Sostenibilità e partecipazione in due aree rurali marginali: una comparazione di progetti di sviluppo locale

Oscar Biffi


Abstract

The aim of this research is to study attempts of transition to sustainability in marginal rural area of the Italian mountains, comparing two cases characterized by distinct historical, geographical and cultural contexts. The San Martino and Stura valleys are compared and contrasted regarding their investments on local sustainable agriculture and ecomuseums. In both cases, local associations and institutions value heritage and landscape conservation. However, collaboration and communication between local networks and administrations is notable in one case and absent in another. Secondly, both the experiences - which to a point represent a bottom-up and a top-down sustainability initiative – suffer from a lack of democratic decision-making in their internal governance.

Keywords

Sustainability, marginality, ecomuseums, participation, democracy, social capital, preservation, development.

Quale significato assume la riconfigurazione delle pratiche legate alla sostenibilità declinata in ottica locale? È possibile conciliare i tentativi di sviluppo territoriale col rispetto delle peculiarità ambientali e sociali presenti in un luogo? Qual è il ruolo dei degli enti locali, culturali e politici, per l’attuazione funzionale di questi progetti territoriali sostenibili? Quale effettivo grado di incidenza assume l’assenza di capitale sociale per il mantenimento e lo sviluppo delle azioni progettuali volte al raggiungimento della sostenibilità territoriale? Che significato acquistano le pratiche di salvaguardia e rivalorizzazione del patrimonio locale, naturale e antropico, nei contesti di marginalità?

Sono questi alcuni degli interrogativi che hanno accompagnato la mia analisi etnografica svolta in chiave comparativa su due campi, attraverso un lavoro di osservazione compiuto in due aree rurali marginali del Nord Italia: la Valle San Martino (BG-LC) e la Valle Stura di Demonte (CN).

L’intento della ricerca era di ripartire da un’idea di sostenibilità non vincolata ai soli esiti espressi in materia di politica ambientale, ai documenti di progettazione e agli obiettivi dichiarati dalle amministrazioni politiche, bensì focalizzata sullo studio delle relazioni che avvengono sul campo (Ronzon, 2008b) che determinano lo sviluppo e la concretizzazione dei progetti legati alla sostenibilità (Grasseni, 2009).

Per poter affrontare un’analisi delle pratiche sostenibili attuate nei due contesti esposti, era necessario approfondire le rappresentazioni della località agìte in seno ai gruppi osservati. Partendo dal territorio, dalla sua conformazione storica e geografica, ho così scelto di leggere ed interpretare i processi di ri-territorializzazione (Raffestin, 1984, 2005,) che stanno avvenendo nelle due aree. Mentre l’analisi storica mi ha consentito di individuare la sapienza operativa, le forme di self reliance [1] (Tarozzi, 1998), gli equilibri e le cause di rottura tra gruppi umani e territorio, lo studio del territorio in chiave geografica mi ha permesso di “leggere” il luogo per interpretarne l’ordine sociale prodotto dalle culture osservate [2] . Ad ogni modo, se l’approfondimento storico e geografico mi ha consentito di comprendere la cultura materiale, le capacità tecniche e l’ideologia dei gruppi che abitano il territorio [3] , l’etnografo, dice Geertz (1987), non studia i villaggi bensì studia nei villaggi. Per questa ragione, ho scelto di affiancare l’analisi storico-geografica dei due territori presi in esame al metodo dell’osservazione partecipante, per pervenire ad una descrizione densa (Geertz, 1987) che mi permettesse di analizzare i due contesti nella loro complessità ed il senso dei luoghi (Ronzon, 2008a) attribuito dagli abitanti al loro territorio.

Dalla ricerca è emerso come la sostenibilità sia il prodotto complesso di attività contestualmente situate espresso da comunità di pratica (Lave, Wenger, 1991), cioè associazioni, reti ed istituzioni politiche locali che operano per il raggiungimento di questo fine [4]. Nel dettaglio, ho sostenuto nel lavoro come la ricerca di sostenibilità – economica, ambientale e sociale – nelle aree marginali sia un processo dinamico che, nel suo grado di maggior efficacia, riesce ad assicurare ad una comunità l’opportunità di svilupparsi economicamente e socialmente nel rispetto delle specificità, degli elementi significativi e strutturali del proprio territorio.

Per ripensare le pratiche sostenibili di transizione ed innovazione territoriale era tuttavia necessario ripartire da un’analisi qualitativa del luogo. Come sostiene Lelio Pagani (2007), in ogni luogo, oltre agli aspetti del territorio, emergono altresì le forme del paesaggio, inteso come realtà complessa che rivela il volto dei luoghi stessi esprimendo dei precisi elementi identitari che li rendono riconoscibili. L’importanza del paesaggio, continua Pagani (2007), si mostra nel rendere riscontrabili quei valori immateriali e intrecciati alle storie soggettive. In questa dialettica tra persistenza e novità, tra linee di continuità ed elementi perturbativi, si sostanziano in questo modo le sensazioni insite nelle nostre esistenze (Pagani, 2007) insieme alle molteplici forme dell’abitare. Un abitare che rimanda al prendersi cura (Ferraresi, 1991) del proprio territorio, «riconoscendo che in ogni luogo c’è altro oltre all’uomo, e di più rispetto alle dimensioni visibili, la cui presenza e persistenza richiede rispetto e responsabilità» (Bonesio, 2002:85). Per riscoprire questo “spazio-esistenziale”, siamo quindi chiamati a comprendere le relazioni fondamentali tra l’uomo e l’ambiente (Norberg-Shultz, 1989), ricordandoci come l’uomo possa dire di abitare veramente solo quando riesce ad orientarsi in un ambiente e ad identificarsi con esso esperendone il significato. L’abitare rimanda così a una serie di attività che interessano le opere di ricostruzione del territorio odierno (Magnaghi, 2000); una ricostruzione che prende il via dal «ri-apprendimento di tecniche costruttive appropriate alla qualità del luogo e di conoscenze ambientali finalizzate a una nuova alleanza fra uomo e ambiente» (Magnaghi 1991:42) [5] .

Con l’ausilio degli strumenti metodologici dell’antropologia visiva (elicitazione fotografica, analisi di mappe culturali, geografiche e cartografiche) e delle scienze sociali più in generale (interviste strutturate, semistrutturate e biografiche) volevo dimostrare come le pratiche della sostenibilità messe in atto dai soggetti osservati risultassero strettamente legate alle modalità di percezione, interpretazione e rappresentazione del territorio in cui vivono e agiscono in relazione agli elementi materiali e immateriali del luogo. Più specificamente, è nell’ambito degli studi territoriali che ho cercato le declinazioni concrete della teoria della sostenibilità locale, in particolare: nell’antropologia dell’ambiente, nella geografia del paesaggio, nella sociologia dei consumi (Decrescita, Economia solidale) e nel pensiero degli esponenti della Scuola territorialista italiana [6].

Attraverso il ricorso a queste correnti di pensiero, tese a rimarcare la necessità di una riscoperta complessa dei concetti di luogo e territorio, nei loro aspetti ambientali, urbanistici, culturali e sociali, il presupposto è che la sostenibilità – ambientale, sociale, economica – si ottenga attraverso la dimensione locale, in particolare da quelle occasioni di ri-valorizzazione delle risorse territoriali seguite da una ri-localizzazione (Rabhi, 2004) economica e solidale, che avanza come sistema alternativo alla logica globale massificante [7].

Nella ricerca, ho avvalorato il pensiero secondo cui le pratiche sostenibili nelle aree marginali si concretizzerebbero, differentemente da altre zone, mediante attività ponderate di salvaguardia e ri-valorizzazione delle peculiarità locali; specificità costituite da beni materiali o immateriali inscindibilmente legati alla storia di questi luoghi e delle loro popolazioni.

