple biographical trajectories, the research reveals a pattern of resources, subjective desires, imaginaries largely shared with the younger generations, but also their multiple attempts to negotiate and challenge both the parent’s expectations and the Italian society’s request of “assimilation”. Giving voices to the children of immigrants, the empirical data helps us to deconstruct, through the lens of sexuality, gender and bodily practices, essentialist ideas and stereotypical representations attached to the so-called second generations as well as to discuss the role played by structural inequalities and exclusionary processes in shaping their experience of being adolescents.

Keywords

Teenage immigrants, sexuality, bodies, gender, generations.

Introduzione

Come si definiscono e auto-rappresentano i figli di migranti nella società italiana? Come costruiscono la loro soggettività di donne/uomini e fanno esperienza dei propri corpi sessuati in adolescenza? In cosa le loro pratiche quotidiane si differenziano da (o si mostrano simili a) quelle degli adolescenti autoctoni?

Questi sono alcuni degli interrogativi che sono stati al centro di un’indagine etnografica sviluppata da gennaio 2009 a giugno 2011 all’interno del più ampio progetto di ricerca-azione Adolescenti stranieri, finanziato dalla Regione Emilia-Romagna e promosso dallo Spazio Giovani dell’Azienda Usl di Bologna in collaborazione con l’Università di Bologna[1] (Marmocchi, 2012).

Se il progetto aveva il generale obiettivo di ampliare la comprensione dei comportamenti in campo sessuale da parte degli adolescenti di origine straniera residenti a Bologna e provincia, la ricerca si è proposta di analizzare le loro esperienze di vita quotidiana focalizzando lo sguardo sui rapporti con la precedente generazione, sulle rappresentazioni del femminile e del maschile, sulla pluralità di pratiche e processi sociali che plasmano la costruzione simbolica dei generi e della sessualità.

Collocandosi nel dibattito antropologico, l’indagine ha preso le mosse dalla consapevolezza che le costruzioni relative alla sessualità e alla riproduzione non siano neutre, universalmente date e biologicamente determinate, ma storicamente e culturalmente situate[2], differenziandosi anche negli usi che ne fanno gli stessi soggetti in base ai contesti e alle fasi della vita (Ibry, 2010), e che le pratiche relative al corpo rappresentino una prospettiva privilegiata per analizzare le forme simboliche dell’esperienza, i rapporti sociali, i processi storici e la soggettività (Bourdieu, 1972; Csordas, 2003). Con questi presupposti si è scelto di investigare gli spazi intimamente vissuti dell’adolescenza e ricostruire l’intreccio tra gli immaginari sociali e di genere (Mattalucci, 2012) e le specificità biografiche e generazionali (Colombo, 2007) per non ricadere in approcci etnocentrici che rischiassero di “naturalizzare” la diversità dei comportamenti sessuali (Parker e Aggleton, 2007) o di tradurre complessi processi storici, sociali e politici nel solo linguaggio biomedico del “rischio”, della “prevenzione” e della “salute riproduttiva”.

Il contributo presenterà parte dei risultati empirici emersi dall’indagine di campo, che ha coinvolto circa 60 ragazzi e ragazze adolescenti e un gruppo di genitori stranieri, con l’obiettivo di discutere, attraverso la lente della corporeità e sessualità, alcune delle principali questioni adolescenziali che si condensano nelle storie di giovani che hanno condiviso l’esperienza diretta o indiretta della migrazione. In particolare, i dati ci stimoleranno a riflettere sui modi con cui i figli di migranti attivano molteplici, e spesso ambivalenti, immaginari e fantasie intorno alla sessualità, costruiscono le loro idee di amore, sesso, matrimonio, elaborano esperienze sociali e forme di “incorporazione” della femminilità e mascolinità (Csordas, 1990) che si pongono in un rapporto dialettico con le generazioni precedenti.

Dando voce ai diretti protagonisti e ai genitori stranieri, questo percorso ci permetterà anche di leggere i loro multipli posizionamenti nella società italiana e mettere in discussione alcuni approcci statici e semplificati che, come vedremo, appaiono a volte incorporati nel discorso pubblico e istituzionale, nonché nelle pratiche quotidiane di insegnanti e operatori sociali. Come rilevato nella letteratura nazionale sulle seconde generazioni[3], si evidenzia, infatti, nell’immaginario collettivo italiano, e talvolta anche nella produzione di studi e ricerche sul tema (Chiodi e Benadusi, 2006), la tendenza a guardare ai giovani di origine straniera come una categoria monolitica (Ambrosini e Molina, 2004), a leggere le loro biografie prevalentemente dal punto di vista del progetto migratorio dei genitori (Bosisio et al. 2005), a reificare l’appartenenza etnica e culturale come fosse un “destino” in grado di predeterminare i loro comportamenti (Colombo, 2007), a imprigionare i loro percorsi all’interno di una logica oppressiva di tipo duale, quella della cultura di origine e della società italiana (Chiodi e Benadusi, 2006; Tarabusi, 2012a), o ancora a enfatizzare letture eccessivamente appiattite sulla dimensione del “rischio”, della difficoltà e della devianza (Queirolo Palmas, 2006).

Nel tentativo di decostruire tali visioni rigide ed essenzialiste dell’identità, in questa sede sarà privilegiata un’analisi processuale e contestuale dei loro percorsi di identificazione che si snodano tra il pubblico e il privato e si articolano intorno a una fitta trama di risorse, immaginari e desideri soggettivi[4] che, pur dentro rapporti diseguali nella società italiana, definiscono le pratiche sociali e corporee, nutrono le costruzioni simboliche dei generi[5] e danno diversamente forma all’esperienza quotidiana dell’adolescenza.

Il progetto “Adolescenti stranieri”: la ricerca etnografica

La stabilizzazione dei flussi migratori nella regione Emilia-Romagna, che conta fra i più alti numeri di minori di origine straniera sul territorio nazionale[6], ha influenzato su molti fronti la formulazione delle politiche locali orientate ai giovani[7], sollevando nuovi dilemmi e dibattiti fra gli operatori dei servizi territoriali.

Un fenomeno che ha interessato in questi anni soprattutto i servizi consultoriali e gli spazi di accoglienza rivolti agli adolescenti riguarda la consistente richiesta di gravidanze e interruzioni volontarie di gravidanze (IVG) da parte di giovani donne di origine straniera, che nel nostro paese già nel 2001 rappresentavano il 19,1% del totale delle IVG (Lombardi, 2004). Questa tendenza è confermata dai dati epidemiologici nazionali (Ministero della Salute, 2008) e regionali[8], oltre che dalle esperienze dei servizi (Marmocchi et al. 2009), che rilevano atteggiamenti in campo sessuale da parte delle utenti immigrate in controtendenza rispetto ai comportamenti delle donne italiane, le quali registrano un calo di abortività e un maggior uso di contraccettivi nel tempo.

La scarsa rilevanza di letteratura scientifica prodotta sul tema nel panorama nazionale e la crescita esponenziale di richieste provenienti da ragazzi e, soprattutto, ragazze di origine straniera nei consultori per adolescenti hanno incoraggiato gli operatori dello Spazio Giovani di Bologna ad avviare un percorso di indagine finalizzato ad aumentare la comprensione dei loro comportamenti in campo sessuale e, in linea con la logica della ricerca-azione, a ripensare strumenti operativi e ricostruire metodologie di intervento nel lavoro con gli adolescenti.

