La dieta mediterranea: mito e storia di uno stile di vita

Gaia Cottino


Recensione a Elisabetta Moro, La dieta Mediterranea: mito e storia di uno stile di vita Il Mulino, Bologna 2014

Cosa ci sarà mai ancora da studiare sul cibo, ora che tutto è omologato, precotto, che la classe media non cucina più, che produzione e consumo sono sempre più separati? Se lo chiedeva l’antropologo Sidney Mintz in un celebre articolo del 2002 dal titolo Anthropology of Food and Eating. A distanza di qualche anno, il libro di Elisabetta Moro, La dieta Mediterranea: mito e storia di uno stile di vita (Il Mulino), è la migliore risposta al quesito: ancora moltissimo.

Il cibo, del resto, è stato oggetto d’interesse antropologico fin dagli esordi della disciplina, sebbene in tempi più recenti l’ossessione per la magrezza e il controllo del peso ne abbiano trasformato l’odore, il sapore e la storia in un insieme asettico di principi nutritivi, lasciando che diventasse appannaggio esclusivo di medici e nutrizionisti. In misura crescente l’attenzione attorno al corpo e al cibo si è direzionata verso un paradigma biomedico che percepisce il corpo come una macchina e il cibo come mero nutrimento della stessa, dimenticando che sia il cibo sia il corpo sono profondamente influenzati e modellati dal contesto in cui sono inscritti. Il cibo è un fatto sociale e culturale e le preferenze alimentari sono intrinsecamente legate ai meccanismi di autoidentificazione sociale. E il corpo, come il cibo, non è solo un’entità biologica e materiale, ma è il prodotto di processi storici, sociali e culturali.

Sulle tracce del brillante biologo e nutrizionista americano Ancel Keys, «inconsapevole pioniere della decrescita felice» che ha il merito di «non aver mai isolato il corpo dalla cultura in cui è immerso» (2014:75), il volume di Moro ripercorre le tappe della scoperta della dieta mediterranea -iscritta nel 2010 nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Intangibile dell'UNESCO- ricucendo lo strappo tra cibo, corpo e cultura.

Keys, noto ai più per avere creato la razione K -il kit tascabile che garantiva il fabbisogno energetico giornaliero dei soldati americani in guerra- nel secondo dopoguerra sceglie a sua patria elettiva il Cilento: qui, dopo anni di studio e di intensa "osservazione partecipante" mette a punto uno stile alimentare che si origina nelle consuetudini e nel buon senso gastronomico di una delle aree più longeve del sud d'Italia. A Keys si deve la paternità della odierna piramide alimentare e la grande intuizione che una dieta ricca in grassi rappresentasse la causa delle malattie cardiovascolari che tanto affliggevano la popolazione americana del secondo dopoguerra, e, di conseguenza, una dieta povera in grassi su modello dello stile alimentare del mezzogiorno ne potesse rappresentare la terapia preventiva: «come dire che la ricchezza, almeno a tavola, è più pericolosa della povertà» scrive Moro (2014:30). Sono infatti numerose le sue pubblicazioni a riguardo, tra le quali spiccano due monografie destinate al successo: Eat well and stay well: The Mediterraney way e The benevolent bean, pubblicate con la moglie Margaret Haney.

Raccogliendo le testimonianze di chi ha conosciuto e frequentato i coniugi Keys negli anni della loro permanenza cilentana – a cominciare dall'anziana governante Delia, autorevole portavoce dei saperi gastronomici locali – Elisabetta Moro ci consegna le memorie di una dieta mediterranea che è anzitutto uno stile di vita, un'etnografia del gusto, l'eredità di un modello alimentare ancora sensibile al regime pitagorico o alla scuola eleatica. E che poco ha a che spartire con le privazioni alimentari a cui ci sottoponiamo stagionalmente, con vocazione penitenziale. La stessa etimologia greca della parola dieta (διαιτα), del resto, non rimanda al solo modo di mangiare ma ci indica anche un modo di stare al mondo, alla ricerca di un equilibrio tra sfera domestica e territorio, tra moderazione e qualità, tra salute e piacere. Il mangiare insieme produce inoltre coesione e ordine sociale; e il Mediterraneo spesso trova le sue consonanze e le sue contaminazioni storiche proprio attorno ai saperi condivisi di una cultura alimentare.

Caratterizzata dal consumo di una grande varietà di vegetali, frutta, olio e grani, la dieta mediterranea, oltre a garantire una buona salute fisica, diventa così anche concretizzazione etico-politica di saperi immateriali. Si trasforma da prodotto culturale a produttrice di cultura. Non a caso il riconoscimento dell'Unesco ha avuto importanti ripercussioni sulle dinamiche identitarie contemporanee dell'area cilentana.

Il processo di patrimonializzazione a cui la dieta mediterranea viene sottoposta è lungo e tortuoso, ma, come ci fa notare l’autrice, è rappresentativo del valore stesso che il cibo viene lentamente acquisendo nell’Europa del XXI secolo: da oggetto, e prodotto, a pratica sociale. Oggetto di patrimonializzazione, scrive Moro, sono infatti «le pratiche, le poetiche, le retoriche, nonché le politiche sociali che trasformano il cibo in operatore simbolico, fattore comunitario e marcatore identitario» (2014:35).

La dieta mediterranea, sottolinea l’autrice, entra così nelle retoriche locali, viene risemantizzata e dà origine a nuove tipicità alimentari, a elaborati processi di ancestralizzazione, a improbabili accreditamenti arcaici, a inattendibili reinvenzioni autoctone. Un tentativo di appropriazione archeo-salutista che la studiosa respinge, dimostrando che di dieta mediterranea non ne esiste una sola, e neppure una più autoctona o indifferente alla pluralità di incontri. Essa cambia con il tempo, è legata alle politiche dell’identità dei diversi contesti locali ed è costellata di alimenti alloctoni che ne inficiano l'unicità di matrice magno-greca. Nessuna dieta mediterranea sarebbe possibile senza il pomodoro delle Americhe, il grano dell’Asia e le olive del Medio Oriente.

Una volta restituito il territorio al suo presente storico, il libro ci consente di emancipare la dieta mediterranea da facili stereotipi etici ed estetici e di guadagnare infine la visione geo-antropica di un paesaggio simbolico attraversato da un immenso patrimonio di influenze e di saperi, dove il benessere – il wellbeing che gli antropologi hanno contrapposto al più semplice concetto di salute – si dilata in uno scenario molto più ampio. Consegnando l’edonismo gastronomico della frugalità, della qualità e della stagionalità al memorabile precetto ippocratico: lasciate che il cibo sia la vostra medicina e che la vostra medicina sia il cibo.