La scelta di eseguire un’etnografia comparativa è stata motivata dalla necessità di dimostrare come la sostenibilità non attenga ad una generica definizione o ad una politica astratta calabile dall’alto ma rappresenti, piuttosto, il risultato di molteplici pratiche situate che si sedimentano attraverso movimenti top-down e bottom-up costituiti da contrattazioni, scontri, scelte, riletture culturali e geografiche del territorio, motivazioni ambientali, economiche e di giustizia sociale. Più nel dettaglio, ho ipotizzato come l’efficacia di queste pratiche sostenibili non possano prescindere da azioni di concertazione democratica tra enti territoriali e popolazione locale; vale a dire, dalla progettazione politica territoriale e dal contributo partecipativo di alcuni strati della popolazione che calibrano le proprie pratiche in relazione al luogo in cui agiscono, ostentando in questo modo il livello di capitale sociale presente. La convinzione è che il capitale sociale – inteso come l’insieme delle reti di relazioni cooperative tra attori individuali e collettivi che si mobilitano in vista di uno scopo (Andreotti, 2009) – non possa sussistere indipendentemente dalle istituzioni politiche locali (Andreotti, 2009) e che la sua diffusione e suo il rafforzamento all’interno della reti territoriali si riveli condizione necessaria ai fini di uno sviluppo locale sostenibile [8].

Le due zone mostrano problematiche geomorfologiche simili che costringono gli abitanti ad una condizione di marginalità economica e sociale. Inoltre, le due Valli presentano le medesime istituzioni locali, Comunità montane ed Ecomusei, adibite alla promozione e al mantenimento del territorio. In ultima istanza, entrambe le aree fanno parte dell’asse IV “LEADER” del PSR 2007-2013, finanziato dall’UE e gestito dai corrispondenti G.A.L. (Gruppi di azione locale) relativo alle aree rurali marginali.

La mia attività di ricerca in Valle San Martino è iniziata nel settembre 2010 – in qualità di operatore ecomuseale [9] – e si è conclusa nell’ottobre del 2013.

Per Valle San Martino [10] si intende il territorio compreso tra la sponda orientale del fiume Adda e la Valle Imagna (BG). Estesa da Vercurago (LC) ad Ambivere (BG), i 33 Kmq della Valle San Martino sono delimitati a nord dalla città di Lecco, ad est dalla Valle Imagna, a sud “dall’Isola bergamasca” e ad ovest dal fiume Adda. Il territorio, che rappresenta un continuum tra le Prealpi e l’alta Pianura Padana, mostra caratteristiche geomorfologiche e climatiche differenti che hanno favorito, negli anni, il differenziarsi delle attività e delle categorie lavorative. Mentre nel fondovalle e nelle pianure limitrofe si è assistito, nel corso del Novecento, all’ampliamento del settore industriale e dell’agricoltura estensiva, il territorio collinare e montano, costretto a misurarsi coi fattori originari che lo caratterizzano – quota, pendenza, accidentalità della superficie, clima – (Bonaiti, 2009) è stato teatro di un forte spopolamento e di una drastica diminuzione delle attività lavorative tradizionali.

Se, storicamente, la Valle San Martino ha da sempre presentato una produzione agricola quantitativamente poco competitiva, considerata la conformazione e l’ubicazione del territorio, le opportunità odierne per l’agricoltura autoctona sono rappresentate dalla vicinanza dei mercati di consumo per la vendita dei prodotti, dalla crescente sensibilità dei consumatori per la qualità e la sicurezza alimentare, dalla domanda sociale di attività legate al tempo libero, dalla formazione ambientale e dal turismo (Mazzeo, 2008). Per comprendere i processi di transizione ed innovazione sostenibili di questo territorio ho scelto di focalizzarmi sull’osservazione l’analisi di un’Associazione di Agricoltori della Valle, sui progetti in cui è coinvolta, sulle reti di collaborazione tessute dal basso, sulle dinamiche di concertazione esistenti fra queste reti e le istituzioni locali e sull’influenza del capitale sociale nella costruzione di network locali sostenibili.

Come mostrano le motivazioni e le modalità lavorative adottate dai soci, si potrà notare come in quest’area rurale marginale la classe agricola in questione stia tentando di rispondere localmente al flusso dettato dalle grandi catene di distribuzione alimentare, re-inventando la propria figura di contadino e “artigiano dell’ambiente” (Sennet, 2008) in attore territoriale politicamente attivo. I membri dell’Associazione Agricoltori Valle San Martino risultano a mio avviso coinvolti a pieno titolo in quel processo di ri-contadinizzazione (Van Der Ploeg, 2009) che li vede affrontare e combattere attivamente la propria condizione di marginalità per mezzo di soluzione e proposte innovative volte a costruire con la società locale e le istituzioni territoriali, una nuova sensibilità nei confronti di tematiche quali la difesa del territorio, la produzione, la divulgazione ed il consumo critico del cibo locale.

L’Associazione Agricoltori Valle San Martino, istituita nel 2009, è nata col fine di creare una rete aperta e flessibile, costituita da piccoli imprenditori agricoli della zona, che incoraggiasse lo scambio e la condivisione di risorse umane e materiali con l’obiettivo di sviluppare un’agricoltura sostenibile all’interno della Valle. Per questa ragione, è dalle peculiarità naturali del territorio che l’Associazione ha deciso di intraprendere e costituire la sua opera progettuale. Consapevoli di non poter competere, in termini quantitativi [11], con le produzioni delle pianure limitrofe, i membri dell’Associazione (oggi quattordici) mirano ad un’agricoltura di qualità nonché alla salvaguardia dei terreni della Valle dalla speculazione edilizia, convinti che la loro modalità di coltivazione, oltre a garantire una fonte economica di reddito, debba aspirare ad un presidio ambientale che scongiuri il degrado e l’abbandono totale di consistenti porzioni del territorio collinare e montano (Mapelli, 2011a).

Nel tentativo di tessere relazioni economiche che rinvigoriscano un’economia locale ancora precaria, l’Associazione Agricoltori ha dato il via ad azioni di collaborazione con partner interni ed esterni alla Valle; una strategia economica ben ponderata, protesa, da un lato, alla costruzione di un’immagine seducente della Valle da rivendere al consumatore e, dall’altro, al tentativo di accrescere la sensibilità delle amministrazioni al supporto dell’agricoltura locale.

Stimolando, in un primo tempo, la creazione di reti collaborative con le realtà e le istituzioni culturali della Valle (Comunità Montana, Ecomuseo e Rete Turistica), l’Associazione è oggi impegnata nello scambio di conoscenze e di esperienze coi movimenti economici e solidali presenti sul territorio. Come dimostrato dall’analisi dei questionari emersi attraverso il progetto di mappatura culturale promosso dall’Ecomuseo della Valle San Martino [12], il fatto che in questa zona il valore della terra e dell’economia agraria non abbia mai avuto un ruolo preminente sta spingendo i soci dell’Associazione a stringere legami significativi coi neonati gruppi di acquisto solidale (GAS) del territorio e delle Province limitrofe o ad accettarne il sostegno. È proprio all’interno di questa porzione di consumatori critici che gli agricoltori dell’Associazione si stanno inserendo, nel tentativo di diffondere per gemmazione relazioni economiche dirette nel territorio locale bypassando le grandi catene alimentari. Questa nuova formula di distribuzione non soltanto ha favorito il ritorno in Valle di colture di nicchia ormai dimenticate (mais scagliolo, farro, segale, orzo nudo, patate da seme), ma ha permesso agli associati di diversificare la produzione ottenendo ricavi in alcuni casi superiori di ben cinque volte all’ordinario (Mapelli, 2011a). Ad ogni modo, il progetto di ri-localizzare la sostenibilità socio-economica e ambientale della Valle San Martino non si esaurisce nella collaborazione coi GAS del territorio, ma si estende nell’adesione a progetti economici territoriali promossi dai movimenti solidali delle province limitrofe (Grasseni, 2014b) [13].

A questo riguardo, se da un lato l’Associazione Agricoltori è convinta che queste pratiche di economia solidale possano favorire la costruzione di un modello locale di sviluppo fondato sulla solidarietà delle transazioni economiche, dall’altro queste esperienze danno vita nei membri ad una nuova idea di territorio, pensato in termini di conservazione e valorizzazione sostenibile, dove l’immagine del luogo stesso, vissuto e raccontato intimamente come marginale, difficile ed improduttivo, viene ridisegnato e rivenduto al consumatore come esclusivo e custode di prodotti nicchia. La scelta dei soci di collaborare a progetti solidali come Spiga&Madia [14]non si limita, per questo motivo, alla consapevolezza di aderire ad un’iniziativa coerente coi principi espressi nello statuto dell’Associazione, ma si presenta come l’opportunità di dare rinomanza sul mercato locale ad un’immagine qualitativa rappresentata da prodotti che rievocano la tradizione e l’identità dei coltivatori di montagna.