Nel tentativo di approfondire la conoscenza di tale fenomeno, il progetto Adolescenti stranieri, finanziato dalla Regione Emilia-Romagna, ha cercato di mettere in dialogo mondo accademico e mondo dei servizi, optando per una metodologia eclettica e multidisciplinare. Insieme a una ricerca quantitativa, finalizzata a mappare conoscenze relative alla sfera della contraccezione e sessualità attraverso due questionari somministrati a un gruppo di 500 adolescenti stranieri a confronto con un campione di coetanei italiani nel contesto di Bologna e provincia[9], è stata avviata un’indagine etnografica con l’obiettivo di esplorare sul piano emico le esperienze quotidiane e rappresentazioni di circa 60[10] ragazzi e ragazze, italiani e di origine straniera, di età compresa fra i 13 e i 19 anni. Senza nessuna pretesa di rappresentatività, l’indagine ha consentito di ricostruire le loro pratiche sociali e corporee e comprendere come la sessualità costituisca oggetto di discorso tra pari, quando non terreno di (ri)produzione o contestazione tra generazioni diverse in contesti attraversati da obblighi e opportunità che si differenziano in base alla storia migratoria, all’appartenenza etnica, alle condizioni sociali, materiali e giuridiche (Colombo, 2010).

Con questi obiettivi si è scelto di non concentrare l’attenzione su giovani adolescenti appartenenti a specifici gruppi e comunità migranti, ma di privilegiare la loro collocazione generazionale. I protagonisti della ricerca presentano, tuttavia, profili piuttosto variegati: non solo differiscono per genere e nazionalità[11], ma provengono anche da contesti sociali e familiari eterogenei sul piano dello status giuridico, del capitale simbolico e delle condizioni socio-economiche ed hanno sperimentato diversamente la migrazione, talvolta attraverso i genitori (come nel caso dei giovani nati nel nostro paese), talvolta in modo diretto (per quanto riguarda i ragazzi e le ragazze ricongiunti/e ai genitori in fasi diverse della vita). Anche le reti sociali e i circuiti della mobilità che hanno forgiato i progetti migratori e le strategie di vita dei loro nuclei familiari appaiono profondamente diversificati, come d’altronde sono eterogenee le relazioni e rappresentazioni che i figli sviluppano o mantengono con il contesto di origine.

Grazie alla costruzione di rapporti di fiducia con gli adolescenti, l’indagine etnografica si è proposta di attraversare in profondità le loro reti amicali, familiari, di vicinato. Sono stati effettuati pertanto 15 mesi osservazioni di campo nei loro contesti di vita quotidiana e luoghi di aggregazione informale (come bar, parchi pubblici, piazze) e nei corsi di formazione professionale EnAip[12], frequentati da un numero significativo di figli di migranti e ritenuti dagli operatori, sulla base di precedenti esperienze e ricerche (Marmocchi e Strazzari, 2009), spazi strategici per l’attivazione di interventi preventivi sul fronte della sessualità e della contraccezione. In diversi casi è stato possibile incontrare i giovani informatori nei loro contesti abitativi e, per quanto riguarda nello specifico 4 ragazzi/e di origine cinese, in quelli lavorativi dei genitori.

Osservazioni etnografiche sono state, inoltre, effettuate per 12 mesi durante le attività di “educazione alla sessualità”, promosse dallo Spazio Giovani di Bologna negli istituti secondari superiori e nei corsi professionali, considerando al tempo stesso il web come uno degli spazi di interazione privilegiati dagli adolescenti e le nuove tecnologie come strumenti centrali nel generare immaginari (Appadurai, 2001) e attivare fantasie (Moore, 2007) che giocano un ruolo rilevate nella costruzione dei generi e della sessualità (Mattalucci, 2012).

Di particolare importanza, infine, sono state le testimonianze di 13 mediatori culturali che operano nelle scuole e nei servizi del contesto emiliano-romagnolo, le conversazioni con insegnanti e tutor che lavorano nei corsi di formazione professionale, i dialoghi con i membri delle principali associazioni delle seconde generazioni attive nel contesto di Bologna[13], le relazioni instaurate sia con un gruppo di genitori stranieri che frequentavano, al momento della ricerca, corsi di alfabetizzazione, sia con le madri immigrate inserite in attività e progetti promossi dalla Provincia di Bologna[14].

“Crescere da figlie di immigrati”: controllo sociale e sessualità in adolescenza

Dominique[15], di origine pakistana, Rachida, di origine marocchina e Marika, italiana, frequentano la seconda classe di un istituto professionale. Oltre a condividere la propria vita quotidiana a scuola, le giovani amiche si scambiano confidenze intime sulle prime esperienze in campo sentimentale e riferiscono un insieme di desideri e aspettative che le accomunano a molte altre giovani adolescenti: sognano di avere figli e considerano il matrimonio come un importante riferimento identitario ma si definiscono più “emancipate” delle madri; parlano di sessualità in connessione alla sfera delle emozioni e degli affetti, ma interpretano i rapporti sessuali anche come mera espressione di “desiderio” e “piacere”.

Come in altri casi, le loro narrazioni oscillano di frequente tra un repertorio di fantasie e risorse, relative a un momento della vita in cui gli adolescenti ridefiniscono il rapporto con il proprio corpo sessuato, e la sensazione di crescere in un'epoca dominata dal senso di incertezza e precarietà sociale (Benasayg e Schmit, 2004), che le porta a volte a guardare con un certo timore al proprio futuro e a quello delle successive generazioni. Tuttavia, a emergere con notevole chiarezza nelle loro testimonianze è soprattutto la percezione di essere parte di una “comunità di destino” (Mannheim, 1998) che condivide un'esperienza storica irripetibile, come quella della transizione all’età adulta, nel corso della quale i giovani si affacciano per la prima volta alla sfera pubblica e pongono, almeno in parte, in discussione l’influenza delle tradizionali agenzie di socializzazione. Non a caso, molti interlocutori hanno posto al centro dei loro discorsi i rapporti con i genitori portando alla luce, attraverso un atteggiamento di profonda critica verso le precedenti generazioni, non solo le specificità biografiche che accomunano i giovani italiani e di origine straniera, ma anche le problematiche adolescenziali che caratterizzano le storie di chi ha sperimentato la migrazione in maniera diretta (come Dominique, arrivata nella fase di prescolarizzazione) o indiretta (nel caso di Rachida, nata e cresciuta a Bologna).

E' infatti in questa fase che i figli di migranti, mentre iniziano a percepire un divario sempre più marcato tra le proprie opportunità e quelle degli adolescenti autoctoni, si trovano a fare i conti con il “peso” delle aspettative sociali dei genitori, che hanno compiuto sacrifici per portare termine con successo il loro progetto migratorio, e a negoziare nel contesto familiare una serie di richieste che sono percepite come soffocanti e oppressive. A partire da questo quadro giovani come Dominique e Rachida hanno voluto spiegare cosa significhi “crescere da figlie di immigrati” nella società italiana ed evidenziare nei loro dettagliati racconti come le proibizioni e i divieti posti dai genitori si traducano in un controllo rigido dei loro corpi, del vestiario, delle abitudini alimentari, del tempo libero e soprattutto dei comportamenti sessuali.

