La signora di Blida

Vincenzo Matera


Recensione a Laura Faranda, La signora di Blida, Armando Editore 2012.

Uno dei tratti maggiormente caratterizzanti il sapere antropologico è la produzione di conoscenze controintuitive. Questa capacità è legata all’impianto fortemente storico-culturale che gli studi antropologici hanno acquisito e che ha prodotto l’idea che la conoscenza è forgiata culturalmente e emerge in relazione a forme di vita e organizzazione sociale differenti. Una visione che si è affermata in antropologia grazie alle intuizioni di Franz Boas riprese dai suoi allievi sin dai primi decenni del Novecento. Contro il realismo, scaturito dal passaggio attraverso illuminismo, positivismo e razionalismo, le posizioni storiciste hanno contribuito a minare le ingenue epistemologie empiriste a sostengo di concezioni del linguaggio scientifico come mero “specchio della natura” (Hollis and Lukes 1982).

Ciò è particolarmente vero in quel settore dell’antropologia culturale che è l’etnopsichiatria. Che la malattia possa essere parte di un dominio culturale è fortemente contro il senso comune forgiato dalla tradizione biomedica, secondo la quale la malattia è paradigmaticamente biologica. Il fatto stesso di affermare – come ha fatto fra i primi Ruth Benedict (1934) – che anormalità e patologia sono inscindibili da un’interpretazione culturale, è una sfida alle teorie empiriche sul rapporto fra malattia e rappresentazione culturale.

La protagonista prima evocata poi sempre più presente alla mente del lettore tra le righe del libro di Laura Faranda, La signora di Blida (Armando Editore 2012) è, per molti aspetti, un emblema della capacità di alimentare controintuizioni mediante una pratica antropologica e etnografica, fatta di ascolto, sensibilità, intelligenza e naturalmente conoscenza. Suzanne Taïeb è la nostra protagonista, laureata in Medicina presso l’Università di Algeri nel 1939, con una specializzazione in psichiatria conseguita dopo tre anni di internato nell’ospedale di Blida. Blida è la città di Franz Fanon, ci ricorda Laura Faranda nell’introdurre l’affascinante figura di Suzanne, e l’ospedale di Blida è quello da cui Fanon si dimise denunciando l’inadeguatezza di principi psichiatrici espressione di logiche discriminanti e al servizio dell’apparato coloniale. In un tale contesto ideologico, Suzanne Taïeb si laurea in una sorta di “poetica della dissonanza”, modulando l’intuizione della complessità del mondo fenomenico che ha davanti con gli insegnamenti teorici del suo professore, rigida espressione del monocentrismo biomedico e ideologico occidentale.

Così, già l’epigrafe della sua tesi, è un programma:

“Da dove vengono la malattia e la guarigione?” chiese a Dio il Profeta Mosé.

“Da me”, gli rispose Allâh.

“Cosa fanno dunque i medici?”

“Guadagnano il loro pane e alimentano la speranza nel cuore del malato, finché io non rapisco la sua vita o gli restituisco la salute”.

Un programma all’insegna dell’ascolto – in senso anche letterale, dato che la signora di Blida parlava molto bene l’arabo - del mondo vissuto dei pazienti e del conseguente ampliamento degli orizzonti interpretativi, in cui ai canoni e alle certezze della psichiatria occidentale e della biomedicina si intreccino in modo interlocutorio saperi locali e modi culturali di parlare del disagio e della sofferenza.

La tesi di Taïeb si intitola Le idee di influenzamento nella patologia mentale dell’indigeno nord-africano. Il ruolo delle superstizioni. Le idee di influenzamento sono indici, tracce, universi narrativi, metafore di voci interiori invisibili, che rimandano a un sostrato culturale e storico individuabile e che è possibile ricostruire e interpretare.

In Italia analoghi esiti – fortemente storicisti - li raggiunse Ernesto De Martino con le sue celebri ricerche sul tarantismo (1961), e con le riflessioni che da esse scaturirono. De Martino, oltre che fondamentali intuizioni legate all’incontro etnografico e alla costruzione del sapere antropologico, ha introdotto la categoria di crisi della presenza ancora oggi indispensabile per interpretare il legame tra il malessere individuale e il contesto culturale e sociale.