In seno al gruppo è così cresciuta la consapevolezza che per riconquistare il mercato locale non basti lavorare su un cambiamento degli stili di vita strutturato sui soli proclami della “finanza etica”, ma sia necessario intraprendere un’opera di seduzione del consumatore che passi dalla costruzione di un’immagine qualitativa, biologica e non massificata del prodotto e del territorio che lo produce. Le coltivazioni in atto all’interno dell’Associazione, difficilmente reperibili nelle produzioni estensive delle pianure confinanti, rispondono ai principi dell’agro-biodiversità, della tradizione e della valorizzazione della cultura alimentare locale. All’iniziale produzione di sementi dimenticate di ortaggi e legumi è stato così affiancato, negli tre ultimi anni, un lavoro di ri-valorizzazione, coadiuvato dalla Comunità Montana, di antiche varietà di cereali minori [15] (farro, segale, grano saraceno), mais[16] (Mais Scagliolo di Carenno) e patate [17] (Patata Bianca).

Sono diverse le motivazioni che hanno spinto l’Associazione ad aderire a questi progetti di valorizzazione delle antiche cultivar. Se la decisione degli agricoltori di coltivare questa gamma di articoli di nicchia basati sul principio dell’agro-biodiversità rappresenta, da una parte, una sintesi ponderata delle opportunità espresse dal territorio in termini di clima e limitatezza di spazio, dall’altra, si pone come una strategia calibrata, costituita da un insieme di pratiche contingenti, che mira alla costruzione di un’immagine qualitativa del territorio e dei suoi prodotti, studiata al fine di riconquistare una fetta di consumatori del mercato locale.

La scelta dell’Associazione di ri-valorizzare, mediante queste pratiche di recupero varietale, la tradizione e la cultura alimentare territoriale, che avevano segnato nei secoli la zona connotandola dal punto di vista della sussistenza e del paesaggio, rimanda certamente ad un impegno concreto volto alla salvaguardia del bene collettivo rappresentato dal territorio rurale, ma anche alla volontà di creare una filiera solidale di distribuzione locale in grado di eludere le grandi catene alimentari attraverso il perfezionamento di un’agricoltura sostenibile, qualitativa e di nicchia, capace di dare slancio economico alla Valle. Infatti, se dalle testimonianze da me raccolte presso i soci e dalla partecipazione alle riunioni si riscontra nel gruppo l’intento effettivo di garantire e ripristinare la biodiversità delle produzioni per ridare dignità e nuova linfa al territorio, emerge contemporaneamente come la difficoltà di produrre e vendere in questa zona possa essere fronteggiata per mezzo della creazione di un’immagine diversa da proporre al consumatore: un’immagine pulita, elitaria e antitetica rispetto a quella offerta dall’agricoltura estensiva di pianura, rinvenibile grazie alla coltivazione di prodotti di nicchia, qualitativi e non standardizzati. Parimenti, per realizzare questo progetto i membri ritengono indispensabile che quest’immagine sia coadiuvata da una pubblicizzazione delle modalità di produzione legate all’agricoltura biologica e libera dalla meccanizzazione, aiutata da una rete di distribuzione commerciale locale.

Se, riguardo a quest’ultimo punto, il tentativo dell’Associazione di sostenere e allacciare rapporti commerciali con la rete economica locale, in particolare coi panificatori, i ristoranti e le strutture a ricezione turistica, si sta faticosamente concretizzando, i soci sono convinti della necessità di sensibilizzare le amministrazioni comunali e le istituzioni culturali affinché intervengano nella salvaguardia delle aree agricole contro la speculazione edilizia e l’imboscamento, nell’opera di sensibilizzazione della popolazione locale verso le tematiche dell’agricoltura sostenibile locale e nell’investimento di un mulino che funga da polo di molitura, stoccaggio e trasformazione dei cereali e delle castagne ai fini della costituzione di una filiera corta della Valle.

In attesa della realizzazione di questo mulino, l’Associazione si sta pertanto muovendo sull’obiettivo della difesa del territorio e del suolo agricolo adoperando, in qualche caso, la strada della complicità e della persuasione nei confronti delle giunte comunali, in altri di contestazione. Su questa linea, se la mancata cura delle zone rurali e boschive sta infatti danneggiando seriamente l’agricoltura locale, la continua cementificazione delle aree vocate all’agricoltura, già penalizzata dalla difficoltà di coltivare in terreni in prevalenza limitati e scoscesi, sta contribuendo ad acuire nei soci una sensazione di sfiducia nei confronti della maggior parte dei Comuni del territorio. Questa percezione di lontananza delle amministrazioni comunali sta infatti generando, da un lato, movimenti di protesta contro le giunte ritenute “recalcitranti”, concretizzatisi nella stesura di lettere aperte pubblicate sui blog locali e, dall’altro, nella prosecuzione dell’opera di persuasione condotta presso le amministrazioni considerate “amiche”, come nel caso di Monte Marenzo (LC) [18]. Il risvolto di questa situazione si concreta in una serie di conseguenze dall’impatto fortemente negativo per l’Associazione stessa e le sue linee programmatiche future. La disponibilità dei membri ad imbastire rapporti di collaborazione con esponenti di diverso credo politico lascia pensare ad una sfiducia non preventiva verso le amministrazioni comunali ma generata dal rifiuto o dalla reticenza delle stesse ad aderire alle tematiche e alla progettualità promossa dall’Associazione. Resta da chiarire, all’opposto, se la resistenza di alcune giunte alle richieste dell’Associazione sia anticipata e viziata da differenti visioni politiche o resti connaturata da una mentalità che non crede appieno nella salvaguardia e nella promozione della risorsa agricola in questo territorio (Biffi, 2014).

Detto ciò, mentre la mancata collaborazione con le amministrazioni comunali sta conducendo ad un disfacimento del senso di fiducia dei membri nei confronti dell’efficacia progettuale dell’Associazione stessa, i soci che dichiarano di aver smarrito l’iniziale fiducia nell’operato del gruppo propongono piuttosto di lavorare, senza l’intermediazione delle giunte, sul senso critico della cittadinanza, attraverso un lavoro di comunicazione e sensibilizzazione supportato dalle istituzioni culturali alle tematiche dell’agricoltura sostenibile. Ad onor del vero, per quanto riguarda il sostegno delle istituzioni locali, benché in principio il lavoro della Comunità Montana si sia mostrato decisivo per il sostegno dei progetti dell’Associazione Agricoltori della Valle San Martino, esso sembra tuttavia essersi fermato ad un primo momento propulsivo. Gli agricoltori lamentano a riguardo lo scollamento tra le azioni di ricognizione ecomuseale e quelle di pianificazione territoriale ed economica della Comunità Montana. Uno scollamento che, in effetti, ha portato alla non continuazione del progetto di mappatura e ad un suo sviluppo in progetti di pianificazione partecipata (Grasseni, 2014a).

Le lacune generate dalla mancata azione collaborativa dell’Ecomuseo, che, a detta degli agricoltori, agirebbe sulla sola promozione dei reperti di interesse storico e archeologico senza operare su una pubblicizzazione delle questioni agricole riguardanti la difesa del suolo e la ricerca storica della antiche varietà di cultivar locali, hanno condotto i soci alla necessità di inserire una propria figura all’interno della Rete Turistica V.S.M. in modo da incanalare l’attenzione verso le tematiche della sostenibilità agricola . In questi anni, l’Associazione ha puntato ad invertire il trend di un’agricoltura ormai insostenibile, ed improduttiva per la propria zona, mirando ad una biodiversità colturale e culturale, rappresentata da una vasta e differente gamma di specie, piante e prodotti da diffondere presso la comunità locale. A questo proposito, l’Associazione Agricoltori ha impostato una modalità diretta, vìs a vìs , di comunicare il cibo e i propri metodi di produzione alla società locale, attraverso una campagna informativa (serate a tema) incentrata sulla pubblicizzazione del proprio lavoro e sul consumo critico. Un percorso impostato sul senso del cibo (Scarpi, 2008), sul gusto e l’allenamento dei sensi come atto di resistenza contro «la distruzione dei sapori e contro l’annichilimento dei saperi» (Montanari, 2005:80), sull’eticità degli scambi e la riscoperta del valore territoriale.