Questo aspetto è stato confermato anche dalle conversazioni con madri e padri stranieri, che hanno reso esplicita una richiesta di “lealtà ai valori comunitari”, manifestando, spesso in maniera corale, la preoccupazione che i figli, frequentando la scuola e il proprio tempo libero con i coetanei italiani, assumano stili di vita “occidentali” simili a quelli degli adolescenti autoctoni.

Il timore che i figli “perdano le proprie radici” - per utilizzare l'espressione di un padre pakistano –e si allontanino dal mondo simbolico della comunità di origine si coniuga spesso a una critica sociale della società italiana. Alcune madri incontrate a Zola Predosa (Bo) hanno, a questo proposito, posto in discussione gli stili di vita “sregolati” e i “precoci” comportamenti sessuali degli adolescenti autoctoni, gli approcci educativi troppo “permissivi” dei genitori italiani e associato l’uso ostentato del corpo da parte delle coetanee italiane con le immagini mercificate della donna che circolano nei media nazionali, considerate espressione di sfrenato materialismo, consumismo e degrado morale. Le parole di Amina, arrivata a metà degli anni 90 da una località vicino a Casablanca e oggi madre di una giovane adolescente, testimoniano come tali preoccupazioni e richieste siano rivolte soprattutto alle figlie femmine, che sembrano sottoposte a un marcato controllo sociale e sessuale anche da parte dei fratelli, cugini o amici connazionali:

«I nostri figli crescono male qua … Spesso vogliono fare come italiani, ma questo non è buono per noi. Io e il padre abbiamo l'attenzione a suoi comportamenti perché lei è quasi sempre stata qui e in Italia perde la guida… come veste per esempio…l’altro giorno è andata a scuola… “nuda”… questo non è bene […] poi il sesso non è buono adesso…anche l’amore è una cosa grande, troppo grande, ancora non può capire…ma so che è brava… non si comporta male…almeno così dice il fratello...lui ha sempre un occhio per lei» (Amina, marocchina).

Per quanto eterogenee e multi-sfaccettate, le testimonianze raccolte nel corso della ricerca ci portano a riflettere sulle forme e strategie di controllo, “addomesticamento” e socializzazione della sessualità e del potere riproduttivo delle donne (Forni et al 2006) che possono evidenziarsi in contesto migratorio, soprattutto quando un figlio raggiunge l’adolescenza.

A questo proposito è significativo notare come, discutendo delle problematiche adolescenziali dei figli, le narrazioni dei genitori si siano di frequente mescolate con altri racconti e riflessioni sulla loro vita da immigrati in Italia: molti di loro hanno, ad esempio, denunciato le condizioni di precarietà materiale e giuridica, palesando un diffuso sentimento di sfiducia e diffidenza nei confronti dello Stato e delle istituzioni italiane; altri hanno richiamato episodi di razzismo e discriminazione, segnalando in particolare i pregiudizi da parte degli insegnanti italiani e la percezione di un clima di generale “sospetto e prevenzione” nei confronti dei genitori immigrati, giudicati inadeguati e negligenti (Modesti, 2012: 58); altri ancora, hanno dato voce a disagi e sentimenti di angoscia di fronte alle richieste e ai comportamenti dei figli, rivelando una scarsa conoscenza dei quartieri, delle strade e dei locali che i giovani abitualmente frequentano.

Inoltre, a differenza dei genitori italiani, molti padri e madri stranieri si sono dichiarati critici verso le norme e i valori veicolati nelle istituzioni scolastiche. Per quanto investita di un significato centrale nel disegnare le traiettorie future dei figli, al punto da considerare la riuscita scolastica determinante per il proprio progetto migratorio (Maher, 2012), la scuola appare spesso percepita come quel luogo in cui vengono più o meno implicitamente trasmesse le norme di adesione alla società italiana (Ong, 2005) anche attraverso l'incorporazione di pratiche disciplinari riguardo ai generi e l'incoraggiamento di alcune “tecniche del corpo” (Mauss, 1991). I corsi di educazione alla sessualità e gli sportelli informativi attivati dagli Spazi Giovani nei corsi di formazione professionale sono stati, ad esempio, oggetto delle loro principali critiche e resistenze che sembrano derivare anche dallo scarso coinvolgimento che è stato loro riservato nelle attività, dalla limitata conoscenza dei servizi erogati e da un sentimento di generale sfiducia verso quelle istituzioni pubbliche, come i consultori (Tarabusi, 2012c) e la scuola (Mutti, 2012), che si rivelano potenti veicoli delle idee di amore, sessualità, matrimonio.

Simili considerazioni ci consentono in parte di contestualizzare le richieste genitoriali - spesso percepite dai tutor e insegnanti incontrati nel corso dell’indagine come mera “estensione” dei contesti di origine - e coglierle piuttosto come prodotto di complesse strategie sociali e politiche del corpo (Fusaschi, 2012) che necessitano di essere inquadrate all’interno degli specifici contesti materiali e delle esperienze quotidiane che i cittadini migranti sperimentano nella società di approdo. Nel corso dell’indagine il controllo esercitato sul corpo delle donne non è parso, infatti, meccanicamente riconducibile alla molteplicità delle norme sociali e religiose, dei valori e riferimenti simbolici delle comunità di origine, ma si è piuttosto rivelato come un prezioso veicolo di difesa dei confini identitari nell’esperienza migratoria. In altri termini, evitare che i figli siano contaminati da un ambiente “immorale” e “pericoloso” attraverso la scuola e i mass media (Maher, 2012: 38) e che assumano comportamenti sociali e sessuali simili a quelli dei coetanei autoctoni, come un uso ostentato del proprio corpo e un rapporto troppo precoce con la sessualità, sembra rappresentare dal punto di vista dei genitori un possibile canale per conferire, in termini reattivi, continuità a un’identità culturale che appare profondamente minacciata nella società di approdo (Tarabusi, 2012b; 2012d).

Da questa prospettiva le esperienze adolescenziali che si sviluppano nella realtà migratoria, pur presentando aspetti simili a quelle dei coetanei italiani, evidenziano pratiche di controllo e meccanismi di protezione che scaturiscono da una difesa dei propri confini identitari (Pagnotta e Stagi, 2010) all’interno di un contesto che, mostrandosi agli occhi degli adulti primo-migranti come ostile, opaco e discriminatorio, finisce spesso per generare in loro maggiori preoccupazioni, incertezze, ansie di quante non si registrino fra i genitori italiani.