Proprio come la ricerca di De Martino, anche la figura di Suzanne Taïeb, nella ricostruzione di Laura Faranda (e nella nota di Piero Coppo che ne delinea il posizionamento negli interstizi tra psichiatria e etnopsichiatria), appare ruotare intorno alla contraddizione centrale non solo dell’etnopsichiatria, ma dell’antropologia medica nel suo complesso: come conciliare il pensiero scientifico, e quindi il sapere biomedico, con il pensiero, il sapere e le pratiche di altre culture, non segnate dal passaggio attraverso illuminismo positivismo, razionalismo? Certamente molti cambiamenti nella composizione dell’ambiente sociale e culturale contemporaneo hanno contribuito a renderci, noi occidentali, più “relativisti”, più propensi a accogliere interpretazioni e visioni del mondo “altre”, altri gusti alimentari, altre estetiche, altre filosofie di vita, altri modelli educativi. La consapevolezza della nostra storicità e il desiderio di rispettare forme di conoscenza alternative alla nostra si arrestano tuttavia nella maggior parte di noi di fronte alle evidenze che ci presenta la biomedicina e alle sue conoscenze. Anzi, come ricorda Byron Good (1999), ci viene imposto quasi un “imperativo morale”: condividere tali conoscenze con le persone le cui credenze sono di scarso aiuto per una terapia efficace.

Suzanne Taïeb, ormai molti decenni fa, già non assunse un simile approccio “paternalista”, neppure con i pazienti psichiatrici, sforzandosi di mettere sempre in discussione l’idea della malattia come entità biologica o psicofisica universale, e dei “sintomi” come espressioni dell’esperienza – altrettanto universale - della malattia. Decodificare i sintomi mettendoli in rapporto con le loro cause “dentro” il corpo e con le entità patologiche categorizzate entro il sapere biomedico per poi intervenire sui meccanismi della malattia è un percorso più complesso, più articolato di quanto i paradigmi psichiatrici non ammettano. L’antropologia medica, in modo fortemente controintuitivo, appunto, alimenta una maniera di pensare alternativa e anche complementare - esprime una concezione dell’antropologia come un sapere “fragile” che consente di percepire tutti gli altri “saperi” culturali (Matera 1997) - rispetto al sapere medico, costruisce un contesto teorico che smonti il senso comune e espliciti i presupposti ideologici alla base della convinzione che il sapere medico progredisce.

Il volume, di Laura Faranda, La signora di Blida. Suzanne Taïeb e il presagio dell’etnopsichiatria, Armando Editore, si compone di due parti principali, una prima parte dedicata alla ricostruzione del quadro teorico, storico e ideologico entro il quale si colloca la formazione e poi l’attività di Taïeb, e una seconda parte che propone la tesi di Suzanne Taïeb nella traduzione italiana a cura della nipote, Colette Taïeb.

Una lettura densa e ricca di spunti intellettualmente preziosi, e un importante contributo di storia della disciplina, che rende omaggio a una figura di studiosa e di etnografa, anche militante, di cui si è parlato troppo poco, e che rivive, grazie all’intuizione contingente e al successivo sistematico lavoro di ricerca di Laura Faranda, nelle testimonianze di chi l’ha amata e ne ha ricostruito il ricordo.

Reference List

Benedict R. (1934), Anthropology and The Abnormal, in «Journal of General Psychology», X, 59-82.

De Martino E. (1961), La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano.

Good B. (1999), Narrare la malattia, Edizioni di Comunità, Torino.

Hollis M., Lukes S. (1982), Rationality and Relativism, Basil Blackwell, Oxford.

Matera V. (1997), Conoscere senza riconoscersi. Identità e intenzionalità nell’incontro etnografico, in Fabietti U. (a cura di), Antropologi e Informatori, Carocci, Roma.