Attraverso il mantenimento delle aree verdi e la valorizzazione dell’agricoltura locale, elementi indicati dai soci come necessari per la salvaguardia e il rilancio della località, l’Associazione Agricoltori, proseguendo nel suo tentativo di resistenza alla condizione di marginalità in cui è costretta ad operare, sta tentando di divincolarsi dall’influenza esercitata dalle grandi catene di distribuzione facendo fronte alle limitate potenzialità del territorio in termini di resa quantitativa. La scarsa disponibilità di suolo agricolo e le condizioni climatiche adatte alla coltivazione di colture resistenti e di nicchia stanno dando vita ad una strategia di ricostruzione dell’immagine della Valle, dei suoi prodotti agricoli e delle modalità di coltivazione ad opera dei membri del gruppo. Lo sforzo di restituire al consumatore locale un’immagine qualitativa e seducente del territorio, del prodotto e delle modalità di produzione, diviene così la strategia più efficace per sopravvivere economicamente. Per tale ragione, l’ormai consolidata scelta di valorizzare la biodiversità attraverso la produzione di una molteplicità di prodotti di nicchia finisce col connotare sia uno stile imprenditoriale sia una necessità dettata dalle caratteristiche geomorfologiche della Valle; decisione rivenduta al consumatore come una svolta culturale qualitativa, lontana dall’immagine massificata, standardizzata e poco “pulita” (Petrini, 2011) che caratterizza l’agricoltura estensiva della pianura.

Questo modus operandi, che ha catturato l’interesse nonché il sostegno dei GAS e dei consumatori critici, sta permettendo agli agricoltori di resistere da un punto di vista economico, anche se la necessità di trovare soluzioni convergenti con le amministrazioni locali sembra altrettanto decisiva. Se la continua cementificazione delle aree ad uso agricolo e la noncuranza delle superfici verdi e boschive possono influire negativamente sull’operato, ancora in essere, dell’Associazione, l’opera di persuasione politica attuata presso le amministrazioni comunali può a questo punto rivelarsi determinante per il futuro del gruppo stesso e dell’economia agro-turistica della Valle, a patto che questa condotta viaggi parallelamente all’azione di sensibilizzazione verso le tematiche sostenibili legate al cibo intrapresa presso la popolazione locale.

Ai fini di questa ricerca, l’approccio comparativo doveva rivelarsi funzionale, attraverso l’identificazione delle differenze e delle somiglianze rilevate nelle pratiche di ri-territorializzazione (Raffestin, 1984) presenti nelle due Valli, a chiarire le dinamiche e le motivazioni che accompagnano i processi di transizione ed innovazione sostenibili nelle aree marginali. Più specificamente, volevo analizzare non solo due contesti che avessero caratteristiche sociali (spopolamento), economiche e ambientali (geomorfologiche e climatiche) similari, ma anche due aree in cui i processi di ri-localizzazione (Rabhi, 2004) risultassero innescati da tentativi di rivalorizzare alcune peculiarità locali e rappresentative di questi luoghi ad opera delle rispettive popolazioni.

Per questa ragione, ho individuato nella Valle Stura di Demonte (CN) la possibilità di compiere la mia seconda esperienza sul campo, svolta in un arco di tempo compreso tra il 2011 e il 2013.

La Valle Stura di Demonte, situata fra le Alpi Marittime e le Alpi Cozie, si estende per 60 km dalla pianura cuneese di Borgo San Dalmazzo (575 m slm.) fino al Colle della Maddalena (in francese Col de Larche, 1996 m. s.l.m.) [19]. Nell’ultimo secolo anche in Valle Stura, come nel resto delle Valli cuneesi e nella stessa Valle San Martino, si è verificato un graduale e massiccio spopolamento [20]. Tra le cause di questo fenomeno rientrano la severità del clima, l’asprezza del territorio e la difficoltà negli spostamenti; elementi che condizionano quotidianamente la vita della comunità nei paesi dell’Alta Valle. Ad andamenti demografici positivi registrati nei comuni di Bassa Valle e adiacenti a Cuneo (Borgo San Dalmazzo, Roccasparvera e Gaiola), dove si è assistito, anche qui, alla proliferazione e all’espansione del tessuto urbano, delle attività commerciali e di quelle artigiane, si contrappongono situazioni di estremo abbandono nelle aree di montagna più interna, soprattutto nei centri meno sviluppati turisticamente e posti su valli laterali più difficilmente accessibili in cui a sopravvivere sono soltanto le attività legate all’allevamento e alla pastorizia [21].

È in questa dialettica fra tradizione e modernità che nasce l’iniziativa della ComunitàMontana della Valle Stura di Demonte, la quale, a fianco della Regione Piemonte, ha deciso nel corso degli anni Ottanta di rivalorizzare economicamente e culturalmente il territorio rilanciando l’allevamento ovino e la pastorizia.Un progetto di recupero e valorizzazione di due attività distintive del luogo che mira asviluppare un’economia locale basata sul ripristino di una rete commerciale locale e su un turismo sostenibile che rispetti la specificitàdella cultura e del territorio della Valle.

L’analisi dei processi di transizione ed innovazione sostenibili in questo territorio era quindi volta ad esaminare il lavoro compiuto dalla Comunità Montana e dall’Ecomuseo, da un punto di vista culturale ed economico, atto a salvaguardare l’allevamento ovino e la pastorizia oltre che a ricreare un movimento sociale e lavorativo legato al loro rilancio. Nello specifico, il mio obiettivo era quello di rendere esplicite le dinamiche e le motivazioni che hanno spinto Comunità Montana ed Ecomuseo della Pastorizia a favorire un processo di rinascita dell’allevamento e della pastorizia, nonché a ricreare una rete di relazioni che desse vita ad occasioni concrete di lavoro.

Se nella storia della Valle Stura l’allevamento ovino, accostato ad un’agricoltura finalizzata al consumo familiare, ha rappresentato per queste comunità un fattore socio-economico favorevole alla presenza umana sul territorio nonché alla gestione e alla conservazione del paesaggio montano (Martini, Pianezzola, 2001) [22], l’abbandono cospicuo dell’attività pastorale ha causato disagi non solo dal punto di vista economico, ma anche nella gestione dell’ambiente naturale legato alla manutenzione delle aree verdi, alla prevenzione degli incendi e al rischio idrogeologico (Verona, 2006).

Con l’obiettivo di conservare un tessuto sociale che sapesse coniugare il mantenimento delle tradizioni e stimolare lo sviluppo di settori come l’artigianato, il commercio e il turismo, unitamente alla volontà di conservare il paesaggio naturale dal degrado, Comunità Montana ed Ecomuseo hanno predisposto la loro operatività progettuale per rilanciare la pastorizia, in termini zootecnici e culturali, in vista di un rilancio socio-economico della Valle. Sono stati questi i motivi che hanno spinto la Comunità Montana a lavorare, nel corso degli anni Ottanta, al recupero di una razza di pecora autoctona della Valle, ormai ridotta a poche decine di unità: la pecora sambucana.

Se nei primi anni Ottanta la FAO indicava la Sambucana come razza vulnerabile – tanto che nel 1992 la CEE arrivò a considerarla ormai a rischio di estinzione – (Martini, 2001), oggi il lavoro quasi trentennale compiuto dai tecnici della Comunità Montana ha portato il numero dei capi ad un totale di circa 5.000 unità.La Sambucana è un ovino di taglia medio-grande, con pesi medi di 93 chilogrammi nell’ariete e di 73 chilogrammi nella pecora. Si tratta di un animale particolarmente rustico, adatto all'ambiente e alle caratteristiche di questa Valle. Nonostante le testimonianze e le fonti degli allevatori locali attribuiscano a questa pecora un’origine autoctona e risalente al XVIII secolo, la provenienza della Sambucana rimane incerta [23] . Ancora oggi, la razza è allevata generalmente nei Comuni della Valle Stura di Demonte e da qualche allevatore nel cuneese. Il lavoro si è quindi svolto su due binari, che hanno finito col sovrapporsi e col richiamarsi reciprocamente: il recupero zootecnico della Sambucana e la commercializzazione del prodotto, svolto principalmente dalla Comunità montana; la ricerca storica e la valorizzazione culturale della pastorizia in Valle Stura, condotte dall’Ecomuseo.