Anche per queste ragioni le richieste che muovono ai figli nella società di approdo possono rivelarsi, in maniera contrastiva, anche più restrittive di quelle avanzate nel contesto di provenienza. Ciò si evidenzia, ad esempio, nei dettagliati racconti che alcune giovani restituiscono al ritorno dai brevi soggiorni nelle città di origine, dove dichiarano di essersi sentite più libere di assumere comportamenti che nel contesto di approdo i genitori giudicano negativamente. Riportando le sue impressioni dopo un viaggio effettuato in Marocco durante il periodo delle vacanze estive, Aisha ha raccontato:

«se qua metto un top o un vestito attillato, per dire, subito i miei che mi guardano storto...e anche sull'orario se provo a chiedere di tornare tardi nel fine settimana sono sempre discussioni […] su questo ho notato che quando torniamo in Marocco è diverso…è come se là per loro non ci fosse problema…se per dire mi trucco o vesto “all'italiana”...sembra un po’ controsenso, ma forse là nella loro testa si sentono più tranquilli […] ma comunque posso dirti che non sono così rigidi e preoccupati come qua» (Aisha, marocchina, 13 anni).

Non va dimenticato poi che nella realtà migratoria intervengono processi di ri-significazione dei ruoli di coppia e genitoriali che possono comportare importanti mutamenti dei tradizionali rapporti di potere in ambito familiare. Uno degli aspetti più evidenti, rimarcato in letteratura e confermato dalla ricerca, riguarda la peculiare situazione di rovesciamento dei ruoli tradizionali che può portare i figli di migranti ad assumere una funzione di mediazione informale con la società ospite dei genitori, mentre le figure parentali sembrano perdere ai loro occhi potere e autorevolezza (Balsamo, 2003; Ambrosini e Molina, 2004; Giacalone e Pala, 2005). Diversamente dai loro genitori, molti giovani incontrati nel corso della ricerca possono, infatti, contare su una buona competenza non solo della lingua italiana, ma anche dei linguaggi simbolici e burocratico-istituzionali della società italiana e sanno muoversi con assoluta disinvoltura nei quartieri e contesti urbani dove sono spesso nati e cresciuti.

Come ci ricorda Sayad, questi cambiamenti in ambito familiare appaiono sintomatici della profonda frattura sociale e politica che le nuove generazioni di immigrati producono nei rapporti tra genitori e figli, arrivando a stravolgere, quando non a capovolgere, i tradizionali rapporti di trasmissione lineare nei processi inculturativi e, dunque, a conferire ai figli la responsabilità di “generare socialmente” i propri genitori (1979).

Se queste dinamiche possono portare gli adulti a sentire indebolita la propria autorità genitoriale e a condividere incertezze e preoccupazioni sui comportamenti dei propri figli, ciò non significa che ci sia un pieno accordo su come sia opportuno gestire tali processi dal punto di vista educativo o che esistano posizioni unanimi rispetto ad alcuni temi cruciali, come la contraccezione e l'aborto. Al contrario, in uno scenario caratterizzato da profondi mutamenti nella sfera privata e domestica, sono emerse diverse, e spesso ambivalenti, opinioni rispetto all'opportunità di un confronto diretto con i figli adolescenti su queste tematiche e una eterogeneità di atteggiamenti che oscillano da meccanismi di chiusura, rifiuto e silenzio alla ricerca di spazi di dialogo, apertura, intimità. Anche in questo caso le tendenze e gli atteggiamenti che si riscontrano fra i genitori appaiono connesse alle loro esperienze di esclusione e marginalizzazione nella società ospite e alle difficoltà scaturite dalla migrazione, che influenzano in maniera profonda ed eterogenea non solo la sfera degli affetti e delle relazioni ma anche la gestione della sessualità e della sfera riproduttiva (Lombardi, 2004).

Le riflessioni di alcune madri inserite nelle attività della Provincia di Bologna hanno, a questo proposito, mostrato come le condizioni di precarietà giuridica, sociale e materiale che forgiano l’esperienza migratoria possano portare alcune donne a ricorrere in modo più sistematico alla contraccezione in Italia che nel contesto di origine e, dunque, a tutelarsi rispetto a una possibile gravidanza, oppure a interrompere una gravidanza rimandando a tempo indeterminato il desiderio di un figlio, ma in taluni casi anche a guardare con timore ai contraccettivi, percepiti come strumenti che possono mettere a rischio il “potere femminile di generare” (Ibry, 2010: 56) e compromettere quella capacità riproduttiva che può assumere un ruolo cruciale nella costruzione delle esistenze e soggettività immigrate.

Generi e generazioni a confronto

Di fronte alle richieste dei genitori, le esperienze elaborate da molti giovani coinvolti nella ricerca testimoniano un processo dinamico di reinterpretazione delle norme sociali, sessuali e religiose che non si pone in antitesi con il sentimento di orgoglio che molti di loro nutrono verso le proprie origini.

Condividendo stili di vita e comportamenti con molti coetanei italiani, gran parte degli interlocutori hanno espresso, a questo proposito, la tendenza a negoziare in maniera contestuale una pluralità riferimenti appartenenti ai mondi simbolici e culturali della comunità di origine e della società italiana, spesso percepiti nel senso comune e negli spazi istituzionali come universi monolitici e incommensurabili. Le loro pratiche sociali e traiettorie di vita hanno evidenziato, al contrario, la pluralità delle definizioni e la fluidità dei “confini” che vengono costruiti di volta in volta per definire sé stessi e gli altri (“mi sento italo-marocchino”, “un po' albanese, un po' italiano”, “metà e metà”) e il desiderio di sfuggire tanto alle domande di “assimilazione” provenienti dalla società italiana quanto alle richieste di adesione al sistema di valori locali, nel quale in parte si identificano ma che non vogliono del tutto “replicare”. Per esempio, il fatto che per Raja e Amina, di origine tunisina, il matrimonio e la maternità costituiscano valori che consentono di mantenere “un ponte” con le esperienze di madri e nonne, tessendo un filo identitario che congiunge i generi e le generazioni, non significa che le due giovani tendano nelle loro pratiche quotidiane a replicare i valori comunitari e le norme sociali, evitino di assumere la pillola anti-concezionale oppure interpretino i rapporti sessuali come qualcosa di inconciliabile con la propria fede musulmana; alternando la lingua italiana e araba, i loro racconti esprimono, piuttosto, desideri e immaginari che negoziano la realtà locale con la memoria culturale di provenienza, ricostruita spesso attraverso i racconti di familiari o attraverso le informazioni ricercate dai connazionali o su internet. Questo è vero anche nel caso di ragazze che, pur attribuendo alla verginità un ruolo centrale nella definizione della propria femminilità, si confrontano in moltissime occasioni con coetanee, cugine, sorelle che hanno già avuto esperienze sessuali e riportano dubbi e curiosità sull’amore, sull’abbigliamento intimo, nutrendosi di percezioni sensoriali e fantasie che sono vissute nel corpo e attraverso il corpo (Pinelli, 2011).

In questi processi un ruolo centrale è anche esercitato dal loro investimento quotidiano nello spazio transnazionale della rete e dalla maggiore competenza che essi hanno rispetto agli adulti primo-migranti degli strumenti del web. Come i coetanei italiani, le nuove generazioni di migranti attivano e negoziano nella rete le loro rappresentazioni di amore, sesso, del maschile/femminile, ridisegnano nuovi spazi sociali di intimità, significano il rapporto proprio con il corpo sessuato e concorrono alla produzione e alla circolazione di visioni e immaginari sessualmente connotati che, per quanto diversificati e ambivalenti, giocano un ruolo rilevante nella formazione delle loro soggettività (Mattalucci, 2012).

Con una sola eccezione, tutti gli adolescenti incontrati nel corso della ricerca utilizzano quotidianamente il web e si autorappresentano come una “generazione online” che, diversamente dai genitori, si avvale di ideali estetici e comportamentali che attraversano i confini nazionali (Colombo, 2007) e concorrono alla costruzione di appartenenze “delocalizzate”, ma non per questo meno reali (Chiodi e Benadusi, 2006). Potremmo dire, in sostanza, che mentre i genitori sembrano perlopiù interessati alla rete per mantenere rapporti con connazionali e parenti rimasti in patria, i figli non solo costruiscono i loro percorsi di identificazione attraverso la rete (Colombo, 2007), ma la utilizzano anche in maniera diversa, per esempio per ricostruire legami con le proprie “origini” (come testimonia l’immagine di un ragazzo di origine congolese che ricerca informazioni sulla propria città nativa navigando in internet e quella di una giovane pakistana che compra on-line un abito che definisce “tradizionale”).

Inoltre, alcune scene di vita quotidiana tra gli adolescenti – come quelle di due fidanzati che, attraverso l’applicazione di Instagram, scattano e pubblicano foto relative alla loro vita sentimentale e di coppia, o ancora quella di due ragazze albanesi che, nelle aule di scuola, si scambiano confidenze intime sui profili pubblici di Facebook - ci suggeriscono l’emergere di pratiche sociali che ridisegnano, spesso in maniera ambivalente, i confini tra spazio pubblico e privato, laddove il vocabolario globale della rete viene utilizzato per veicolare emozioni, comunicare affetti e desideri mentre le esperienze intime vengono modellate attraverso il linguaggio dei social networks per essere portate sulla scena pubblica.

Nondimeno, rispetto ai genitori, si fanno più marcate le domande che interpellano la società italiana nelle sue attuali contraddizioni e nei suoi più profondi etnocentrismi, come quelli connessi alla religione islamica (Frisina, 2007). Nel corso dell’indagine si è evidenziato, per esempio, nelle nuove generazioni un forte desiderio di svincolarsi dai luoghi comuni e dagli essenzialismi che riconducono l’Islam a una serie di precetti riguardanti le donne (Abu-Lughod, 2002; Salih, 2005) o immaginano Islam e sessualità come universi statici e dicotomici (Tarabusi, 2012b).

Questi temi sono stati oggetto di discorso in diversi forum on-line, come quello avviato dall’associazione Yalla Italia, dove sono emersi una pluralità di modi di rappresentare e “praticare” l'amore e la sessualità tra i giovani musulmani, che hanno posto sotto osservazione critica le visioni stigmatizzanti dei contesti di origine. Tanto nel forum on-line quanto nelle conversazioni informali, Fatima, di origine marocchina, ha riscostruito le sue idee di amore e sesso prendendo le distanze sia dai discorsi mediatici e pubblici che guardano all'Africa come contesto “tribalizzato”, sede di arcaicità e sfrenata passionalità (Grillo, 2006), sia dagli stereotipi di senso comune che portano a immaginare il Marocco come il “paese delle ragazze caste”. Contrastando le visioni prevalenti nell’immaginario collettivo italiano, la giovane si è a lungo soffermata a descrivere gli stili di vita “moderni” e “stravaganti” delle connazionali, enfatizzando gli elementi di continuità con le coetanee italiane, e a riportare una serie di contenuti mediatici, barzellette e aneddoti a sfondo erotico e sessuale diffusi nel contesto di origine.

La critica alle pratiche discriminanti e percezioni stigmatizzanti che provengono dall’esterno è anche al centro delle esperienze associative di alcuni giovani informatori. Mentre la crescente visibilità dell’Islam sfida i confini e i significati della laicità dello spazio pubblico (Frisina, 2007), molti giovani cercano, infatti, di “prendere la parola” attraverso l’associazionismo, che diventa un canale privilegiato per ricercare attivamente non solo l'acquisizione di uno status giuridico formale ma anche una forma agita e quotidiana di cittadinanza, connessa al senso di appartenenza che molti di loro nutrono verso il territorio (Riccio e Russo, 2010). Alcuni membri dell'associazione Giovani Musulmani Italiani (GMI) hanno voluto, per esempio, rimarcare una distanza dai loro genitori, tesi a preservare i precetti locali della propria comunità nazionale, ed evidenziare la possibilità di occupare multipli posizionamenti identitari, come il fatto di sentirsi parte di una comunità islamica “globale” e post-nazionale (Salih, 2006) senza per questo rinunciare a riconoscersi in un altro mondo (Frisina, 2007).

Anche le pratiche legate al velo testimoniano esperienze che si pongono in un “rapporto dialettico di continuità e rottura” con le generazioni precedenti (Salih, 2006). Molte giovani investono, infatti, l’hijab o il foulard non solo di un significato religioso ma anche di un insieme di dimensioni estetiche, visioni del femminile e istanze identitarie che prendono forma dentro a nuovi scenari e plasmano la costruzione delle soggettività. Ricercare nel mercatino bolognese insieme alle amiche il “giusto” foulard e decidere come indossarlo, con un’attenzione scrupolosa agli abbinamenti con oggetti e vestiti che i genitori definiscono “occidentali”, appaiono, per esempio, pratiche emblematiche della tendenza a riconfigurare le norme di genere e religiose non solo sul piano simbolico ma anche attraverso il corpo. Mentre nelle testimonianze di molte madri traspare la volontà di rivendicare la propria “differenza” e preservare una certa continuità con i valori comunitari, le loro esperienze quotidiane evidenziano una pluralità di significati attribuiti al velo e ai diversi modi di indossarlo, al punto da diventare fonte di controversia e alimentare accesi dibattiti tra le coetanee di fede musulmana. A questo proposito Haifa, per esempio, ha giudicato aspramente la scelta di alcune connazionali che, secondo lei, porterebbero il velo per “fare le civette” ed essere più seduttive e sensuali delle ragazze italiane.

Se, dunque, ad accomunare molte storie è un atteggiamento critico nei confronti delle precedenti generazioni che si evidenzia soprattutto per quanto riguarda le norme di genere (Salih 2006), le loro storie si snodano dentro a ambivalenze e dilemmi non facili da sciogliere, come quello di chi si trova a negoziare il proprio desiderio di auto-determinazione con la volontà di non deludere i genitori, che hanno compiuto sacrifici per portare a termine il proprio progetto migratorio.