L’idea di investire sulla commercializzazione dell’agnello sambucano e dei prodotti di questa razza ha preso corpo nel 1986, con l’allestimento della prima Mostra di razza ovina sambucana inserita all’interno della Fiera dei Santi di Vinadio; evento che si svolge annualmente l’ultima domenica di ottobre. L’iniziativa aveva il duplice obiettivo di recuperare l’antica Fiera dei Santi, «un tempo occasione per commercializzare gli ovini provenienti dagli alpeggi, e creare un valido strumento di stimolo per gli allevatori a migliorare i propri ovini» (Brignone, Martini, 2001:136) e di valorizzare la razza sambucana. Oggi la Fiera rappresenta una delle manifestazioni più importanti della Valle e la Mostra è divenuta occasione utile per gli allevatori per confrontare gli animali e valutare lo stato di selezione raggiunto (Brignone, Martini, 2001) [24]. La marchiatura spetta al Consorzio L’Escaroun [25] (in occitato piccolo gregge) per la valorizzazione della pecora sambucana il cui compito è di garantire la tracciabilità del prodotto dall’allevamento alla vendita. Nel 1992, l’Escaroun ha avviato la vendita in forma associata della carne di agnello sambucano attraverso la creazione della cooperativa Lou barmaset, adibita alla commercializzazione degli agnelli provenienti dalle aziende ubicate nei Comuni della Valle.

Come detto, mentre la Comunità Montana ha operato dal punto di vista del recupero genetico-zootecnico della Sambucana e della costruzione di una rete di commercializzazione legata ai suoi prodotti, gli sforzi profusi dall’Ecomuseo della Pastorizia, impegnato sotto il profilo della valorizzazione culturale della pastorizia della Valle, si stanno rivelando altrettanto significativi dal punto di vista economico.

In questo contesto, il progetto “Mappa di comunità” promosso nel 2000 dall’Ecomuseo, pensato per ragionare con la comunità locale su quali e quanti fossero gli elementi, materiali e immateriali, portanti del territorio (Martini, 2006) ha fatto emergere, e confermato, come la pastorizia e l’allevamento rappresentino ancora oggi due elementi cardine nell’immaginario e nella funzionalità di questa Valle. Pertanto, mentre la Comunità Montana lavorava negli ultimi anni per coniugare questa rinnovata consapevolezza con l’opera di recupero effettivo della razza sambucana, l’Ecomuseo ha puntato, parallelamente, alla valorizzazione culturale della pastorizia e dell’allevamento in Valle Stura; un’azione impostata intorno ad un lavoro di ricerca storica che facesse riscoprire e che pubblicizzasse le relazioni con la pastorizia francese e la pianura della Crau [26], dove per decenni i pastori della Valle hanno “fatto la Routo[27], prestando la loro manodopera ai grandi proprietari provenzali di greggi. Questa collaborazione tra l’Ecomuseo della Pastorizia e la Maison de la Transhumance [28] si è concretizzata nel progetto La Routo - sulle vie della transumanza tra le Alpi e il mare, che supporta la nascita di una rete transfrontaliera per la valorizzazione dei mestieri, dei prodotti e del patrimonio della transumanza (Fabre, 2012) ponendosi come obiettivo la realizzazione di un itinerario escursionistico che valorizzi entrambi i territori grazie ad un turismo sostenibile, rispettoso delle strutture identitarie di questi luoghi. La pastorizia e l’antica Routo di Provenza, percorsa fin dal XIV secolo dai pastori della Valle Stura con le greggi in cammino verso la pianura francese della Crau , si pongono in questo modo come elementi costitutivi di un paesaggio da sempre segnato dallo scambio culturale e sapienziale, dove i pastori e gli allevatori del luogo hanno curato l’estetica e determinato la funzionalità di questo territorio (Zanini, 1997).

Malgrado la pastorizia e l’allevamento in Valle Stura abbiano evidenziato segnali di ripresa incoraggianti, non hanno tuttavia trovato quel rilancio auspicato dalla Comunità Montana e dall’Ecomuseo della Pastorizia all’epoca della costituzione del progetto. Gli allevatori/pastori mostrano di apprezzare il tentativo di recupero della pecora sambucana, giudicata facile da gestire, ben adattabile alle varie condizioni del luogo, funzionale alla vendita della carne e all’auto-sostentamento famigliare (formaggio, latte, lana). Detto questo, se gli stessi attori hanno sottolineato con favore il lavoro svolto dai due enti locali, hanno altresì evidenziato come permangano complicazioni legate alla gestione e all’esiguo numero dei capi.

A questo proposito, benché tutti gli allevatori affermino di aver incrementato i propri ricavi anche in virtù dei finanziamenti europei garantiti per questa razza protetta, nessun intervistato ha dichiarato di poter sopravvivere economicamente senza un sussidio aggiuntivo garantito da almeno un componente del nucleo famigliare. Inoltre, è emerso come solo con un numero di capi significativo di almeno 200-250 pecore sia possibile pensare ad un guadagno concreto in questo genere di attività (Biffi, 2014). I problemi riguardanti l’accessibilità ed il costo dell’alpeggio, la predazione nonché il peso della burocrazia sanitaria e amministrativa (Fossati, 2012) rappresentano gli ostacoli più evidenti della completa rinascita economica dell’allevamento ovino in questo territorio, sottolineando inoltre la problematica lontananza delle amministrazioni comunali, di quella provinciale e regionale.

Se il merito della Comunità Montana e dell’Ecomuseo è di aver creato una rete economica basata sulla commercializzazione del prodotto – che ha permesso la sopravvivenza degli allevatori già in essere – rimane tuttavia urgente la necessità di facilitare la vendita dell’agnello all’interno della Valle e di agevolare un mercato ancora troppo statico, penalizzato dalle evidenti difficoltà morfologiche di questa zona e dai costi elevati rappresentati dall’attività pastorale in Valle.

Il lavoro svolto dai due Enti, sotto il profilo culturale zootecnico, sta offrendo un’immagine ancora vitale della pastorizia e dell’allevamento in Valle Stura (con le ricerche svolte a livello storico, la salvaguardia di una categoria lavorativa e le reti di collaborazione tessute con la Francia) anche se, nonostante gli sforzi compiuti, l’attività denota ancora un’evidente difficoltà di ricambio generazionale all’interno della categoria. Rimane infatti insufficiente l’azione di coinvolgimento di nuove figure da inserire nell’allevamento ovino; un fattore che potrebbe rivelarsi problematico per il prosieguo dell’attività negli anni a venire.

Come anticipato, il presupposto in base a cui non sia possibile pensare o applicare deduttivamente progettualità specifiche nel nome generico della sostenibilità prende corpo nell’analisi dei processi evidenziati nell'etnografia, dove alle contingenti condizioni storiche, culturali, politiche ed economiche presenti nelle due aree si aggiungono gli interessi politici, associativi ed istituzionali che interessano il territorio di riferimento.

L’attività etnografica si è rivelata imprescindibile per lo svolgimento di questa ricerca. Per poter “leggere” un territorio ed interpretarne le dinamiche, era necessario compiere uno studio che permettesse di cogliere i punti di vista, i vissuti, i malcontenti, le necessità della popolazione locale nonché le modalità di interpretazione e di rappresentazione della località esercitate dagli stessi abitanti. Per quanto necessarie, l’analisi economica, storica e geografica esigevano di essere coadiuvate da un approccio olistico e complesso, che individuasse e potesse interpretare le pratiche sostenibili messe in atto dalle popolazioni osservate in rapporto alle dinamiche presenti in questi contesti.

La condizione di marginalità (geografica, culturale, sociale) che contraddistingue entrambi i contesti osservati determina non solo una concezione di sostenibilità differente dalle dichiarazioni dei centri decisionali di governance e pianificazione territoriale, ma anche una volontà di resistere e di reinventarsi attraverso il mantenimento e la valorizzazione della propria ricchezza paesaggistica e culturale. Infatti, dall’attività di osservazione e ricerca compiuta in Valle San Martino e in Valle Stura di Demonte, è appunto emerso che in queste due aree marginali gli attori in gioco costruiscono attivamente le rispettive pratiche di ri-territorializzazione (Raffestin. 2004), salvaguardando e ri-valorizzando le proprie peculiarità territoriali (aree verdi-agricole/agricoltura-pastorizia) in risposta alle contingenti condizioni di crisi in cui si trovano. In entrambi i contesti, queste specificità sono costituite da beni materiali o immateriali, inalienabili ed indissolubilmente legati all’identità storica di questi luoghi e delle loro comunità.