E’ in questo scenario che emergono le esperienze di giovani che si mantengono fortemente ancorati al mondo valoriale della comunità di origine, che è spesso l’universo simbolico a cui fanno riferimento nei loro racconti e pratiche. Diversamente da quanto ipotizzato da alcuni operatori sociali nel corso della ricerca, ad accomunare le biografie di questi adolescenti non è però il tempo di permanenza trascorsa in Italia, quanto piuttosto il forte senso di iper-responsabilizzazione che essi nutrono nei confronti dei genitori e la volontà di non deludere le loro richieste e aspettative. Seguendo un gruppo di ragazzi di origine cinese nel corso dell’indagine, per esempio, abbiamo potuto esplorare la quotidianità sociale di giovani che frequentano soprattutto connazionali e dedicano gran parte del proprio tempo libero a offrire un aiuto nella sfera domestica e nelle attività lavorative dei genitori, riservando uno spazio piuttosto limitato ai momenti di socializzazione extra-scolastici. Rispetto ad altri, le loro traiettorie appaiono caratterizzate da una profonda identificazione nelle reti etniche, all'interno delle quali comunicano quasi esclusivamente nella lingua madre che, diversamente dall’italiano che simboleggia perlopiù la lingua delle istituzioni e della scuola (Bosisio et al. 2005), è utilizzata nello spazio “caldo” delle relazioni intime per comunicare desideri ed esprimere emozioni dentro a legami di affetto e solidarietà.

Dal punto di vista di un tutor, con ampia esperienza nel lavoro con gli adolescenti, l’atteggiamento di chiusura nelle reti etniche potrebbe essere in gran parte prodotto dal senso di esclusione e marginalità che questi giovani sperimentano giorno dopo giorno nei contesti sociali e istituzionali e dal desiderio di contrapporsi e resistere, attraverso il dissenso e l’agire quotidiano, alle richieste di “assimilazione” provenienti dalla società italiana. In continuità con Queirolo Palmas e Ravecca, l’indagine ha tuttavia rilevato che il capitale sociale etnico rimane caratterizzato da un elevato grado di ambivalenza, configurandosi, da un lato, come risorsa in grado di compensare la posizione di svantaggio strutturale che deriva dall’evento migratorio, ma anche come fonte di oppressione che vincola fortemente l’iniziativa individuale e la possibilità di uscire dai confini del network (2010: 114).

L’esperienza ai margini e la chiusura nelle reti etniche sembrano riverberarsi anche sul piano della sessualità e sfera riproduttiva, dove si riscontra la tendenza da parte di questi giovani a non violare le norme sociali e le regole di comportamento sessuale trasmesse dalle precedenti generazioni attraverso pratiche di disciplina e autocontrollo che si rendono evidenti attraverso il corpo (Pagnotta e Stagi, 2010); le ragazze evitano, per esempio, di fumare, di tingere i capelli, di esporre il proprio corpo e condurre stili di vita simili a quelli delle coetanee autoctone.

L’identificazione dentro una rete etnica sembra, inoltre, favorire un controllo sociale e sessuale delle giovani preadolescenti e adolescenti da parte dei membri maschili della propria famiglia o del proprio gruppo di amici ma, diversamente da quanto osservato in precedenza, tale controllo non sembra percepito dalle ragazze come oppressivo e soffocante ma come veicolo di difesa e protezione dal mondo esterno. A questo proposito, è interessante notare come alcuni adolescenti maschi di origine marocchina abbiano associato spesso le donne alla fragilità emotiva e all’immoralità e la sfera della riproduzione e fertilità femminile al caos e disordine sociale, anche se la maggioranza di loro ha restituito visioni ambivalenti delle donne e dei loro corpi sessuati, considerati oggetti “minacciosi” quando riferiti a madri, cugine, sorelle, ma guardati come oggetti di piacere quando riferiti in generale all’universo femminile. Dalla loro prospettiva, comunque, non vi è dubbio che la verginità rappresenti un bene non tanto detenuto dalle sorelle e cugine ma anche “posseduto” dalla famiglia (cfr. González-López, 2005) e che l’infrazione delle regole sociali e norme sessuali da parte delle adolescenti femmine possa disonorare i familiari e mettere a rischio l’autorità maschile. In altri termini, secondo giovani come Farid e Aziz, il prestigio dell’uomo e l’onore maschile si acquistano in base al controllo che si riesce a esercitare sul corpo delle donne e alla sua capacità di mantenere un ordine morale attraverso una rigida sorveglianza sulla sessualità delle connazionali adolescenti.

A questo proposito, le osservazioni etnografiche condotte a scuola, negli spazi di aggregazione informale, nei quartieri e nei contesti di vicinato frequentati da questi gruppi di adolescenti hanno permesso di comprendere come la sessualità possa configurarsi come terreno di (ri)produzione delle gerarchie di genere che tendono a rinforzare binarismi tra i sessi e visioni di mascolinità egemonica a volte interiorizzate all’interno delle reti etniche (Pagnotta e Stagi, 2010).

Nondimeno, la sfera della sessualità e gli immaginari di genere possono emergere come risorse individuali e collettive che consentono in parte ai figli di riconfigurare la propria posizione nella società di approdo. In alcune giovani arrivate in Italia pre-adolescenti, per esempio, si è evidenziata la tendenza mimetica a incorporare modelli di genere e sessualità prevalenti nella società italiana per accelerare il passaggio, la trasformazione (Bosisio et al. 2005). Diffusa tra questi ragazzi e ragazze è soprattutto la volontà di prendere le distanze da connazionali e riscattare le forme di integrazione subalterna accettate dai genitori, cercando di restituire un'immagine di sé in sintonia con quella dei coetanei italiani. Tuttavia, a giocare un ruolo rilevante in queste ed altre testimonianze è, ancora una volta, il peso delle esperienze e percezioni discriminanti che provengono dall'esterno, soprattutto per coloro che presentano differenze somatiche più visibili; talvolta lo stigma arriva ad influenzare anche i propri desideri più intimi e la sfera affettiva e sentimentale, come esprime in maniera esplicita questa giovane di origine bangladese:

«L’amore non ha confini, si dice, ma parlando di amore, dico che per una famiglia italiana non è bello se il figlio ha una fidanzata come me … una straniera in casa è di sicuro un problema … mi fa triste pensarlo ma essere diversi, come avere un altro colore di pelle … ecco, ti influenza anche in queste cose» (Soualia, 14 anni, di origine bangladese).

Non sempre, però, le testimonianze riportate dai figli di immigrati si riferiscono a definizioni esplicitamente discriminatorie o razziste; anzi, sono frequenti i casi in cui i giovani esprimono un disagio di fronte a situazioni e interlocutori che, nell’intento di “valorizzare” in modo positivo le differenze, li riconducono in maniera stereotipata e reificata alle proprie “radici”. Riferendosi a un episodio a scuola, Zahara, nata a Bologna da genitori tunisini, ha riportato l’imbarazzo suscitato dalle parole di un’insegnante che, per attivare un contesto stimolante in classe, l’aveva sollecitata a “raccontare qualcosa sulla Tunisia, sulla figura della donna araba, sulle tradizioni locali”, assumendo implicitamente che la giovane parlasse l’arabo e adottasse stili di vita e comportamenti da “araba autentica” (Salih, 2005). Una ragazza proveniente dal Camerun ha, invece, confessato di avere provato un certo fastidio, ma anche tratto un certo vantaggio, dalle percezioni provenienti da alcuni autoctoni riguardo la “simpatia” degli africani neri, mentre alcune giovani romene e albanesi hanno espresso indignazione verso lo stigma che associa le donne provenienti dall’Europa orientale e balcanica al mercato della prostituzione.

Le loro esperienze, in sostanza, dipendono non solo dalle persone che incontrano e dagli spazi di accoglienza che vengono loro riservati nei contesti sociali e istituzionali, ma anche dagli stereotipi prevalenti che sono proiettati nelle comunità di origine e nei gruppi nazionali o religiosi a cui appartengono, che possono spaziare da visioni naive, alla “sambo” degli africani neri (Riccio, 2006) agli etnocentrismi relativi all’Islam, fino ai discorsi, tropoi e motivi orientalisti (Said, 1978) che alimentano gli essenzialismi di genere e costruiscono simbolicamente le donne dell’Est attraverso l’immagine dello sfruttamento sessuale, del degrado urbano, del traffico della prostituzione.

All'interno di questo scenario, può allora accadere che in alcuni giovani si faccia più marcato il desiderio di riscattare la propria posizione di marginalità e resistere alle disparità di potere anche attraverso le regole di comportamento sessuale e abbracciando un ideale di donna/uomo diverso da quello che viene generalmente associato ai genitori. Di fronte allo stigma sociale, alcune ragazze provenienti dall’Europa dell’Est hanno cercato, per esempio, di restituire una rappresentazione di sé in sintonia con quelle delle donne e coetanee italiane, associate al cambiamento e alla “modernità occidentale”, in contrapposizione alle immagini “asessuate” e denigranti che spesso sviluppano delle loro madri, relegate al ruolo di colf o badanti e, dunque, costrette a prestare interamente il proprio corpo e la loro capacità riproduttiva al lavoro e alla sfera della “produzione”.

Conclusioni

Muovendo dai dati empirici raccolti nel contesto di Bologna e provincia, il contributo ha indagato i processi che plasmano la costruzione simbolica dei generi e della sessualità fra i giovani di origine straniera e investigato le modalità attraverso cui l’esperienza diretta o indiretta della migrazione può influenzare la fase dell’adolescenza.

La costruzione di relazioni etnografiche con circa 60 ragazzi adolescenti italiani e di origine straniera ha consentito di ricostruire i loro molteplici, e spesso ambivalenti, immaginari e fantasie intorno alla sessualità, le idee di amore, sesso, matrimonio, le pratiche e forme incorporate della femminilità e mascolinità (Csordas, 1990) in un processo di incessante negoziazione con le generazioni precedenti. Le loro biografie evidenziano una pluralità di desideri soggettivi, risorse individuali e collettive che spesso si definiscono dentro a dinamiche di reinterpretazione delle norme sessuali e di genere, ma rivelano anche le contraddizioni, le strutture di potere materiali e i contesti concreti all’interno dei quali essi (ri)definiscono i loro corpi sessuati e costruiscono la loro soggettività di donne/uomini e futuri cittadini nella società italiana.

In questo scenario il corpo, in particolare il corpo delle donne, appare configurarsi dal punto di vista simbolico sia come dispositivo di controllo sociale della sessualità e del potere femminile riproduttivo, terreno di (ri)produzione delle gerarchie di genere, sia come sito politico di contestazione, nonché risorsa che consente in parte ai figli di immigrati di riconfigurare la propria posizione nella società di approdo dei genitori.

Mettendo in discussione quelle visioni statiche e riduttive che hanno rischiato di stereotipare la condizione dei figli di migranti enfatizzando le loro discontinuità con i coetanei autoctoni, queste riflessioni ci aiutano, da un lato, a portare alla luce la loro capacità di azione, la natura contestuale, negoziale e fluida dei loro posizionamenti, le fantasie e risorse che reiterano oppure trasformano i rapporti di forza tra soggetti sessuati (Mattalucci, 2012), così come le pratiche sociali e corporee che negoziano attivamente le richieste avanzate dai genitori e le domande di “assimilazione” provenienti dalla società italiana.

Dall’altro lato, lo sguardo etnografico rivela i difficili dilemmi che sono al centro della loro quotidianità sociale, mostrando come i loro immaginari di genere e sessualità siano costruiti intorno a desideri soggettivi ma anche plasmati dalle aspettative sociali e familiari, dalle regole di condotta morale dei contesti in cui sono inseriti, dalle tecniche del corpo e dagli immaginari che sono veicolati nelle istituzioni pubbliche, dalle trasformazioni che, attraverso i linguaggi globali della rete e le nuove tecnologie, investono i loro diversi mondi locali.

Nondimeno, le loro pratiche e rappresentazioni relative alla sessualità e alla sfera riproduttiva e quelle dei loro genitori si iscrivono dentro alle dinamiche della migrazione, a complesse politiche del corpo e a diseguaglianze strutturali che ci invitano a non concepire la categoria di seconde generazioni come una “entità ontologicamente data, ma come un costrutto analitico che segnala una posizione sociale” (Colombo, 2007: 66), frutto di una serie di relazioni che coinvolgono tanto i figli di immigrati e i loro genitori, quanto la società italiana e gli autoctoni.

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[1] Il progetto è stato finanziato all’interno della Delibera della Regione Emilia Romagna n.1966 del 2009 per la realizzazione del XIII Programma di attività formative per la prevenzione e la lotta contro l’AIDS. Gli esiti della ricerca sono stati discussi più dettagliatamente in un volume edito da Franco Angeli (Marmocchi, 2012).

[2] Muovendo dal contributo centrale di Gayle Rubin (1975), nel corso del tempo si è sviluppata una vasta letteratura antropologica sul rapporto tra genere e riproduzione e sul tema della sessualità che non è possibile in questa sede riportare e discutere in maniera esaustiva; ci limitiamo dunque a segnalare, tra gli altri, in ambito internazionale le raccolte Lancaster e Leonardo (1997), Robertson (2005), Parker e Aggleton (2007) e in ambito nazionale i lavori di Palumbo (1991), Gribaldo (2005) e il volume curato da Forni, Pennacini e Pussetti (2006).

[3] La letteratura di stampo socio-antropologico ha evidenziato come la categoria di “seconda generazione” sia piuttosto ambigua e problematica e come all’interno di questa definizione siano stati a volte ricondotti vissuti molto eterogenei di minori che si differenziano in base al genere, all’età, all’appartenenza culturale, alle condizioni sociali e materiali e alle esperienze migratorie proprie e dei genitori. Per ovviare all’ambiguità del termine parte della letteratura nazionale ha dunque scelto di porre l’accento sulla durata della permanenza in Italia, indicando come seconde generazioni dei figli di emigrati quei giovani che, aldilà del luogo di nascita, hanno compiuto la loro socializzazione nel aese di accoglienza dei genitori (Ambrosini e Molina, 2004; Chiodi e Benadusi, 2006).

[4] Sul ruolo dell’immaginazione come fatto collettivo costitutivo della modernità si veda Appadurai (2001), sulla fantasia e sul desiderio come categorie centrali nell’analisi delle azioni e relazioni sociali si veda soprattutto Moore (2007), mentre per un’analisi di questi costrutti applicati a specifici ambiti di osservazione empirica si rimanda ai lavori di Pinelli (2011) e alla curatela di Mattalucci (2012).