Le pratiche analizzate nelle due aree risultano inoltre caratterizzate da relazioni di reciprocità e di “auto mutuo aiuto” (Mance, 2003), che hanno contribuito alla nascita di forme di scambio modellate sulle peculiari caratteristiche del luogo e sulla salvaguardia delle comunità con il proprio territorio. Per questo motivo, un indicatore di sviluppo su cui vale la pena riflettere concerne il costituirsi di legami cooperativi all’interno delle due Valli, sebbene in entrambe le zone la percezione di lontananza (in qualche caso di opposizione) delle amministrazioni locali rispetto agli attori socio-economici osservati stia contribuendo a smantellare quel necessario senso di fiducia che inizialmente accompagnava le azioni progettuali.

Sono inoltre diversi i comportamenti manifestati dai vari enti locali. Differenze significative sono emerse nel modo di agire dei due Ecomusei, delle relative Comunità Montane e delle stesse amministrazioni locali nell’ascoltare e interpretare i bisogni degli attori economici e sociali del territorio. Per quel che concerne l’azione ecomuseale, l’Ecomuseo della Pastorizia mostra un elemento innovativo rispetto all’Ecomuseo della Valle San Martino – impegnato nella sola salvaguardia dei beni archeologici e architettonici di interesse storico – vale a dire il duplice sforzo di salvaguardare e ottimizzare il patrimonio culturale e naturale della Valle promuovendo, al contempo, strategie mirate al rilancio economico di quest’area marginale (Martini, Pianezzola, 2001). Le stesse Comunità montane hanno messo in evidenza distinte modalità di intervento sul territorio e diverse strategie di sostegno ai gruppi promotori (Associazione Agricoltori) o agli attori interessati (pastori/allevatori), con il prevalere, nel caso della Valle San Martino, di un supporto iniziale ma non continuativo, diversamente dall’affiancamento continuo espresso in Valle Stura. Ugualmente alcune giunte hanno fornito il proprio supporto a seconda dell’azione progettuale, del contesto e delle Associazioni interlocutrici, mentre altre hanno fatto prevalere la loro opposizione o un atteggiamento immobilista.

La scarsa collaborazione tra gruppi promotori, comunità, enti locali e amministrazioni comunali si sta rivelando il motivo principale di una mancata concretizzazione dei progetti economici e sociali pensati nelle due Valli. Se la via che parte dalla promozione e dal tentativo di ri-valorizzare gli elementi culturali (significato della pastorizia e dell’agricoltura sostenibile) ambientali (salvaguardia del paesaggio) e colturali (promozione del cibo di nicchia) presenti nei rispettivi territori si rivela essere una strategia percorribile per sostenere una progettualità volta alla ri-localizzazione (Rabhi, 2004) funzionale degli equilibri sociali, ambientali ed economici, questa azione non può tuttavia prescindere dalla compartecipazione attiva di tutte le realtà del territorio; un impegno che deve esprimersi nella difesa dei luoghi e del patrimonio, materiale e immateriale, presente in essi. Per questo motivo, le due azioni territoriali non possono essere definite, ad oggi, delle dimostrazioni efficaci per la realizzazione di località sostenibili.

In entrambe le Valli la mancata concretizzazione degli obiettivi preposti è da imputarsi ad una mancata negoziazione tra Enti locali, popolazione coinvolta ed amministrazioni comunali.

In Valle San Martino, secondo i soci dell’Associazione, l’azione progettuale necessita di essere reimpostata attraverso attività comuni di salvaguardia e di ripristino delle esigue terre presenti in Valle, mediante l’istituzione di un polo di molitura, stoccaggio e trasformazione dei prodotti ottenuti nonché per mezzo di un’efficace azione di sostegno alla rete economica della Valle, che si basi sulla valorizzazione degli articoli alimentari territoriali.

L’insufficienza dell’azione condotta dall’Associazione non può essere ricondotta alla sola erosione del suolo agricolo nei Comuni in questione. Infatti, la rete economica locale pensata dall’Associazione Agricoltori non risulta adeguatamente supportata dagli enti territoriali (amministrazioni comunali, Comunità Montana, Rete turistica) così come l’attività di sensibilizzazione, promozione e divulgazione del cibo locale e delle filiere biologiche agro-alimentari, intrapresa dai soci, non trova riscontro, a livello di investimenti, nell’operato degli organi politici e culturali della Valle (Comuni ed Ecomuseo).

In Valle Stura, la mancata concretizzazione dell’azione di ri-localizzazione (Rabhi, 2004) avviata dalla Comunità Montana e dall’Ecomuseo sembra essere ostacolata, tra le diverse cause, da un operato non funzionale delle amministrazioni comunali ai fini dell’intervento. I protagonisti dell’azione, tecnici e allevatori/pastori coinvolti, lamentano nell’operato dei Comuni una scarsa azione di ripristino e di pulizia dei sentieri che conducono al pascolo e affitti troppo alti degli alpeggi. Oltre a ciò, dopo la denuncia del Presidente dell’Associazione Difesa Alpeggi Piemonte [29], Giovanni Dalmasso, è tornato recentemente d’attualità il problema della speculazione degli alpeggi, un fenomeno che vede coinvolti numerosi Comuni montani del Piemonte [30], accusati di ricevere ingenti somme di denaro dai canoni di affitto degli alpeggi (non tutelando i malgari e i pastori locali) per mano di “speculatori” esterni interessati al sistema di contributi della PAC basato sul titolo/ettaro [31]. A livello sovracomunale, si registrano proteste nei confronti della Provincia e della Regione riguardo all’insufficiente gestione del fenomeno predatorio, che costringe gli allevatori a ricorrere all’assunzione di pastori professionisti che sorveglino i capi nei mesi dell’alpeggio.

La strada intrapresa dalla Comunità Montana e dall’Ecomuseo ha quindi ottenuto risultati notevoli per quel che concerne il mantenimento, la promozione ed il rilancio dell’allevamento e della pastorizia a livello zootecnico e culturale. Inoltre, la rete economica istituita intorno alla vendita dall’agnello e dei prodotti ricavati dalla Sambucana sta mobilitando un mercato locale che, altrimenti, non avrebbe avuto possibilità di sopravvivere. Tuttavia, risulta indispensabile garantire agli allevatori un numero di capi sufficiente ad assicurare un ritorno economico che garantisca la copertura dei costi sostenuti e un guadagno necessario per ulteriori investimenti.

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[1] Tarozzi (1998) individua nella self reliance l’autopromozione di una progettualità endogena, in grado di contare sulle proprie forze, senza la quale parlare di sostenibilità non avrebbe senso.

[2] Lando, F., Narrare i luoghi . Consultabile all’URL: http://www.scuolabap.polito.it/uploads/docpubb/8/lando.pdf (data di ultimo accesso: 01-07-14).

[3] Lando, F., Narrare i luoghi . Consultabile all’URL: http://www.scuolabap.polito.it/uploads/docpubb/8/lando.pdf (data di ultimo accesso: 01-07-14).

[4] Comunità di pratica (Lave, Wenger, 2006) esprime una teoria dell'apprendimento che denota il coinvolgimento nella pratica sociale come il processo fondamentale attraverso cui impariamo e diventiamo quelli che siamo. Né l'individuo né l'istituzione sociale costituiscono l’unità primaria di analisi, che è invece quella “comunità operativa” formata da persone che svolgono delle attività in comune in un certo arco di tempo. In questa prospettiva, gli individui della comunità apprenderebbero mediante la pratica in una condizione di “partecipazione periferica legittima” (Lave, Wenger, 2006) agendo in modo interattivo per instaurare legami di cooperazione sociale costruendo così la propria identità all’interno del gruppo. L’apprendimento e il susseguente ruolo degli singoli nella comunità non sarebbero perciò stabiliti a priori da una struttura che preforma l’esperienza, ma si delineerebbero attraverso le modalità d’azione manifestate dagli individui stessi (Brown, Duguid, 1995).

[5] La ricostruzione del luogo, «non può iniziare dai grandi sistemi né dalla grande pianificazione, ma dalla riconquista molecolare di sapienza ambientale e dai microequilibri locali che da essa promanano» (Magnaghi 1991:43).