[5] Questo contributo trae giovamento dalla sconfinata letteratura che ha portato alla luce il genere come categoria analitica imprescindibile per interpretare i processi migratori e la mobilità umana. A questo proposito, un settore sempre più nutrito di ricerche e studi ha avuto il merito di evidenziare non solo il ruolo attivo giocato dalle donne nell’intraprendere i progetti migratori, ma anche la crucialità dei generi nell’influenzare le strategie e traiettorie di mobilità transnazionale e la vita quotidiana dei cittadini migranti. Ci limitiamo qui a segnalare solo: Pessar e Mahler (2003), Salih (2003), Mahler e Pessar (2006), Lutz (2010).

[6] Secondo i dati elaborati dall’Osservatorio Provinciale dell’Immigrazione, l’Emilia-Romagna è una delle Regioni italiane con il più alto numero di minori e di adolescenti stranieri, che costituivano nel 2010 quasi il 14% della fascia di popolazione 14-20 anni, mentre nella provincia di Bologna al 31 dicembre 2010 si registravano 21.972 minori stranieri che costituivano il 14,7% del totale dei minori residenti (si veda anche il rapporto di ricerca realizzato dalla Fondazione di ricerca Istituto Carlo Cattaneo).

[7] A questo proposito, il Piano sociale e sanitario 2008-2010 della Regione Emilia Romagna sosteneva già la necessità di comprendere questo fenomeno e aumentare l’accesso e la conoscenza dei servizi locali dei giovani di origine straniera, evidenziando che “una sfida di particolare interesse per una cultura integrata delle politiche è la crescente fisionomia multietnica del mondo giovanile che propone nuovi obiettivi ai Servizi con l’esigenza di approcci interculturali nella programmazione degli interventi, con particolare attenzione alle problematiche degli stranieri di seconda generazione”.

[8] Seguendo le esperienze riportate dai servizi sanitari e i dati epidemiologici regionali, in Emilia Romagna si è valutato che nel 2010 le ragazze di origine straniera, pur rappresentando il 12,4% della popolazione, abbiano effettuato il 40% delle interruzioni di gravidanza e il 60% di parti (Marmocchi, 2012: 19).

[9] Attraverso la somministrazione di un primo questionario a un campione di circa 500 adolescenti di origine straniera, residenti nella Provincia di Bologna, messi a confronto con un gruppo di italiani, sono state indagate e messe a fuoco, da un punto di vista psicosociale, alcune caratteristiche della popolazione degli adolescenti stranieri residenti nella Provincia di Bologna (oltre alla composizione socio-demografica del campione, dati relativi al contesto familiare, scolastico, amicale, ecc.); un secondo questionario ha avuto invece l’obiettivo di sondare le loro conoscenze e le fonti di informazione relative alla sessualità, alla contraccezione, alle infezioni sessualmente trasmissibili (IST) e ai servizi a cui i giovani possono rivolgersi per consulenze e informazioni su questi temi, gli atteggiamenti dichiarati, i comportamenti sessuali (a rischio e protettivi) diffusi nel campione degli adolescenti, i principali contesti e interlocutori di questi temi. Si veda: Marmocchi (2012: 61-115)

[10] Tale numero è in realtà riferito ai soli giovani con i quali si sono instaurate relazioni di fiducia privilegiate sul campo e non a tutti coloro che, frequentando gli istituti professionale e/o partecipando alle attività di “educazione alla sessualità” promosse nelle scuole dallo Spazio Giovani di Bologna, hanno contribuito alla ricerca in modo più indiretto.

[11] Benché sia stato possibile incontrare e conversare anche con giovani di altre nazionalità, nella ricerca sono stati in particolare coinvolti 11 adolescenti di nazionalità marocchina (di cui 7 ragazze e 4 ragazzi), 7 giovani di nazionalità romena (di cui 4 ragazze), 6 di origine albanese (di cui 4 ragazzi) e altrettanti di nazionalità tunisina (di cui 5 ragazze), 4 ragazzi di origine bangladese, 6 di origine cinese (di cui 3 ragazze), un ragazzo e 3 ragazze di nazionalità pakistana, 4 adolescenti nate e cresciute in Ucraina e tre nelle Filippine, anche se è stato comunque possibile effettuare conversazioni in setting informali con molti altri giovani, appartenenti anche ad altre nazionalità.

[12] Questi corsi, gestiti da diversi enti di formazione e istruzione professionale approvati e finanziati dalle Regioni, dalle Province e dal Fondo Sociale Europeo, sono rivolti a giovani di età superiore ai 16 anni, in abbandono della scuola superiore di secondo grado. Tra questi, En.aip Bologna, un Ente morale di diritto privato riconosciuto e accreditato dalla Regione Emilia Romagna (da ottobre 2011 Oficina Impresa Sociale s.r.l.), è stato individuato nel corso della ricerca come uno degli enti di formazione più attivi nel contesto locale che opera nell’area dell’orientamento e nella formazione al lavoro e sul lavoro e che ha permesso, secondo i dati prodotti nella documentazione interna, a oltre 10.000 giovani di raggiungere una qualifica professionale e nella quasi totalità di essere inseriti nel mercato del lavoro.

[13] Le interviste hanno coinvolto soprattutto: giovani membri dell’associazione AssoCina, “la prima e principale associazione delle nuove generazioni italo-cinesi nati o cresciuti in Italia” (www.associna.com), nata spontaneamente sul web nel 2005 e poi divenuta nel tempo un’associazione di respiro nazionale; membri della rete G2-Seconde Generazioni, forse l’organizzazione nazionale più nota, costituita da giovani di origine straniera nati e/o cresciuti in Italia impegnati nella lotta all’accesso alla cittadinanza e alla costruzione delle pari opportunità e diritti (www.secondegenerazioni.it); ragazzi e ragazze attivi nell’associazione Giovani Musulmani Italiani (GMI) sorta nel 2001 dall'unione di altre associazioni islamiche giovanili ed oggi principale realtà associativa dei cittadini migranti di fede musulmana (www.giovanimusulmani.it). Per un'analisi dettagliata dell'esperienza di GMI si rimanda ai lavori di Frisina (2007), mentre per una riflessione sui processi attraverso cui i figli di migranti “prendono la parola” nello spazio pubblico attraverso queste forme associative si vedano Riccio e Russo (2010).

[14] In particolare, la ricerca si è focalizzata su un gruppo di donne, prevalentemente di origine marocchina e tunisina, che hanno frequentato nel 2010 il laboratorio di sartoria nel contesto di Zola Predosa, che rientra tra le attività promosse dalla Commissione Pari Opportunità in diversi contesti della Provincia all’interno del “Progetto Semenzaio”, inteso come un luogo di incontro e socializzazione per donne migranti ed italiane. Dall’altro lato, l’attenzione si è focalizzata sul gruppo “Donne in cammino”, composto da donne di diversa nazionalità, soprattutto provenienti dall’Est Europa, all’interno di un progetto promosso dalla Regione Emilia-Romagna e avviato dal Centro delle Famiglie di Casalecchio di Reno.

[15] Si segnala che da questo momento in poi i nomi utilizzati per designare gli informatori saranno fittizi per rispetto dell’anonimato e la privacy dei soggetti coinvolti nella ricerca.