[6] La Scuola territorialista italiana nasce all’inizio degli anni Novanta in Italia per opera di alcuni docenti e ricercatori di urbanistica e di sociologia che hanno deciso di coordinare la loro attività di ricerca in ambito universitario e CNR. Tra i maggiori esponenti ricordiamo: A. Magnaghi (Università di Firenze), G. Ferraresi (Politecnico di Milano), A. Peano (Politecnico di Torino), E. Trevisiol (IUAV), A.Tarozzi (Università di Bologna), E. Scandurra (Università di Roma “La Sapienza”), A. Giangrande (Università RomaTre), D. Borri (Università di Bari) e B. Rossi Doria (Università di Palermo). Consultabile all’URL: http://www.jannis.it/blog/Approccioterritorialista.pdf (data di ultimo accesso: 12-07-14).

[7] Un esempio di come questo processo stia dando riscontri positivi è rinvenibile nel caso della Valle Grana (CN). Come espresso nel programma territoriale integrato “La valle del biologico: sviluppo e innovazione in Valle Grana”, la sinergia costituitasi tra la Comunità Montana, il Centro di Assistenza Tecnica sul biologico e Biovalgrana, una cooperativa che raggruppa circa 130 aziende agricole biologiche con l’obiettivo di promuovere, vendere e commercializzare prodotti controllati e certificati, ha condotto al ri-orientamento di un’agricoltura rispettosa delle risorse ambientali circostanti, combinando i metodi tradizionali di produzione a una ricerca di stampo avanzato. In questo scenario, la scheda dell’azienda regionale per gli insediamenti montani, mostra come l'indice riguardante la produzione, realizzato a partire dai dati sul sistema produttivo e sul turismo, fornisca un panorama dagli esiti sostanzialmente positivi. Se, al seguito di questi interventi promossi dalla Comunità Montana, si è ottenuto l’incremento di una notevole varietà di produzioni, che hanno dato vita alla realizzazione di un modello di sviluppo alternativo e a basso impatto ambientale, a livello sociale, i dati demografici mostrano come dal 1981 al 2006 la popolazione sia cresciuta del 23,8%, in netta controtendenza rispetto alle Valli cuneesi e, più in generale, piemontesi. Il Rapporto sulle Comunità montane piemontesi, che fornisce un quadro di sintesi sulle principali componenti socio-economiche che influiscono sullo stato di marginalità o dinamicità di un'area, indica che la Val Grana risulta poco marginale se rapportata alla graduatoria, con una percentuale di forza lavoro e un tasso di attività superiore a quello medio della montagna cuneese. Informazioni consultabili ai seguenti URL: http://www.comune.cuneo.gov.it/uploads/media/11_pass_agr_4_pp_01.pdf Regione Piemonte, “Insediarsi in Valle Grana”; http://www.regione.piemonte.it/montagna/montagna/rurale/dwd/mis341_attuaz/vallegrana.pdf (data di ultimo accesso: 12-07-2014).

[8] Per un approfondimento delle tematiche inerenti al capitale sociale, rimando alla lettura di: Putnam R. 1993, La tradizione civica nelle regioni italiane , Milano: Mondadori; Putnam R. 2004, Capitale sociale e individualismo , Bologna: Il Mulino; Forno F. 2011, La spesa a pizzo zero. Milano: Altraeconomia.

[9] Istituito nel 2009 per volontà dell’Ecomuseo, il corso per operatori ecomuseali, coordinato da Cristina Grasseni, aveva l’obiettivo di formare un gruppo di esperti che potesse lavorare al progetto “Mappa di Comunità della Valle San Martino” e a successive iniziative legate al territorio.

[10] La Valle San Martino comprende i Comuni di Calolziocorte, Carenno, Erve, Monte Marenzo, Torre de’ Busi e Vercurago, per quanto riguarda il territorio lecchese; Caprino B.sco, Cisano B.sco e Pontida fanno invece parte della Provincia bergamasca. I dati del 2001 riportati dal Centro Studi della Valle San Martino indicano un numero complessivo di 33.915 abitanti: Consultabile all’URL: http://www.centrostudivalsanmartino.com/val_s__martino.htm (data di ultimo accesso: 01-07-2014).

[11] Si tratta di orticoltura adagiata sia in piccoli spazi sia a pieno campo, dove si produce ogni tipo di ortaggio adatto ad altitudini che si aggirano tra i 500 e i 700 metri. Attualmente sono attive tra i soci le seguenti produzioni: ortaggi, cereali minori, miele, zafferano, confetture, prodotti trasformati (legna da ardere e da pali), allevamento di pecore, capre e maiali.

[12] L’idea seminale del progetto ecomuseale nasce da un gruppo di otto persone partecipanti al corso per operatori ecomuseali coordinato da Cristina Grasseni. Il progetto, ampliato in un secondo tempo da un totale di sedici persone, fu sviluppato da quattro operatori presenti tra gli otto ideatori iniziali. L’équipe di lavoro, composta da dieci residenti della Valle San Martino e da sei persone non residenti ma conoscitori della zona (tra cui il sottoscritto) annoverava appassionati di storia locale, volontari delle associazioni del territorio, studenti universitari, architetti e ricercatori. Il mio ingresso nell’équipe di lavoro avvenne nel settembre 2010, quando cominciai a prender parte alle riunioni del gruppo e alla uscite sul territorio, che solitamente avvenivano in concomitanza con gli eventi fieristici della Valle. Nell’arco di nove uscite sul territorio il nostro gruppo raccolse 478 questionari stabilendo che il risultato del progetto Mappa di comunità dovesse essere in primo luogo uno strumento facilmente fruibile dagli abitanti della Valle rivelandosi al contempo funzionale dal punto di vista della promozione turistica.”. Biffi O. 2014, Visioni marginali. Un’indagine comparativa sui processi di transizione ed innovazione sostenibili in due aree rurali periferiche, Tesi Dottorato: Università degli Studi di Bergamo.

[13] Per un approfondimento del movimento gasista in Italia invito alla lettura di: Grasseni C. 2014b, Seeds of trust. Italy's Gruppi di Acquisto Solidale (Solidarity Purchase Groups), Journal of Political Ecology vol 211, 78-192; Valera L. 2005, Gas, gruppi di acquisto solidali – chi sono, come si organizzano e con quali sfide si confrontano i GAS in Italia, Milano: Terre di Mezzo; Saroldi A. 2001, Gruppi di acquisto solidali. Guida al consumo locale, Bologna: Emi.

[14] Spiga & Madia è un progetto nato dall’alleanza tra alcuni mugnai, agricoltori, panificatori e consumatori allo scopo di ricostruire una filiera del pane biologico interamente gestita in un territorio di circa 50 km di raggio. Questo esperimento, promosso da una comunità di “consumatori consapevoli”, costituisce un tentativo di superare la figura del “consumatore” come utente passivo, per approdare a quella di “co-produttore”, di soggetto mosso da un bisogno concreto di far nascere progetti condividendone con il produttore la realizzazione nella condivisione del rischio imprenditoriale. Con l’intento di ricreare sinergia tra agricoltura di pianura e quella di montagna, l’Associazione Agricoltori ha deciso di aderire al progetto diventando uno dei vertici più collaborativi dell’intera filiera in quanto a fornitura di segale. De Santis G. Spiga & Madia. Consultabile all’URL: http://des.desbri.org/spigamadia/progetto-spiga-emadia (data di ultimo accesso: 01-07-2014).

[15] È interessante notare non solo come questa attività di valorizzazione dei cereali minori abbia preso corpo in altre Valli collinari e montane (Val Gresta, Vallecamonica) dalle simili caratteristiche geografiche, climatiche e sociali (spopolamento), ma come gli intenti espressi convergano nei seguenti punti: recupero delle aree agrarie abbandonate a bosco e a incolto; aumento della biodiversità ambientale; introduzione di specie erbacee miglioratrici della fertilità del terreno; incremento del reddito agricolo in modo indiretto e diretto; organizzazione di microfiliere locali (Maschera, Tomasi, 2011).

[16] Tra queste, lo Scagliolo si è posto nella storia di Carenno come indubbio elemento agroalimentare distintivo del paese. Come spiegatomi dagli stessi membri dell’Associazione, la denominazione Scagliolo di Carenno è data dal tipo di seme e dal fatto che la sua purezza originaria fosse riscontrata nel territorio di Carenno, dove ancora oggi qualche famiglia del paese ne fa uso. Mapelli, N., “Progetto di recupero e valorizzazione del patrimonio varietale del Mais da polenta (varietà Scagliolo): risorsa alimentare e culturale locale nell’area della montagna di Carenno” – FEARS Programma di Sviluppo Rurale 2007-2013 Misura 321/d “Servizi essenziali per l’economia e la popolazione rurale”.

[17] «Il ceppo della Bianca di Como è lo stesso della Quarantina Bianca genovese. Questo tubero venne diffuso alla fine dell’800 a partire dal comasco. Gli agricoltori della montagna comasca e lecchese lo scambiavano con i prodotti della pianura brianzola, fino all’Appennino ligure» (Mapelli, 2011a); Mapelli, N., “Progetto di rilancio e valorizzazione della patata di Oreno”. Consultabile all’URL: http://www.ruralp.it/content/archivio_pfolioallegato_file/5/sommario_progetto.pdf (data di ultimo accesso: 12-07-14).

[18] “Eccezion fatta per gli abitanti di Monte Marenzo, dove la tradizione agricola ha radici ben salde e il rapporto con la terra e le aree verdi è divenuto oggetto di tutela da parte dell’amministrazione comunale con la stesura del recente PGT (2012), l’agricoltura, nel resto della Valle San Martino, non trova nelle parole degli intervistati lo stesso seguito e la medesima risonanza. A fronte di un’evocazione delle questioni agricole riscontrato negli abitanti di Monte Marenzo pari al 40,9%, si registra nel resto della Valle come il dato cali fino al 23%”. Biffi O. 2014. Visioni marginali. Un’indagine comparativa sui processi di transizione ed innovazione sostenibili in due aree rurali periferiche. Tesi di Dottorato: Università degli Studi di Bergamo.

[19] La Valle si trova nella zona sud-occidentale di Cuneo; a livello amministrativo è suddivisa fra i Comuni di Argentera, Sambuco, Pietraporzio, Vinadio, Aisone, Demonte, Moiola, Gaiola, Valloriate, Rittana, Roccasparvera e Borgo San Dalmazzo. «Essa prende il nome dal suo fiume principale, la Stura, che confluisce nel Tanaro presso Cherasco, dopo aver lambito Cuneo e Fossano e percorso un tratto dell’alta pianura Piemontese» (Soldati, 1978).

[20] Stando ai dati relativi all’ammontare della popolazione residente si coglie immediatamente la percezione dello svuotamento subito da queste zone. Se in Valle Stura nel 1901 vi erano infatti 20.329 abitanti, nel 2001 gli abitanti censiti ammontavano a 5.084 (esclusa Borgo San Dalmazzo). Lo spopolamento. Consultabile all’URL: http://www.tradizioneterreoccitane.com/public/editor_files/file/manuale/31-33.pdf (data di ultimo accesso: 31-08-13).

[21] Le ripercussioni di questo fenomeno si sono manifestate sulle condizioni sociali e sulle aspettative economiche del territorio, quando il continuo decremento demografico, causato dall’abbandono da parte della popolazione locale, ha determinato mutamenti territoriali tali da comportare una perdita dell’identità e della qualità dei luoghi. Gullino P. Larcher F. Caser M. Devecchi M. XXXI Conferenza italiana di scienze regionali. Salvaguardia e valorizzazione del paesaggio bioculturale della Valle Stura di Demonte. Consultabile all’URL: http://www.grupposervizioambiente.it/aisre_sito/doc/papers/Gullino%20Larcher.doc (data di ultimo accesso: 01-07-14).

[22] Per un approfondimento più specifico del tema della pastorizia e della risorse pascolive nella storia della Valle Stura consiglio la lettura di Draios . Quaderni dell’Ecomuseo della Pastorizia n.1 anno 2008 e n.2 anno 2009.

[23] I motivi che hanno condotto alla scomparsa quasi totale di questo ovino sono dovuti principalmente all’incrocio sistematico della Sambucana con arieti di altre razze per ottenere agnelli di taglia più consistente e più pesante. Benché gli allevatori avessero raggiunti i risultati sperati, il meticciamento ha causato una minor resa di carne, un netto calo qualitativo della lana e una minore adattabilità all’ambiente (Martini, 2001).

[24] Ricorda Grasseni (2003) come emerga una vera e propria estetica dalle pratiche e dal discorso che caratterizza l’allevamento e le selezione artificiale. «L’apprezzamento della bellezza delle forme animali e la reputazione sociale dell’abilità dell’allevatore vanno di pari passo: entrambi richiedono la partecipazione a una “visione del mondo”, che dirige la nostra attenzione ed è informato a convenzioni estetiche e di ordine morale. L’estetica dell’allevamento è organizzata attorno a una visione abile, sviluppata nella pratica dell’allevamento, in particolare attraverso l’esperienza di sviluppare un “occhio” per gli animali. La visione abile costituisce dunque un punto di ingresso in un contesto sociale ed estetico» (Grasseni, 2003:183).

[25] Il Consorzio conta oggi circa settanta soci allevatori.

[26] «Collocata nell’antico delta della Durance, a est di Arles, la pianura della Crau è una delle ultime steppe dell’Europa occidentale. Questa grande distesa piatta, ricoperta di pietre grandi come il pugno – i ciottoli depositati dalla Durance – è una terra di tradizione pastorale. Gli uomini vi allevano pecore da cinquemila anni» (Lebaudy, 2012:82).

[27] «Fare la Routo così si indicava la transumanza […] un lavoro che ha plasmato gli aspetti sociali, culturali e di tradizione dello spazio geografico compreso fra la Valle Stura e la Bassa Provenza. I pastori di mestiere, originari delle Valli Stura, Maira e Grana, erano uomini specializzati e fidati ai quali i grandi proprietari provenzali della Crau affidavano le greggi per condurle in montagna» (Testa, 2007:5). Questo antico detto, Fare la Routo , è inoltre divenuto il titolo della mostra permanente istituita nel 2000 presso l’Ecomuseo della Pastorizia di Pontebernardo (CN).

[28] Situata nella Crau francese, «l’Associazione riunisce allevatori, esperti di agricoltura, di ambiente e di scienze umanistiche e sociali, operatori culturali e rappresentanti locali» (Fabre, 2012:169).

[29] Associazione difesa alpeggi Piemonte. Consultabile al sito: http://adialpi.jimdo.com (data di ultimo accesso: 20-07-14).

[30] E’ doveroso sottolineare che i Sindaci della Valle da me intervistati ribadiscono con fermezza la loro estraneità al fenomeno, confermando la correttezza della procedura dei bandi comunali legati all’assegnazione dei pascoli.

[31] Come scritto da Paolo Cagnan in un articolo del 12 settembre 2012, il problema non è certamente delimitabile al Piemonte: «I pascoli che hanno preso in affitto, in molti casi, non li hanno neppure mai visti. I soldi europei, invece, quelli sì. Una truffa vera e propria, ai danni della Ue e del suo sistema di aiuti pubblici all'agricoltura. Truffa a volte legalizzata, con manovre speculative che si giocano sul filo delle norme, ma non sempre: i Nuclei Antifrodi Carabinieri (NAC) starebbero indagando su alcune società lombarde, ma la questione finirà presto anche davanti alla Corte dei conti europea, che potrebbe chiedere a svariate aziende italiane la restituzione di ingenti somme, indebitamente incassate. Li hanno ribattezzati "pascoli di carta": il sistema è semplice e complicato al tempo stesso. Sintetizzando, lo si potrebbe riassumere così: agricoltori di pianura, perlopiù veneti e lombardi, prendono in affitto centinaia di ettari di alpeggi d'alta quota (Trentino-Alto Adige, Piemonte, Lombardia, ma anche Abruzzo) per aumentare virtualmente la superficie agricola utilizzata dalle proprie aziende e riscuotere i premi riconosciuti da Bruxelles nell'ambito della PAC, la politica agricola comunitaria. Il fenomeno delle frodi nel settore agro-alimentare è tutt'altro che nuovo, ma il filone dei "pascoli di carta" sta assumendo dimensioni sempre più estese, provocando la rabbia degli agricoltori onesti». Consultabile all’URL: http://espresso.repubblica.it/attualita/cronaca/2012/09/12/news/la-truffa-dei-pascoli-fantasma-1.46509 (data di ultimo accesso: 21-07-14).